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Come si viveva nelle trincee della Grande Guerra quando le armi tacevano e non si combatteva? Che equipaggiamento avevano i nostri soldati e cosa mangiavano? Le dure regole della disciplina imposte quali erano? A queste e a molte altre domande cercherò di rispondere in quest’articolo descrivendo ogni aspetto quasi come se fossi presente sul campo.

Forse non sarà semplice al lettore rendere l’idea di come dovesse essere la vita dei soldati nelle trincee situate al fronte poiché di questo aspetto si sa e si parla poco mentre delle battaglie e degli atti di eroismo compiuti, libri di storia e ricerche approfondite ne hanno dato lunghi resoconti. Come mai? Generalmente si tende a restringere la Grande Guerra a questo, alle vicende politiche, alle battaglie o agli armamenti portati sul campo dai due eserciti tralasciando, o semmai ricordando poco, che i veri artefici di quelle battaglie erano i soldati, persone asserragliate in questi corridoi di terra e pietra che convivevano con le inclemenze del luogo, la montagna: neve, pioggia, ghiaccio e il freddo, vero nemico. Ma veniamo alle trincee. Furono uno dei principali simboli della Grande Guerra. Quando i vari governi europei compresero che non si sarebbe trattata di una guerra veloce, con lo stabilizzarsi dei diversi fronti europei, iniziarono ad essere scavate centinaia di chilometri di trincee, dal nord della Francia fino all’Europa orientale. Comparvero anche sul fronte italiano, in pianura, sull’altopiano carsico e in alta montagna, in mezzo alla neve. Questi musei all’aperto oggi visitabili, profondi poco meno di due metri, furono per quattro anni la “casa” dei soldati, il luogo dove i militari impegnati al fronte vissero per settimane, se non addirittura mesi, tra una battaglia e l’altra. Dopo l’iniziale impatto con la guerra di posizione i soldati italiani cercarono di rendere ‘accoglienti’ le trincee nel miglior modo possibile, adattandole alle condizioni del terreno e all’andamento delle varie offensive. Leggendo le cronache dell’epoca si scopre quale fosse la vita di un soldato al loro interno, come dormissero, mangiassero e quali fossero i problemi di tutti i giorni. In molte testimonianze si possono leggere gli stati d’animo di quelle persone, le loro emozioni, le paure e la voglia di scappare da quell’inferno; ma si possono cogliere anche le cronache di vita reale, le dure regole imposte dai comandi, le punizioni per coloro che si rifiutavano di combattere e il bisogno di affidarsi alla religione e alla fede. Le trincee, come il lettore può facilmente immaginare, si sviluppavano lungo chilometri di linea, correndo talvolta vicinissime a quelle del nemico e per questo esposte al fuoco di fucileria o bombe a mano. All’interno della trincea la vita era molto difficile. In prima linea, riparati in strutture più o meno provvisorie, i soldati vivevano con il costante terrore di essere prima o poi colpiti da qualche cecchino austriaco o dal ricevere l’ordine di prepararsi all’assalto finendo esposti al fuoco delle mitragliatrici nemiche. Queste esperienze di vita segnò in maniera traumatica molti uomini per tutta la vita, una volta tornati dalla guerra, come dimostrano i molti casi di malattie mentali sviluppate.

 

 

