Questo articolo vuole offrire uno sguardo inedito sulla battaglia di Waterloo, giacché il racconto della stessa è già stato pubblicato. La fonte d’ispirazione principale è il libro di Nick Foulkes: "Dancing in to the Battle. A Social History of the Battle of Waterloo", London, Phoenix, 2007.

 Il 18 giugno 1815 fu l’alba della fine di un mondo: l’imperatore Napoleone, dopo una rocambolesca fuga dall’Isola d’Elba, incrociò nuovamente la spada con i potenti d’Europa cercando di riconquistare il potere perduto. Alla notizia dello sbarco del piccolo corso, il re della Restaurazione Luigi XVIII raccolse i suoi bagagli per darsi alla fuga, mentre gli alleati che avevano composto la coalizione di Lipsia rimisero mani ai fucili, pronti per l’ennesimo scontro. Il duca di Wellington sperava in cuor suo che tutto si sarebbe risolto velocemente poiché gli anni di guerra in Spagna ne avevano segnato l’animo e lo stato di salute, tuttavia conosceva anche Napoleone e sapeva che l’unico modo per affermare il suo potere era con la guerra. La stagione estiva alle porte offriva un clima tiepido, le giornate dei militari scorrevano in pieno relax tra bivacchi, fiumi di gin e solo per gli ufficiali, feste mondane nei principali palazzi di Bruxelles. In questo clima festante, l’unico a non sollevare il calice al cielo era l’Imperatore dei francesi: doveva essere lui a prendere l’iniziativa poiché solo in questo modo avrebbe annullato lo svantaggio numerico delle sue truppe. Iniziava così la partita a scacchi tra due dei comandanti più apprezzati nella storia militare di tutti i tempi.

 



