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Dopo l'incredibile e vincente attacco a Pearl Harbor, il Giappone doveva dare seguito al proprio atto d'aggressione, per raggiungere quegli obiettivi che nel linguaggio politico dei suoi leader venivano definiti come "Sfera della Coprosperità". Essi comprendevano tutte quelle risorse essenziali (petrolio, caucciù e stagno in primis) che una volta ottenuti avrebbero garantito la possibilità di continuare la guerra contro gli Stati Uniti.

 

 

Se proseguiamo nel considerare l'offensiva delle Hawaii come un'azione di carattere preventivo, i successivi movimenti nipponici si possono certo dire "conservativi" poiché pianificati per la sopravvivenza stessa del Giappone. Le materie prime di cui necessitavano le industrie pesanti giapponesi erano però, in massima parte, su territori appartenenti alle tradizionali potenze coloniali europee: Francia, Olanda e Regno Unito. Mentre i francesi, già duramente provati dalla sconfitta nella madrepatria, decideranno di consegnare l'Indocina senza lotta, il fiero temperamento degli olandesi e soprattutto dei britannici non permetterà la stessa conclusione per le Indie Occidentali e la Malesia. Nella visione a lungo termine della politica del Giappone in Asia, l'attacco ai colonialisti bianchi e la loro cacciata rientrava nel normale ordine d'idee di una nazione che volesse diventare egemone nel proprio continente. Ora, si trattava solo di anticipare i tempi.

Gli Inglesi furono i primi ad essere attaccati, nei loro possedimenti di Hong Kong. La ricca colonia, situata sulla costa cinese, era il vanto dell'Impero Britannico fino all'entrata in Cina dei giapponesi. Con la guerra cino-giapponese anche i commerci inglesi dovettero ridimensionarsi e, dal punto di vista tattico, l'isola di Victoria e i New Territories divennero indifendibili. Ma abbandonare dei sudditi di sua Maestà senza combattere sarebbe stata un'onta troppo grande da accettare, perciò fu organizzata una resistenza simbolica che si ridusse a sei battaglioni di fanteria, compresi due battaglioni di Canadesi inviati all'ultimo momento. Lo scontro cominciò all'improvviso il giorno 8 Dicembre 1941. Il reparto indiano che doveva difendere North Point e Aldrich Bay fu sbaragliato, aprendo la strada dell'isola Victoria agli assalitori. I Canadesi si ritirarono nella Penisola di Stanley, lasciando tutto il peso della difesa di Hong Kong sulle spalle dei Royal Scotts e dei Middlesex. L'opposizione fu dura, ma vana. Con gli attacchi sulla città si moltiplicarono gli incendi e si provocò il panico tra la popolazione civile, non preparata alla violenza della guerra. Il governatore inglese, Mark Young, decise di chiedere la resa proprio il giorno di Natale 1941.



La seconda Gibilterra.

La perdita inevitabile di Hong Kong non aveva per nulla scalfito le sicurezze dei Britannici che confidavano nell'inespugnabilità delle loro posizioni malesi. La città di Singapore venne portata ad esempio di perfezione difensiva, paragonandola alla rocca di Gibilterra. Si era discusso lungamente sulla necessità di trasformare il suo porto in una vera e propria base navale già prima della perdita delle postazioni in Cina e i lavori, fortemente accelerati, vennero portati a termine appena in tempo. Si decise di posizionare le strutture portuali verso l'interno dell'isola di Singapore, sullo stretto di Johore, anziché sul Canale Malese, per assicurare maggiore protezione. Basandosi sulle ormai sorpassate teorie della guerra marittima, la città venne fortemente fortificata in direzione del mare, posizionando batterie da 230mm a Tekong Besar e a Blakang Mati, mentre sul litorale il calibro delle armi diminuì a 150mm. Una potenza mai schierata prima! Venne trascurata solo la zona che dava sulla punta della peniso malese, giudicata troppo impervia per costituire una posizione d'assalto. La certezza di poter resistere da un minimo di 70 giorni ad un massimo di 124 anche sotto assedio, concesse al comando britannico ampi margini di manovra.

Ad aumentare il senso di sicurezza arrivò anche un rapporto dell'Intelligence Service inglese, che classificava l'esercito giapponese come arretrato e poco equipaggiato e oltretutto troppo lontano dalle sue basi operative per costituire una vera e propria minaccia. Solo la marina, secondo il giudizio delle spie inglesi, avrebbe potuto recare qualche danno se non adeguatamente contrastata. Proprio per evitare ciò, si mosse lo stesso Churchill. Dopo le disfatte europee, aveva assoluta necessità di conservare un minimo d'onore almeno contro il Giappone. Decise così di creare una forza navale di pronto intervento inviando delle navi da battaglia adeguate al compito che veniva affidato loro. Previste in un primo momento la Rodney e la Nelson, varate nel 1920, più la squadra delle quattro "R" (Royal Sovereign, Revenge, Resolution e Ramillies, già in linea nella Prima Guerra Mondiale), esse vennero poi sostituite da due veri gioielli della Royal Navy: la corazzata Prince of Wales e l'incrociatore Repulse. Queste due navi erano state tenute di riserva per contrastare la corazzata tedesca Tirpitz, ancorata nei fiordi norvegesi. Solo l'intervento del Primo Ministro le dirottò sul nuovo scenario asiatico. Si sarebbe dovuto inviare anche la portaerei Indomitable, ma per uno scherzo del destino, essa urtò uno scoglio appena fuori del porto di Kingston in Giamaica perdendo la possibilità di unirsi alle altre due grandi del mare fino alla completa riparazione delle avarie.