Gli equipaggiamenti dei soldati.
Le battaglie al fronte, quasi sempre erano combattute in montagna ad alte quote. Alle brigate di fanteria si aggiunsero gli Alpini, giovani reclutati in quelle zone abituati a spostarsi su quei terreni ed a sopportare le rigide temperature. Per oltre due anni gli alpini rimasero in quota combattendo, trasportando materiali, armi, viveri e costruendo baraccamenti, appostamenti e trincee. Lo stupore aumenta nello scoprire come gli equipaggiamenti distribuiti agli Alpini, all’inizio del conflitto, furono assolutamente inadatti alla vita in quota. I soldati, nel clima rigido della montagna, dovettero infatti combattere con le sole dotazioni estive e con strumenti tutt’altro che moderni. In testa indossavano dei semplici berretti (al contrario degli elmi austriaci), ornamenti tipici del XIX secolo non adatti a fermare le pallottole sparate dal nemico. I vestiti di lana erano pochi e le scarpe erano del tutto inadatte per resistere al terreno pietroso e a volte fangoso delle montagne; col tempo infatti si trasformavano in suole di legno che provocavano dei seri problemi ai piedi. Non essendo in dotazione, molti uomini dovettero costruirsi degli occhiali da sole utilizzando dell’alluminio, per prevenire i danni dei raggi solari. Sempre parlando di strumenti in dotazione è imbarazzante osservare che i soldati, all’inizio del conflitto, non avevano pinze tagliafili in grado di creare velocemente dei varchi tra i reticolati nemici, posizionati tra la prima linea offensiva e la prima linea difensiva, divenendo quindi facili bersagli per il nemico. A partire però dalla primavera del 1916 iniziarono ad essere distribuite nuove dotazioni che contribuirono a rendere meno dura la vita sul fronte. Apparvero i primi elmetti, inizialmente consegnati ai reparti addetti a tagliare i fili dei reticolati e poi anche alle sentinelle, le calzature furono più robuste mentre ai reparti impegnati in montagna vennero distribuiti gli scarponi chiodati, molto più adatti per gli spostamenti. Entro l’inverno comparvero anche i primi sovrascarpe pesanti ed i primi cappotti. Le borracce per l’acqua erano di legno, assolutamente anti-igieniche, mentre per scaldarsi i soldati utilizzavano piccoli fornelletti per le vivande; le tende per dormire, quando c’erano, erano inutilizzabili con la pioggia; per questo motivo i soldati furono costretti a crearsi degli alloggi di fortuna per la notte, in buche coperte da un semplice telo o in anfratti del terreno, dormendo gli uni attaccati agli altri per non disperdere il calore. Le ferite, frequenti così come i congelamenti, venivano curate con lo stesso grasso utilizzato per lucidare le calzature mentre le amputazioni, anche in casi curabili, erano all’ordine del giorno. Per tutto il 1915, poi, i militari combatterono con uniformi grigio-verdi, facilmente individuabili dai nemici in mezzo al manto nevoso; solo a partire dall’anno successivo furono distribuite divise di colore bianco, garantendo maggiore mimetizzazione.

 

 

La cucina e la disciplina in trincea.
Quello dell’alimentazione, sia per i militari che per la popolazione civile, fu uno dei grandi problemi nel corso della Grande Guerra. Le battaglie e le razzie provocarono devastazioni nei raccolti e lo svuotamento dei magazzini causando alle famiglie nelle retrovie carestie e malattie dovute a carenze alimentari gravi. A causa di questo scempio alimentare il rancio dei soldati divenne ogni giorno più esiguo e scadente. La scarsa qualità del cibo era dettata dal fatto che i pasti (pasta o riso), cucinati nelle retrovie e trasportati durante la notte, arrivavano in trincea come blocchi collosi: il brodo spesso si raffreddava e si trasformava in gelatina mentre la carne ed il pane, una volta giunti a destinazione, erano duri come pietre. Il problema della qualità venne però parzialmente sopperito dalle quantità distribuite. L’esercito italiano dava ogni giorno ai propri soldati 600 grammi di pane, 100 grammi di carne e pasta (o riso), frutta e verdura (quando c’erano), un quarto di vino e caffè; l’acqua potabile raramente superava il mezzo litro al giorno. Prima degli assalti ai soldati si distribuivano dosi di cibo più consistenti con l’aggiunta di gallette, scatole di carne, cioccolato e liquori. Tra i vari aspetti affascinanti della vita in trincea, per chi le studia, vi è quello riguardante la disciplina e le punizioni a carico dei soldati. Si trattò di un fenomeno diffuso che coinvolse indistintamente centinaia di uomini. Luigi Cadorna, sin dall’inizio della guerra, aveva ordinato la massima severità per il mantenimento della disciplina e il rispetto dell’autorità a tal punto che questo atteggiamento, in seguito, si irrigidì sempre di più assumendo spesso i contorni di una spietata crudeltà. Per tutta la durata del suo incarico Cadorna, personaggio carismatico e controverso, rimase convinto che l’unico modo giusto per condurre una guerra fosse l’attacco ad ogni costo, senza badare alle conseguenze. Chi esitava o si rifiutava, veniva colpito alle spalle dai plotoni di Carabinieri. Anche la censura in trincea divenne ogni giorno più oppressiva. I soldati non potevano leggere giornali non autorizzati e le lettere scritte venivano controllate: esse infatti non potevano contenere informazioni diverse da quelle pubblicate dai giornali italiani e dovevano trasmettere entusiasmo per la guerra. Parallelamente, vennero ridotti al minimo anche i periodi di licenza. Chi non rispettava queste indicazioni rischiava la condanna al carcere militare. L’aspetto però più tragico e crudele di queste punizioni furono le condanne a morte a carico dei soldati, inizialmente utilizzate solo in casi di estrema gravità come la diserzione e lo spionaggio. Successivamente questo provvedimento si estese anche per i casi apparentemente meno gravi come il tornare in ritardo dopo una licenza oppure per essere stato sorpreso a riferire o scrivere una frase ingiuriosa contro un suo superiore. La condanna a morte avveniva per fucilazione. La medesima sorte poteva toccare a tutti quegli ufficiali che, anche per un solo istante, dubitavano della tattica imposta da un superiore. Con il proseguire della Grande Guerra gli episodi di crudeltà si moltiplicarono. Ovunque si verificassero disordini, piccole proteste o episodi di insofferenza verso le decisioni prese dai superiori si assistette a delle condanne a morte. Nel caso poi di un reato commesso da un gruppo di soldati la punizione era la decimazione.