Il ballo della duchessa di Richmond.
Da diversi anni oramai alcune tra le più abbienti famiglie britanniche dimoravano in Belgio questo perché – a dispetto dell’ostentata ricchezza – vivere oltre Manica costava molto meno. Gli aristocratici inglesi avevano familiarizzato con quelli belgi e olandesi integrandosi nell’alta società grazie a feste danzanti, picnic all’aria aperta o galoppate tra i boschi. Il duca e la duchessa di Richmond vivevano in Belgio dall’autunno del 1814: portarono con se i loro cinque figli più giovani (due femmine e tre maschi) e una carovana di servitori di diciasette persone, incluso il tutore dei tre maschi tale Spencer Madan (1). Appena arrivata, la duchessa Charlotte animò subito l’ambiente organizzando eventi mondani nella sua lussuosa villa, sita in Rue de la Blanchisserie: era un ampio palazzo, con bellissimi giardini e uno spazio infinito per i giochi dei tre fanciulli. Tra i frequentatori più noti vi era nientemeno che il Principe d’Orange, un anglofilo sfegatato che nel 1811 divenne Aiutante di Campo del duca di Wellington in Spagna. Anche i tre figli maggiori dei Richmond erano nell’esercito: il conte di March si arruolò nel 13° Dragoni per poi diventare Aiutante di Campo di Wellington, lo stesso capitò al secondo figlio Lord George Lennox il quale militò per qualche tempo nel 9° Light Dragoon e poi nello stato maggiore del duca. L’ultimo, il più giovane, lord William Pitt Lennox affiancò il comandante in capo britannico al Congresso di Vienna. Il 12 giugno l’imperatore Napoleone lasciò Parigi per raggiungere l’armata in marcia verso Charleroi; la notizia destò preoccupazione tra gli abitanti di Bruxelles, compresa la duchessa di Richmond che indirizzò subito una missiva al duca di Wellington chiedendogli se – secondo lui – fosse opportuno organizzare un ballo la sera del 15. Il comandante inglese rispose di proprio pungo, rassicurando la duchessa che non vi era alcuna ragione plausibile per non farlo e che al momento non c’era nulla da temere. All’imbrunire del 15 giugno 1815 la duchessa aprì le sale della sua residenza per un ballo nel quale invitò circa duecento ospiti di cui la metà erano ufficiali superiori dell’esercito britannico. Tra i più illustri vi era il già citato Principe d’Orange, il duca di Brunswick, il conte di Uxbridge (comandante della cavalleria anglo-olandese) seguito dal generale Thomas Picton, Peregrine Maitland, William Ponsonby e William De Lancey: per alcuni di questi sarebbe stato l’ultimo ballo. Nessuno sapeva per che ora sarebbe arrivato Wellington impegnato, insieme al generale e ufficiale di collegamento prussiano Karl von Müffling, a preparare i piani militari per il giorno successivo. Verso mezzanotte il comandate inglese, insieme al prussiano, arrivarono alle villa; non appena arrivati in molti si affrettarono a chiedere notizie dal fronte, ma l’unica risposta di Wellington fu che l’indomani sarebbe sicuramente stato insieme alle sue armate, nulla di più. Nel complesso tutto l’establishment militare inglese era molto rilassato e come evidenzia lo storico comandante Henry Lachouque: “non vi era agitazione ne emozione sia a Bruxelles, sia nello stato maggiore. Gli ufficiali, Wellington per primo, scrissero alle loro famiglie parlando di grandi progetti per il futuro” (2). Dopo aver cenato di fronte ad una tavola riccamente imbandita, un fremito colse gli invitati: dal trambusto all’ingresso della villa sembrava essere arrivato qualche ospite inatteso. Era il tenente Henry Webster, aiutante di campo del Principe d’Orange che aveva con se un biglietto urgente da consegnare al duca di Wellington in persona. Per non sconvolgere gli astanti, l’ufficiale britannico fu invitato ad trattenersi lontano dagli occhi indiscreti delle signore: nel frattempo il comandante inglese avrebbe letto il suo messaggio. Webster, la cui uniforme era impolverata e sporca di fango, ricevette una sedia e un piatto di minestra così da rifocillarsi in attesa delle future istruzioni. Il suo arrivo fu notato da un’ufficiale della divisione Picton il quale lasciò un ricordo di quell’istante drammatico: “Verso le nove o le dieci di sera (l’orario è comunque sbagliato, poiché era mezzanotte) un dragone, ricoperto di fango e polvere, arrivò da comandante generale, portando un dispaccio dal fronte che impensierì il duca di Wellington” (3). Nonostante la discrezione, quasi tutti i militari intesero che si trattava di notizie riguardanti i movimenti dell’armata francese. Wellington chiamò immediatamente il duca di Richmond per farsi consegnare una mappa dei dintorni e si ritirò, insieme a Müffling, in una stanza appartata. Stesa la carta sulla scrivania esaminò attentamente la situazione: “Napoleone mi ha fregato!” – esclamò l’inglese – “egli ha guadagnato ventiquattr’ore ore di marcia su di me”. Dicendo questo indicò il crocevia di Quatre-Bras e con lo stesso tono esclamò: “Ordinerò ai miei soldati di dirigersi su quella strada, tuttavia non sarà li che lo combatteremo, bensì qui.” Il suo dito puntò su Waterloo. Napoleone lo aveva realmente ingannato poiché era riuscito a frapporsi tra le due armate – quella inglese e prussiana – tagliandone ogni linea di collegamento. Non c’era tempo da perdere: verso l’una di notte tutti gli ufficiali presenti a casa Richmond furono inviatati a lasciare la sala per raggiungere le loro rispettive unità. Wellington rincasò verso le due, ma ovviamente non riuscì a chiudere occhio anche perché sapeva di aver commesso un errore imperdonabile che poteva costargli gli esiti dell’intera campagna. Il mattino successivo la serata galante, i bastoni da passeggio e i foulard delle signore furono rimpiazzati da fucili, palle di piombo e polvere da sparo. La battaglia di Quatre-Bras, combattuta il 16 giugno, uccise numerosi soldati tra cui tre degli ospiti illustri di Madame Richmond: il duca di Brunswick, Lord Hay e il colonnello Cameron comandante del 92nd Regiment of Foot o meglio conosciuti come i Gordon Highlanders che proprio il 15 sera avevano deliziato gli ospiti con suoni di cornamuse e tipici balli scozzesi.