Dal punto di vista terrestre, le forze britanniche erano altrettanto imponenti. Esse allineavano le due brigate mobili di Singapore, il 3° Corpo d'armata Indiano, composto dalla 9a e 11a divisione, Sikhs e Penjabis (che al termine della campagna malese avrebbero avuto un gran numero di defezioni che avrebbero costituito un corpo di spedizione per l'indipendenza dell'India sotto la guida di Subhas Chandra Bose durante l'invasione giapponese della Birmania) un reparto di Gurkas oltre all'ottava divisione australiana per un totale approssimativo di 98.000/100.000 uomini, una capacità ritenuta più che sufficiente per sostenere una guerra tropicale contro un esercito reputato arretrato. Il Giappone avrebbe invece impiegato la 25a Armata, tale solo di nome, costituita da 17.230 combattenti, in pratica quattro soli reggimenti di fanteria più 54 carri armati e un numero imprecisato di velivoli imbarcati. Il rapporto di forze era quindi di 5 a 1.



La forza morale.

La grande sproporzione che si può notare tra le truppe in campo non deve però trarre in inganno. Un elemento fondamentale non deve essere dimenticato se si vuole giudicare oggettivamente la condotta delle operazioni in Malesia e cioè l'estrema preparazione militare e morale dei giapponesi. I soldati che sbarcarono a Kota Bharu, Patani e Singora, nel nord del Golfo della Malesia, non erano giovani coscritti, come al contrario accadeva tra i Britannici. I nipponici giungevano direttamente dalle regioni di Shangai e Canton in Cina, dove erano stati provati dal fuoco delle truppe nazionaliste. Avevano affrontato una traversata da leggenda, stipati nelle stive delle navi da carico, sopportando la convivenza forzata di tre uomini per mat (due metri quadrati) e la fame provocata dal razionamento che concedeva una sola pentola di riso ed orzo per ogni reparto. Temprati dalla ferrea disciplina dei loro superiori si sono uniti in uno spirito di fratellanza militare che probabilmente non è stato mai più eguagliato. Sanno di lottare per la sopravvivenza della madrepatria e non si lasciano andare a lamentele. Gli ufficiali non sono da meno. Trasportano a fatica la loro spada, richiamandosi alla tradizione dei samurai, al fianco della moderna rivoltella. Non hanno privilegi sulla truppa e ne condividono i disagi e le privazioni. Anche se non fosse bastata quest'enorme tempra morale, l'esercito giapponese possedeva una migliore cognizione della guerra nella foresta tropicale. Fu creato un apposito Centro Studi sull'isola di Formosa e gli allievi ufficiali che vi si diplomavano avevano imparato che "...la giungla è nostra amica. Essa si aprirà davanti a noi mostrandoci vie sconosciute ai nostri nemici, troppo corrotti dalla civiltà occidentale." S'insegnano anche concetti meno retorici e più pratici come ad esempio che non bisogna aver paura dei serpenti e delle formiche rosse (temutissime dagli inglesi), ma solo del sedalang, un possente bufalo dal carattere estremamente irascibile e di una piccola varietà di vespa di cui bastano cinque punture per andare incontro ad una morte certa.

I quattro reggimenti che si impegnarono in quest'avventura erano delle vere e proprie macchine da guerra, preparate al meglio per la loro missione. Anche il loro comandante, il generale Tomoyuki Yamashita, era l'uomo ideale per guidarli. Estremamente rude con i propri sottoposti diveniva crudele se non sadico col nemico. Sebbene dopo la guerra sarebbe finito sul patibolo per aver commesso atti contro l'umanità, egli era il leader ideale per condurre una task force attraverso cinquemila km di giungla.

