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Trentatre anni dopo, l’inviato del Corriere della Sera racconta «La mia intervista più imbarazzante: Nicolae Ceausescu».

Considerato anche in Italia (per scelta di comodo) un riformatore e un pugnace avversario dell’Urss, il dittatore rumeno venne rovesciato, quindi arrestato e ucciso nel 1989. Aveva sottoposto il suo popolo a stenti e privazioni. Poi si era spacciato per eroe rifiutando di intervenire contro Praga. Ma il «mastino di Bucarest» era forse il più pericoloso tra i leader dell’Est europeo.

di Antonio Ferrari



Mi è stato chiesto, un nugolo di volte, quale sia stata nella mia vita professionale l’intervista più appagante e quella più umiliante. Ho intervistato centinaia e centinaia di personaggi, e migliaia di persone comuni. A quella domanda, anche oggi, non saprei rispondere perchè ciascuno, a suo modo, mi ha offerto frammenti di verità e generosi frammenti di bugie. Però, dietro al ruolo di un leader, ho sempre cercato l’essere umano. Con le sue debolezze, i tic, le paure, i turbamenti e il sudore improvviso. Tutti mi hanno lasciato qualcosa. Quello che mi ha lasciato meno degli altri è l’ex presidente-dittatore rumeno Nicolae Ceausescu. Ce l’ho messa tutta, ma ho scoperto un uomo intelligente e miserabile che mezzo mondo — Italia compresa — considerava un riformatore, un pugnace avversario dell’Urss, quindi un eroe. Interessata menzogna (qui sotto, la parte dell’intervista pubblicata il 30 dicembre 1984 sulla prima pagina del Corriere).



La rottura con l’Urss e il modello Corea del Nord.
Non amo le scuole ideologiche, compresa quella delle Frattocchie di italica memoria comunista, e il fatto che Ceausescu fosse quasi un’icona dei progressisti dell’Occidente mi aveva insospettito. È vero che il «Conducator» non aveva inviato le sue truppe al fianco degli altri eserciti del Patto di Varsavia, che intervennero in Cecoslovacchia per distruggere la primavera di Praga di Alexander Dubcek. E’ vero che, smarcandosi dai fratelli di fede, offesi dalla guerra dei Sei Giorni, Bucarest aveva deciso di aprire un’ambasciata a Tel Aviv, ma soltanto per incentivare il ritorno (a pagamento) in Israele di migliaia di ebrei. Vero tutto, ma il «mastino di Bucarest», coccolato dall’Ovest, era forse il più pericoloso. Negli ultimi tempi, prima dell’appuntamento con il destino, Ceausescu era andato in visita nella Corea del Nord ed era rimasto affascinato da una macchina militare temibile. Era tornato a casa eccitato. Come se dicesse a se stesso: noi non saremo da meno. E allora la campagna per incentivare le nascite, le nuove privazioni, i nuovi ricatti.

Con Tel Aviv la «compravendita» di ebrei.
E’ in quel clima che il regime mi invitò in Romania per fargli un’intervista. Non perchè io fossi più accettabile degli altri giornalisti, ma perchè ero inciampato su due storie imbarazzanti: il libro-rivelazione del generale romeno Ion Mihai Pacepa, fuggito in Occidente, che descriveva le porcherie e le follie del regime; e la scoperta, che denunciai tra i primi, di un traffico di ebrei tra Bucarest e Tel Aviv. Cinquemila dollari per un uomo, 3mila per una donna, 2.500 per un figlio o giù di lì. Naturalmente, sconti interessanti per famiglie particolarmente numerose. Ceausescu vendeva e Tel Aviv comprava (il giornalista del Corriere Antonio Ferrari con il dittatore Ceausescu nel dicembre 1984).

 



Dicembre ‘84, quello strano invito.
Accadde che un funzionario dell’ambasciata rumena a Roma decise di contattarmi e mi venne a trovare a Milano per chiedermi se mi interessasse un’intervista a Ceausescu. Come si poteva rifiutare? Compilai in fretta le dieci domande e la risposta fu un sì incondizionato. «Parta pure per Bucarest». Era dicembre del 1984. Due giorni dopo ero già all’albergo Intercontinental nella capitale rumena, in attesa di una telefonata. Che arrivò quasi subito. Un funzionario degli Esteri voleva vedermi. Mi disse, senza tanti preamboli, che due domande non andavano bene, che avrebbero «fatto soffrire il presidente». Mi chiedeva insomma di toglierle. Presi tempo. Sapevo che il Corriere della Sera teneva a quell’intervista. Feci il guascone.