 

 

La religione in trincea.
Abbiamo visto precedentemente com’era dura la vita dei soldati in trincea. Spesso questi soldati che andavano in battaglia erano poco più che diciottenni. Per molti di questi ragazzi la Grande Guerra fu l’avvenimento che segnò per sempre la loro giovinezza. La prima classe ad essere chiamata alle armi fu quella del 1896, cui seguirono via via tutte le altre fino alla famosa “classe ’99“, protagonista delle battaglie del 1918. Come successo in altre guerre, anche questa ebbe i suoi disertori e renitenti, coloro che, pur di non entrare nell’esercito e combattere, scelsero di fuggire. Chi prese questa strada fuggì all’estero, emigrando magari oltreoceano dove le possibilità di essere catturati era scarsa. Nell’Italia meridionale, dove la presenza dello Stato era meno sentita, i ragazzi sfuggiti alla leva si organizzarono nelle campagne. Altri invece decisero di disertare e questo, molte volte, coincideva col consegnarsi al nemico, sperando di trovare nei campi di prigionia austro-ungarici delle condizioni di vita migliori rispetto a quelle in trincea. Altri modi per non andare in guerra si trovano nelle migliaia di testimonianze di soldati che, una volta giunti al fronte, si finsero malati, pazzi oppure si autoinflissero delle ferite. I casi più comuni furono ferite da arma da fuoco ma non mancarono casi più gravi come bruciature, lesioni agli occhi e alle orecchie, gonfiori e assunzione di medicinali che potevano provocare delle reazioni allergiche. Moltissimi cercarono di ingannare i medici dell’esercito simulando delle malattie mentali. A differenza delle ferite, i medici fecero molta più difficoltà a capire chi stesse realmente simulando e chi no. La superficiale conoscenza della psiche umana e le tecniche primitive permisero a molti soldati di essere riformati e di tornare a casa; altri meno abili nel simulare, o meno fortunati, rimasero nei campi di battaglia. Per chi non aveva possibilità di fuggire o simulare una malattia mentale, e doveva rimanere nei campi di battaglia, convivendo continuamente con la presenza della morte, l’unica consolazione era nella religione, vissuta come fede o più semplicemente come superstizione. Questa necessità fu sentita dai soldati attraverso la presenza dei cappellani militari e dalla massiccia distribuzione di santini e materiale devozionale. In alcuni musei è oggi possibile vedere alcuni esempi di questo materiale devozionale distribuito in grandissima quantità nelle linee del fronte. Tantissimi santini, cartoline e libri di preghiere vennero stampati grazie al lavoro di alcune istituzioni religiose mentre invece le immagini religiose, le allegorie, le preghiere e le suppliche furono i soggetti principali che i soldati potevano vedere e leggere ogni giorno. In questi cartoncini si trovavano stampate la preghiera di pace di Papa Benedetto XV e l’immagine di Maria oppure si cercava di tranquillizzare il soldato con parole di accettazione per la morte vista come una fatalità. Dopo la disfatta di Caporetto santini e cartine devozionali cambiarono rispetto al passato. A causa della rigorosa censura vennero diffusi solamente immagini religiose dal valore chiaramente patriottico: la preghiera di Papa Benedetto XV fu considerata pacifista e venne quindi vietata mentre ai cappellani militari venne proibito, durante le predicazioni, di usare la parola “Pace”. Ciononostante, attraverso vari espedienti, questo tipo di materiale ‘proibito’ riuscì ad arrivare nelle mani e sotto gli occhi dei soldati fino all’ultima battaglia della Grande Guerra. Eccomi infine giunto alla conclusione di questo articolo nella quale ho voluto raccontare quello che può essere uno spaccato della Grande Guerra vista dalla parte dei soldati. Oltre ad essere un racconto ‘storico’ questo articolo vuole, in un qualche modo, ricordare i tanti soldati che persero la vita nelle fredde montagne e nelle trincee di pianura del fronte italiano.

Fonte: http://www.ilbattaglionedimenticato.it

 


 

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