Gli inglesi erano esattamente il contrario di quanto abbiamo detto fino ad ora. Abbiamo già parlato della scarsa determinazione delle truppe indiane. Per quel che riguarda la guarnigione di Singapore, bisogna ricordare che essa era composta anche da reparti provenienti dall'Inghilterra martoriata dai bombardamenti. Al loro arrivo nell'isola, molti si erano stupiti di come lì si vivesse ancora come se non fosse in corso nessun conflitto. Si davano grandi feste con centinaia di invitati, gli uomini giocavano a golf o a cricket e le donne proseguivano le loro interminabili partite a bridge nei circoli privati. Di fronte a tanta abbondanza fu inevitabile un certo rilassamento che finì col minare la disciplina militare. (E' abbastanza noto l'episodio di un soldato Australiano, Russell Brandon che pretendendo di farsi servire al bar del Raffles, si fece espellere in malo modo con grande scandalo dei ceti benestanti di Singapore) Poche delle unità schierate hanno una vaga idea di cosa sia la guerra nella giungla. Tra gli inglesi solo il 2° battaglione degli Argyle and Sutherland Highlanders si dimostrerà pronto, grazie all'addestramento che il suo comandante aveva impartito prima degli scontri. Gli Australiani confermeranno il proprio coraggio, ma anch'essi ebbero seri problemi di adattamento al clima e al territorio tropicale. Si arriva così alla nota più dolente e cioè agli uomini cui fui affidato il compito di organizzare la difesa. Il Comandante in capo del Sud Est Asiatico era sir Robert Brooke-Popham, il classico ufficiale coloniale più preoccupato di tenere a bada gli indigeni e del proprio aspetto piuttosto che un vero condottiero militare. Alle sue dipendenze, quale comandante dell'eterogenea armata della Malesia troviamo il generale Percival, preciso e pignolo fino all'esasperazione. A loro si deve aggiungere l'australiano Gordon Bennett che teoricamente avrebbe dovuto obbedire agli ordini dei due succitati, ma che con abile senso politico era riuscito ad ottenere dal proprio governo una certa autonomia decisiale che arrivava fino al diritto di rifiutare l'obbedienza.Come si può notare la convinzione di vittoria che apparteneva agli inglesi si basava principalmente sui numeri anziché sulla concreta situazione in campo. Un'incomprensione strategica che non avrebbe tardato a mostrare i propri limiti.



Scacco alla Royal Navy.

Cronologicamente precedente all'offensiva di Pearl Harbor (basandosi sul Greenwich Mean Time esso avvenne un'ora prima), lo sbarco dei giapponesi nella penisola malese si trasformò ben presto in un eroica avanzata ad un ritmo inimmaginabile, almeno per i quartieri generali occidentali. La disposizione delle forze britanniche era la seguente: le truppe australiane vennero mantenute a sud in vicinanza di Singapore, mentre il compito di respingere l'invasione venne affidato all'undicesima divisione indiana. Il piano, denominato Matador, non tenne però conto di alcuni particolari molto importanti, tra i quali il pessimo tempo che con piogge torrenziali fiaccò il morale degli indiani e ne diminuì la resistenza. I giapponesi anziché venir ricacciati in mare progredirono di 120 km in 60 ore. Prodigioso è il movimento della colonna sbarcata a Kota Bharu che attraversò la giungla verso Est infischiandosene della mancanza di vie di comunicazione. Ogni tentativo di arginare i nipponici risultò vano e per il Natale 1941utta la Malesia settentrionale cadde in mano ai soldati dell'imperatore Hirohito.

La sconfitta subita sulla terra avrebbe assunto proporzioni epocali se non fosse stata offuscata da una ben più tremenda che si consumò sui mari. La Royal Navy aveva affidato il comando della difesa dei mari del Siam all'ammiraglio Tom Phillips. Egli era, senza alcun dubbio, uno dei migliori comandati che la marina potesse offrire. Aveva solo un difetto che si dimostrerà decisivo. E' stato educato secondo le norme di guerra marina che erano dominanti fin dalla Prima Guerra Mondiale e cioè che si dovesse ingaggiare il nemico in mare aperto, senza tenere conto dell'evoluzione delle armi aeree. Phillips non era uno sprovveduto. Sapeva perfettamente quali potenzialità avessero gli aerei siluranti della Marina Imperiale Giapponese, ma riteneva sufficiente la forte contraerea delle proprie navi per evitare gli attacchi dal cielo. Inoltre essendo a conoscenza dell'attacco a Pearl Harbor, pensava che gli aerei impegnati in Malesia fossero di livello mediocre. Furono queste considerazioni a spingerlo in un'avventura l Golfo del Siam alla ricerca della Flotta d'invasione, contravvenendo al consiglio dell'ammiraglio Layton che avrebbe voluto mantenere sia la Prince of Wales sia il Repulse nelle vicinanze di Singapore per proteggere la città da eventuali sbarchi.

Invece l'otto Dicembre, la squadra Z che oltre alle due navi già citate comprendeva anche i cacciatorpediniere Electra, Express, Tenedos e Vampire, prese la via del mare. All'ultimo momento venne meno anche l'appoggio aereo da terra che fu dirottato sulla difesa delle posizioni della Malesia Centrale. Nonostante questo inconveniente, il morale sulle navi era alto. I marinai erano sicuri della propria superiorità rispetto alle imbarcazioni del nemico. Phillips aveva previsto di procedere fino a sera in cerca del nemico. In caso di mancato avvistamento, data la presenza di un mare molto agitato, la squadra avrebbe invertito la rotta per tornare a Singapore. Tutto procedette nella più assoluta tranquillità fino alle 20.00, quando gli uomini di guardia intravidero tre aerei all'orizzonte, troppo lontani per essere identificati. Rimase così il dubbio che essi fossero giapponesi. Poco dopo, la Tenedos segnalò di essere a corto di carburante e fu costretta a rientrare nel porto.