Di notte tra la gente in coda per il pane.
La notte dopo, alle 4.30, uscii di stanza, colbacco in testa, giubbotto e sciarpa. Il portiere dormiva. Mai avrebbe immaginato che un italiano se ne andasse a spasso di notte nel gelo di Bucarest. Vidi una coda. Era arrivato un carico di pane, fatto con pasta di riso, e qualche pezzo di cioccolata. La gente si ribellò. «Sei un occidentale, vieni a sottrarci il nostro cibo». Spiegai che non avevo alcuna intenzione di comprare. Volevo solo vedere, per poi documentare come il regime trattava il popolo rumeno. Tornai in albergo e preparai due domande alternative sulla fame generalizzata, per sostituire quelle in odor di censura. Dopo 30 minuti di scambi assai pepati, il funzionario si arrese: «Restiamo con le domande precedenti».

Niente registratore: il leader era balbuziente.
Ma due giorni dopo, per l’intervista, scoprii in meno di venti minuti che: 1) non potevo usare il registratore perchè Ceausescu era balbuziente. Compresi l’imbarazzante dettaglio e accettai. 2) Non potevo prendere appunti perchè ci avrebbero pensato due stenografi del palazzo, mentre un interprete, dietro le mie spalle, traduceva simultaneamente. Avrei poi ricevuto le risposte di Ceausescu in albergo. La condizione numero 3 mi raggiunse — come una sciabolata — quando già mi stavo avviando per stringere la mano al presidente: «Lei ponga le domande per numero. Domanda numero uno, domanda numero due...». Mi imposi a fatica di non esplodere. Il Corriere e io volevamo quell’intervista. Non vi racconto gli sgradevoli gorgoglii del mio stomaco, durante un’ora e 15 minuti di tortura, ad ascoltare Ceausescu balbuziente mentre l’interprete traduceva. A un certo punto, turbato dal mio nervosismo, l’interprete mi sussurrò: «Stia calmo, la prego. Abbia pazienza» (nella foto sotto Gorbaciov, al centro, con Ceausescu, sulla destra) .




Con Gorbaciov, accusato di essere una spia bulgara.
L’intervista, come giudicai più tardi, leggendo il trascritto, era di ottimo livello, nel senso che le risposte del presidente erano intelligenti e acute. Il Corriere, a conclusione del mio articolo, annotò: «Esclusiva mondiale». Mi sembrò eccessivo. Il conto lo pagai con un anno e mezzo di ritardo, dopo l’irruzione sulla scena sovietica del riformatore Mickhail Gorbaciov. L’allora direttore del Corriere Piero Ostellino chiese a me e al collega Mino Vignolo di andare a raccontare l’effetto Gorbaciov nei Paesi comunisti. A me toccarono Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania. Bucarest non poteva negarmi il visto, perchè poco prima avevo intervistato il «Genio dei Carpazi». Arrivai, chiesi subito di incontrare il responsabile dei rapporti tra Romania e Unione Sovietica, e fui accolto dal gelo. Anzi, dalle accuse più infamanti. Di essere un provocatore, persino una spia bulgara perchè ero stato spesso a Sofia per seguire l’inchiesta sull’attentato a Giovanni Paolo II. Non ho mai amato i servi, i camerieri e i ruffiani, e reagii come avrebbe agito un collega americano. Rivendicai, con qualche epiteto poco gentile, i miei diritti di giornalista libero. Il funzionario rispose di aspettare in albergo (sotto, nella foto Reuters, Nicolae Ceausescu tiene l’ultimo discorso al balcone prima di essere ucciso).




A pranzo con la spia della Securitate.
Un giorno mi invitarono a pranzo: eravamo in quattro. Il mio interprete (spia della Securitate, cioè il servizio segreto), e due colleghi dell’Agerpress, l’agenzia di stampa rumena, che di «colleghi» avevano ben poco. Ho raccontato tutti i dettagli di questa amara pagina professionale nel libro «Sgretolamento» (Edizioni Jacabook, 2013) sui retroscena dei miei incontri prima della caduta del Muro di Berlino. A Bucarest mi drogarono, poi mi portarono — quasi di peso — all’incontro che avevo chiesto insistentemente. Crollai. Avevo perduto le forze. La sera stessa, riavutomi, dissi nella hall dell’Intercontinental tutto quello che pensavo su Nicolae Ceausescu, sulla moglie chimica e vampira Elena e sul regime che obbligava il popolo alla fame. Mi misero in lista nera. «Persona non grata». Rientrai in Romania grazie al presidente della mia Sampdoria che doveva giocare in Coppa con la Dinamo di Bucarest (squadra della Securitate). Paolo Mantovani, visto che mi volevano imporre di tornare a casa, disse: «O entra lui o ritiro la squadra». Non mi diedero un visto, me ne stamparono tre. Dopo poco il regime di Ceausescu crollò, e lui e la moglie, in fuga, furono uccisi dopo un processo sommario (nella foto sotto, Ansa, il cadavere di Ceausescu, dopo la fucilazione).

Fonte: http://www.corriere.it



 

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