 


Verso la fine.
Il 18 giugno 1815, alle 8 del mattino, presso la fattoria di Le Caillou, Napoleone scese dai suoi ufficiali per fare colazione. Era di ottimo umore, anche se qualcosa lasciava presagire che presto o tardi sarebbe sorta qualche difficoltà. Aveva, infatti, piovuto tutta la notte e il terreno, intriso d’acqua, era ancora impraticabile per l’artiglieria. Nonostante questi fattori avversi, Napoleone accennò qualche battuta con i suoi marescialli, ma improvvisamente Nicolas Soult lo interruppe esprimendo compiacimento e ammirazione per l’avversario. Gli occhi grigi e profondi di Napoleone incrociarono il suo sguardo: “Perché voi siete stato battuto da Wellington allora lo considerate un buon generale?” – riferendosi alle cocenti sconfitte patite dal maresciallo in Spagna – “Ebbene io vi dico che Wellington è un cattivo generale, che gli inglesi sono pessime truppe e che ce sera l’affaire d’un déjeuner” (4). Dopo il primo colpo di artiglieria – sparato intorno alle 11.00, quindi fatalmente in ritardo sui piani dell’imperatore – fu tutto un altro scorrere di eventi. Waterloo rappresenta ancora oggi uno degli scontri più affascinanti della storia militare, ma quello che intriga maggiormente è lo studio dei comandanti che vi combatterono, i loro pensieri intimi e la psicologia con la quale affrontarono il duello. Napoleone e i suoi subalterni commisero errori gravi, ma in molti concordano sul fatto che l’imperatore era oramai un uomo stanco, debole di salute e con la sua celeberrima sensibilità tattica in fase decrescente. Fino all’ultimo credette nella vittoria, fino all’ultimo sperò che il rombo di cannone sul fianco della sua armata fosse quello di Grouchy, ma non fu così. Per ironia della sorte Napoleone fu sconfitto grazie ad una manovra da lui stesso ideata. Nonostante la rovinosa sconfitta, il giudizio postumo sul genio militare dell’imperatore rimase inalterato e il suo profilo politico e quanto significava per l’Europa, continuava a fare paura. La stessa mattinata del 18, intanto che Napoleone iniziava a fare colazione, il duca di Richmond ordinò ai suoi servitori di tenersi pronti a partire nel caso i francesi avessero vinto la battaglia. Non appena il duca udì il boato dei cannoni si precipitò a briglia sciolta per vedere lo spettacolo sanguinoso della battaglia, soprattutto perché due dei suoi prediletti figli stavano combattendo al fianco di Wellington. Il padre, fiero dei suoi ragazzi, non riuscì a trattenere l’emozione e sembra li abbia addirittura incitati a combattere, proprio come i cacciatori fanno tra loro mentre inseguono la volpe. Per i nobili la caccia è sempre stata la trasposizione della guerra in tempo di pace; perché dunque non vivere quella carneficina come tale? Gli orrori di quanto accaduto nella giornata del 18 toccarono la famiglia Richmond sotto forma di feriti, a Bruxelles ne arrivarono più di 8.000. La sera il duca e i suoi figli presero la carrozza per andare a vedere quanto era successo: la volpe, sebbene fosse ancora viva, stava scappando verso Genappe conscio che i suoi cacciatori l’avrebbero resa inoffensiva una volta per tutte in quale umida e fredda isola in mezzo all’oceano.

Fonte: http://www.difesaonline.it


Note.

(1) In totale i duchi di Richmond ebbero 13 figli di cui 7 femmine, i maschi più anziani erano nell’esercito e seguirono Wellington nella campagna della Penisola, mentre i tre più giovani arrivarono a Bruxelles insieme alla madre. Le figlie (Mary, Sarah, Georgina, Charlotte e Sophia) avevano un’età compresa tra i 23 e i 5 anni.

(2) Henry Lachouque: "Waterloo. La fin d’un monde", Lavauzelle, Paris, 1985, p. 173.

(3) Peter Hofschröer. 1815. "The Waterloo campaign. Wellington, his German Allies and the Battles of Ligny and Quatre Bras", London, Greenhill, 1998, p. 216.

(4) Andrew Roberts: "Napoleon & Wellington", London, Phoenix Press, 2001, p. 163.




 

Categoria: Storia
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