Un'ora più tardi col calare dell'oscurità venne ordinato di invertire la rotta. Il malcontento si diffuse tra l'equipaggio, frustrato dall'impossibilità di scontrarsi col nemico. Non sapevano quale fortuna avevano avuto, almeno per quel giorno! Contemporaneamente all'ordine di Phillips anche una squadra di bombardieri giapponesi era costretta a tornare alle proprie basi dopo aver cercato la squadra inglese per tutto il pomeriggio. Il comando nipponico era a conoscenza della presenza delle navi britanniche non per l'avvistamento effettuato dai ricognitori segnalati la sera, ma per l'informazione trasmessa da un sottomarino I-56 già l'ora di pranzo. La notte trascorse silenziosa e grave sulla Prince of Wales. Sopraggiunse la notizia di uno sbarco a Kuantan, località a poco più di 250 km da Singapore e Phillips decise di dirigersi verso il porto attaccato senza percepire il pericolo. Un sommergibile di scorta alla flotta dell'ammiraglio Kondo, sotto il comando del tenente Tanisaki riuscì ad intercettare le navi inglesi e a lanciare cinque torpedini, ma nessuna di loro colpì il bersaglio. Gli inglesi non si accorsero di nulla, nemmeno del messaggio radio con cui Tanisaki rese conto del proprio fallimento. La fortuna e l'incoscienza proteggevano ancora quest'avventura nei mari tropicali. Purtroppo per Phillips, l'appuntamento col destino era solo rimandato. La stessa 22a Flotta aerea che nel pomeriggio aveva pattugliato il golfo del Siam, venne rimessa in allarme. Partendo da Saigon, 34 bombardieri e 51 aerosiluranti tornarono alla caccia.

Giunti a Kuantan, i britannici scoprirono che la notizia dello sbarco era falsa. La rada era completamente deserta. Le navi avevano sprecato la preziosa protezione delle tenebre per nulla. Riprendendo la propria rotta verso Singapore, la Prince of Wales viene avvisata che la Tenedos è stata bombardata da 9 aerei giapponesi e che solo la loro scarsa precisione ha permesso al cacciatorpediniere di proseguire in direzione dello stretto di Johore. La 22a Flotta Aerea giapponese aveva fallito per la seconda volta il proprio obbiettivo ed era costretta a fare ritorno in Indocina. Il comando giapponese disperava di poter trovare il nemico. Come sovente accade, le sorti di una battaglia possono essere decise dall'iniziativa di un singolo e così avvenne anche in quest'occasione. Il tenente Tado Mishima, pilota di un aereo da ricognizione, pur avendo ricevuto l'ordine di rientrare dopo un turno di volo di 12 ore, prese la decisione di proseguire ancora per qualche minuto la perlustrazione. All'improvviso, in uno squarcio tra le nuvole che si diradarono per la prima volta dal giorno precedente, riuscì a vedere chiaramente le sagome della Prince of Wales e del Repulse! Il giovane tenente si attaccò alla radio per trasmettere la notizia dell'avvistamento. La comunicazione fu intercettata sulla Prince of Wales, ma nessuno si preoccupò. Si confidava nella possente contraerea che era capace di sparare 60.000 colpi al minuto, un vero muro di fuoco. La 22a Flotta aerea per la terza volta tornò sul mare, ora però con un'indicazione precisa della posizione del bersaglio. Gli aerei attaccanti presero di mira prima il Repulse. 10 bombardieri rilasciano il loro carico di morte con una precisione mai vista in precedenza, danneggiando seriamente l'incrociatore inglese.

Il Capitano Tennant, al comando della nave, segnalò i danni, rassicurando la Prince of Wales che la potenza di fuoco e la velocità erano intatte. Poi venne la volta della nave ammiraglia. Su di essa si gettano gli aerosiluranti che con due siluri ottennero risultati insperati: distrussero le batterie secondarie e ridussero la velocità della corazzata a soli 13 nodi. Per tutto il resto della mattinata gli attacchi si susseguirono incessanti, accanendosi in particolare contro il Repulse che tentava di tutto per fuggire, senza riuscirci. Alle 12.10 venne impartito l'ordine di abbandonare la nave. Venti minuti dopo, il Repulse già inclinato di 30 gradi, affonda, portando con sé 400 marinai. La Prince of Wales resiste ancora, aggrappandosi alla forza delle ultime batterie antiaeree ancora funzionanti. E' solo il lamento di un gigante morente. Alle 13.20 anche l'orgoglio della Royal Navy si capovolge e affonda. Scrisse Winston Churchill una volta appresa la notizia: "In tutta la guerra non ricevetti una scossa più forte."



Agonia di Singapore.

La possente forza navale che avrebbe dovuto proteggere Singapore è stata distrutta in un solo giorno. Il resto del mese di Dicembre 1941 e per tutto il mese di Gennaio 1942 è un susseguirsi di vittorie giapponesi. Le squadre sbarcate l'otto dicembre, pur senza rifornimenti, letteralmente volano sulla giungla. La spiegazione di tanta velocità di movimento è da ricercarsi nell'insensato ordine dato dagli inglesi di non distruggere i propri rifornimenti al momento della ritirata. Tutto ciò solo per non demoralizzare la truppa indiana, suscettibile alle esplosioni. Così i giapponesi si impossessano dei cosiddetti "stocks Churchill", gentilmente offerti dal governo di Londra. Migliaia di fusti di carburante vengono trovati ancora intatti al fianco delle ancora più importanti piste di volo, che in alcuni casi sono conquistate dai soldati imperiali entrandovi su biciclette requisite nei depositi inglesi lasciati incustoditi. La conquista degli aeroporti permette di sfruttare quegli aerei da guerra che l'Intelligence Service aveva classificato come mediocri. L'efficacia di questi piccoli gioielli è sperimentata dagli stessi abitanti di Singapore che fu bombardata già la sera del 8 Dicembre, sfruttando le luci cittadine che non erano state spente per la mancanza dell'ufficiale che avrebbe dovuto ordinare l'oscuramento.

Il 31 Gennaio i 90 superstiti del battaglione Argyle sono gli ultimi a superare l'argine che collega Singapore con la terra ferma, dopo di che i genieri si preoccupano di farlo saltare, ritrasformando la città in un'isola. Prima di questi soldati diverse centinaia di migliaia di profughi hanno percorso la stessa strada, in fuga dalla guerra. Le immagini non sono molto diverse da quelle già viste in Francia o che si vedranno con l'invasione della Germania, solo sono rese ancora più tremende dal clima tropicale che trasforma la grande folla accumulatasi per le strade in un ricettacolo di malattie. Le conseguenze già previste dal comando inglese (la perdita dei possedimenti continentali e l'assedio di Singapore) si sono verificate, solo con un largo anticipo. Comunque la cittadinanza metropolitana non è spaventata, sicura di poter resistere fino al sopraggiungere dei rinforzi. Questi erano anzi già arrivati con lo sbarco della 18a divisione britannica. La Gibilterra asiatica non era mai stata così protetta e non si aspettava altro che l'assalto del nemico.

In Gran Bretagna la menzogna era già stata scoperta il 29 Gennaio. In quel giorno Churchill venne informato da un cablogramma del nuovo capo dello scenario del Sud Est asiatico, sir Archibald Wavell, che Singapore era indifendibile. L'irascibilità dello statista inglese raggiunse livelli che solo Hitler nelle sue famose escandescenze seppe mai toccare. Il primo ministro si accanì in particolare con tutti i militari che avevano fatto costruire una base navale per poi farla saltare all'avvicinarsi del nemico, con coloro che avevano pensato di orientare i cannoni solo verso il mare ed infine con chi dopo tre anni di guerra non si era mai accorto di come fosse vulnerabile la posizione. Egli definì Singapore una naked island (un'isola nuda), ciò che effettivamente era.

Ora le ragioni militari e quelle politiche entrarono in rotta di collisione. Il proseguimento della guerra avrebbe comportato che Singapore venisse abbandonata per trasferire le truppe fresche come la 18a divisione (che però aveva speso tre mesi nei viaggi per mare) in Birmania o in India, salvaguardando in questo modo le uniche vie di comunicazione ancora aperte con la Cina di Chiang Kai Schek. La realtà politica era ben diversa. Sul Melbourne Herald il primo ministro australiano fece pubblicare un articolo dove dichiarava che l'abbandono di Singapore sarebbe apparso agli occhi degli Australiani come "un inqualificabile tradimento...". I dominions d'oltre oceano avevano già speso il sangue dei propri giovani combattendo sotto la bandiera della madre patria, per venire ora abbandonati nel momento del bisogno. Churchill era conscio di queste difficoltà di politica estera, ma ancor più pressanti erano quelle interne. Come poteva mai raccontare all'opinione pubblica inglese che quella che fino al giorno prima e una fortezza inespugnabile, si era ora tramutata in una landa indifendibile? Nel dubbio su quale via seguire, Sir Winston scelse l'unica che si potesse chiedere ad un inglese: quella dell'onore. Venne ordinato di resistere sul posto fino all'ultimo uomo e di rifiutare sistematicamente le proposte di resa. Egli sperava che così come a Dunquerke anche per Singapore, una chiara sconfitta potesse essere convertita in una mezza vittoria.

I tempi e il nemico erano però mutati. La difesa era assurda. Lo stretto di Johore, largo poco più di un chilometro e mezzo nel punto massimo, non offriva alcuna protezione. Inoltre la parte settentrionale dell'isola si allungava nel mare per cinquanta chilometri, costringendo Percival a sparpagliare le proprie forze, commettendo così un errore che si può riassumere nella saggia massima di Federico il Grande "chi vuole difendere tutto, non difende nulla." Per tutta la prima settimana di febbraio, Singapore fu sotto il bombardamento combinato delle forze giapponesi di terra, di mare e dell'aria. Grandi incendi avvampano in tutta la città, trasformando le tempeste tropicali che quotidianamente si abbattevano sui martoriati difensori in turbini di cenere e fumo. Ogni tentativo di mantenere attivo il servizio di nettezza urbana fu abbandonato già a partire dal terzo giorno d'assedio. I cadaveri cominciarono ad accumularsi ed insieme agli escrementi del mezzo milione di profughi che vivevano per strade resero l'abittato simile ad un inferno dantesco. In mezzo a tanto orrore si riesce a trovare una nota farsesca. A partire dal 6 Febbraio, le autorità municipali cominciano a riversare nei canali i 5 milioni di galloni di bevande alcoliche che erano state accantonate per l'assedio. Si temeva che potessero cadere in mano al nemico, rendendo ancora più insicura la vita dopo la sconfitta. Un vincitore ubriaco poteva non possedere tanta magnanimità da risparmiare la vita del vinto.

L'otto febbraio i Giapponesi passano lo stretto di Johore. Ancora una volta gli Inglesi hanno commesso un errore di sottovalutazione. Percival credendo che l'attacco sarebbe venuto da est, vi ha posizionato il corpo d'armata indiano e la 18a divisione Britannica. La zona ad Ovest della diga di Johore, ricoperta di mangrovie, viene considerata come impenetrabile e perciò si affida la sua difesa alla sola 8a divisione Australiana. Yamashita ha invece ben chiara la situazione. Seguendo l'esempio del grande Napoleone, concentra lo sforzo maggiore nel punto più debole del nemico. La 12a e la 17a Brigata Australiane sono fatte letteralmente a pezzi da forze notevolmente superiori di numero. Già il dieci Febbraio, i Giapponesi penetrano nella zona centrale della città, piena delle ville dei residenti bianchi, ormai ridotte a un cumulo di macerie. Una bassa collina che supera di poco il centinaio di metri domina la zona. Il suo nome è Bukit Timah, l'ultima postazione di difesa inglese che sia degna di tale nome. I giapponesi l'assaliranno senza preparazione di artiglieria e in una sola notte la conquisteranno scacciandone i difensori sotto l'acqua di un vero uragano. Ciò che doveva essere difeso per più di tre mesi è stato perso in soli 10 giorni. L'11 Febbraio gli inglesi fanno saltare le batterie costiere da 380mm, divenute ormai un peso anziché una sicurezza. Gli assalitori si trovano ormai vicini ai depositi d'acqua che sono l'ultima ricchezza che sostiene ancora la difesa. Venuta meno l'acqua, soldati e civili dovranno condividere lo stesso destino per non soccombere in una morte atroce.

In questo momento tragico Churchill rinnova l'invito a morire per la difesa di Singapore attraverso le parole di Wavell che però si guarda bene dall'andare di persona sul posto, lamentandosi di una frattura dorsale che lo tratterrà in ospedale per le successive tre settimane. Il giorno 15 il rifornimento idrico della parte di città ancora in mano agli inglesi viene a mancare. Occorreranno diversi giorni dopo la fine delle ostilità per ripristinare il servizio. Il morale dei soldati raggiunge lo stesso livello di quello dei civile: il minimo assoluto. I primi a cedere sono le brigate malesi, che nonostante fossero state invitate dai giapponesi a rivolgere le armi contro gli occupanti bianchi, avevano combattuto al di là di ogni aspettativa. La sera di quello stesso giorno, una domenica, Percival convoca tutti i comandanti di reparto che riescono ad arrivare al quartiere generale con estrema difficoltà, solo per sentirsi dire che il governo inglese ha ammorbidito i toni da leggenda con cui si voleva ammantare la difesa di Singapore. Churchill ha acconsentito a lasciare a Percival l'onere di decidere quando cessare le ostilità. Quest'ultimo alla domanda di uno dei suoi sottoposti su quando ciò dovesse avvenire, risponde lapidariamente: "Immediatamente."

L'incarico di parlamentare viene affidato al maggiore Wilde che a rischio della vita si fa largo fino alle linee giapponesi per poter trattare. Yamashita accetta la resa inglese purché sia senza condizioni e che sia lo stesso comandate sir Percival a venirla a domandare, portando a fianco della bandiera bianca la gloriosa Union Jack, la bandiera inglese. La foto che lo ritrae durante quel mortificante rito rimarrà per sempre a testimoniare una delle più grandi sconfitte britanniche. Giava, un altro passo verso l'Australia.

Quattro nazioni sono alleate per la difesa di ciò che viene definita "cintura malese". L'ABDA (American, British, Dutch, Australian) era il sistema interforze per la difesa del Sud Est asiatico insulare. Al suo comando si trovava, come abbiamo già visto, Wavell. Il capo di stato maggiore e il comandante delle forze aeree erano altri due inglesi, rispettivamente sir Henry Pownall e sir Richard Peirce. Gli Stati Uniti avevano il comando delle forze navali attraverso l'ammiraglio Hart, mentre la difesa terrestre spettava all'olandese Heinter Poorten. Le truppe ai loro ordini erano altrettanto eterogenee. Erano composte dalla marina americana, da quella australiana, dai resti della squadra navale britannica per quel che riguardava la difesa per mare (9 incrociatori, 26 cacciatorpediniere e 40 sommergibili). Sulla terra si trovavano reparti della difesa territoriale australiana oltre all'esercito coloniale olandese, costituito da 140.000 uomini che però non avevano mai combattuto. Le forze aeree potevano contare su un centinaio di aerei americani e su altrettanti olandesi che però erano spesso dei vecchi biplani scoperti. Prima ancora che all'offensiva giapponese questo dispositivo dovette sopravvivere alle dispute politiche.

Ognuna delle quattro parti in causa aveva interessi propri da tutelare nell'area, ma sempre divergenti uno dall'altro. Gli Americani consideravano di primaria importanza la difesa delle Filippine che però sarebbero state perse ben presto. Gli inglesi stavano ancora combattendo in Malesia e non concessero neppure un aereo per la protezione delle Indie Occidentali. Gli olandesi avevano come prima preoccupazione la salvaguardia dei propri interessi coloniali. La maggior parte di essi era nata e cresciuta in quei luoghi e li consideravano come la propria vera patria. Infine gli Australiani si trovavano di fronte ad una situazione alquanto complicata. Le divisioni che erano già state richiamate combattevano lontane da casa, in Africa e in Medio Oriente, mentre l'isola-continente era minacciata dall'invasione. Una sforzo australiano nella difesa di Giava era possibile solo nella misura in cui non indebolisse le difese già scarne della nazione del Sud Pacifico. Sommando l'impreparazione militare ai contrasti politi si può ben capire che l'ABDA non dovesse avere vita facile.

Sul versante opposto, i Giapponesi stavano mettendo in atto un piano studiato per anni fin nei minimi dettagli. Una manovra articolata su tre grandi tentacoli avrebbe avvolto gli arcipelaghi in una morsa mortale. Il primo tentacolo si sarebbe occupato della Malesia e di Sumatra, il secondo delle Filippine e del Borneo, mentre il terzo attraverso le Molucche e Timor avrebbe minacciato l'Australia. Tale disegno si stava già compiendo prima della caduta di Singapore. In Dicembre si erano impadroniti del Borneo Occidentale e di Mindanao, in Gennaio di Celebes e del Borneo Orientale. In febbraio fu la volta di Timor. L'isola, giuridicamente divisa tra la dominazione olandese e portoghese fu oggetto di uno sbarco giapponese a Dili e Koepang il 20 Febbraio. La guarnigione australiana denominata Sparrow Force (2° Battaglione della 40a Divisione e 2a Compagnia Indipendente) aveva preso possesso della zona portoghese già il 15 Dicembre e perciò si trovò a fronteggiare l'invasione con le proprie sole forze. Il 2° Battalione fu costretto ad arrendersi già il 23 Febbraio dopo aver opposto un'accanita resistenza ai paracadutisti giapponesi nel villaggio di Babau. Il resto della squadra diede inizio ad un'attività che avrebbe trovato largo impiego nelle Filippine: la guerriglia. Rimasti all'oscuro di quanto accaduto ai compagni a causa di un guasto all'apparecchio di comunicazione, i commandos si ritirarono sulle montagne nell'interno dell'isola, rifiutando ogni richiesta giapponese di resa. Nella base australiana di Darwin ricevettero loro notizie solo nel mese di Aprile, consentendo l'invio di rinforzi (4a Compagnia Indipendente). Pur raggiungendo solo i 700 uomini, questa forza di interdizione ebbe il grande merito di rendere insicura per i Giapponesi la costituzione di una grande base aeronavale nell'isola di Timor, prevenendo in questo modo una minaccia continua nei confronti dell'Australia.

Per la seconda metà di Febbraio l'accerchiamento di Giava si poteva considerare concluso. Il bombardamento della città di Darwin in Australia e la presa di Bali che dista da Giava pochi chilometri, rende ormai imminente l'ora della verità. Il porto di Batavia (il nome olandese della moderna Gjakarta) era al limite del collasso per l'immenso numero di navi che vi si affollano. Esse erano stipate con tutti i fuggiaschi delle sconfitte inglesi. I disertori tentavano di mischiarsi ai civili in fuga che qui forse in numero maggiore rispetto a Singapore. Wavell, dimesso dall'ospedale non si dimostrò ottimista. Egli pensava che Giava fosse indifendibile proprio come Singapore e si prodigò per impedire che i reparti australiani ritirati dal Medio Oriente vi venissero inviati, dopo di che arrivò a sciogliere il proprio ufficio e il 25 Febbraio, forse a malincuore, forse contento, riuscì finalmente a lasciare Batavia. Gli olandesi furono lasciati praticamente soli se si esclude l'assistenza del governo australiano. Soe decisamente ingiusta per una nazione che fin dalla Battaglia d'Inghilterra, passando attraverso l'invasione della Malesia e la caduta di Singapore, aveva sempre combattuto al fianco della Gran Bretagna con tutte le proprie deboli forze. Dopo la caduta dell'Olanda nel Maggio 1940 le Indie Occidentali rappresentavano l'unica speranza di poter tornare un giorno alla reintegrazione della sovranità reale anche in Europa.

A dividere i Giapponesi dalla completa vittoria rimaneva ancora l'eterogenea flotta agli ordine dell'ammiraglio olandese Doorman. Durante la spedizione in Malesia e per tutto l'inverno 1941 essa era stata tanto efficace contro i trasporti giapponesi da affondare un tonnellaggio doppio rispetto alla Royal Navy e alla U.S. Navy. Il 27 Febbraio Doorman riceve notizia di un convoglio giapponese che si troverebbe a soli 60 km da Giava. La sortita è necessaria per evitare che tutto sia perduto. La sua squadra è composta da due incrociatori pesanti (l'inglese Exter e l'americano Houston), tre incrociatori leggeri (l'australiano Perth, gli olandesi De Ruyter e Java) e nove cacciatorpediniere. Il nemico che dovrà affrontare ha delle forze equivalenti, per la precisione due incrociatori pesanti, due leggeri e quattordici cacciatorpediniere. Per una volta non è la motivazione delle truppe alleate a decidere le sorti della battaglia. Gli olandesi lotteranno fino alla morte, così come le altre nazioni impegnate nella più grande battaglia marina dai tempi dello scontro dello Jutland. E' un vantaggio tecnologico che permetterà ai Giapponesi di avere la meglio. Essi possedevano dei siluri da 600 mm che avevano maggiore portata e carica esplosiva rispetto a quelli degli alleati. Si riveleranno decisivi.

Lo scontro avvenne a metà pomeriggio e quasi subito l'Exeter, colpito alla caldaia fu costretto ad abbandonare la linea di fuoco e a rifugiarsi a Surabaja. Gli incrociatori leggeri furono silurati intorno alle 22.30 e nel loro affondamento perse la vita anche l'ammiraglio Doorman. Solo lo Houston e il Perth sopravvissero fino al 1 Marzo, quando tentando di passare tra Giava e Sumatra per rifugiarsi nell'oceano indiano, furono rintracciati e affondati. L'Exeter, ultima nave rimasta, tentando la medesima fuga per altra via, ebbe stessa sorte lo stesso giorno. Tutta la flotta del Sud Est asiatico venne annientata nel giro di un solo giorno. Il 1 Marzo con poche ore di ritardo causate dal sacrificio della squadra di Doorman, i giapponesi sbarcarono a Giava. In una settimana l'isola fu tagliata in due dalla 48a divisione imperiale che poteva contare sull'appoggio di 450 aerei della Marina Imperiale. La città di Bandung, creata come paradiso delle vacanze per gli europei avrebbe dovuto costituire, dopo l'abbandono di Batavia, un ridotto di resistenza e in caso di sconfitta, il territorio montuoso intorno ad essa avrebbe dovuto rappresentare la base per la guerriglia. Nulla di tutto ciò accade. Gli olandesi vennero abbandonati dalla popolazione indigena. Gli indonesiani che si ritenevano fedeli al governo legittimo, accolsero i giapponesi come liberatori, per trasformarsi poi nei più fedeli sostenitori della loro politica di sfruttamento dell'arcipelago. Di fronte a questo tradimento, il Generale Poorten comprese che la resistenza era inutile. Si decise di prolungarla solo per una questione d'onore. Il giorno 7 Marzo, quando gli ospedali di Bandung arrivarono alla saturazione si annunciò la capitolazione.



Un'alba radiosa.

La sconfitta militare degli inglesi assunse anche un significato politico che andava ben al di là della perdita di territori strategicamente importanti. Con la caduta pressoché contemporanea di Singapore e Giava le stesse istituzioni politiche che avevano comandato per secoli quelle terre vennero a mancare. L'impostazione ideologica che i giapponesi avevano dato alla lotta aveva ottenuto il pieno successo. Le popolazioni indigene quasi ovunque si erano ribellate ai propri colonizzatori, in alcuni casi anche con le armi. La caduta della Birmania prima e di Corregidor poi, completava in soli tre mesi la conquista di quella "Sfera di Coprosperità" che doveva essere la base per sopravvivere alla guerra con gli Stati Uniti. Le vittorie ottenute dai tedeschi in Europa e in Africa vennero oscurate da quelle dell'impero Giapponese. Il termine Blitzkrieg coniato dai giornalisti occidentali per descrivere le vittorie naziste era persino riduttivo se usato per le imprese compiute in Asia. L'imperatore Hirohito parlò al popolo tutto chiedendo imperitura gratitudine per il proprio esercito che con la perdita di soli 5000 uomini valorosi aveva conquistato un posto nella storia. Egli disse che si era alla vigilia di una nuova era per il mondo. E per una nazione che ha nella propria bandiera il sol levante, non si può che descrivere tale momento con le stesse parole da lui usate: il nuovo giorno per il Giappone era annunciato da un'alba radiosa.

"Marea Gialla", di Lucas Turks
L'attacco giapponese agli imperi coloniali europei in Asia durante la seconda guerra mondiale.

Fonti: "La Seconda Guerra Mondiale" di Raymond Cartier, "La seconda Guerra Mondiale. Cronologia Illustrata di 2194 giorni di Guerra." A cura di Cesare Salmaggi e Alfredo Pallavicini, "Uomini e Battaglie della Seconda Guerra Mondiale" di John Keegan.

Fonte: http://pdsm.altervista.org

 


 

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