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La Guerra dei trent’anni: un conflitto politico dietro una maschera religiosa.

Fra i conflitti più spaventosi dell’età moderna, ebbe inizio in Boemia a causa di una questione politico-religiosa. Sin dagli inizi del XV secolo, il Regno boemo, alla cui corona spettava il titolo di elettore imperiale, si distingueva in Europa sul piano religioso; una forte componente della popolazione era infatti legata al credo hussita, “eresia” tardo medievale sopravvissuta alle ondate repressive di Chiesa e Impero, grazie ai successi nella “Guerre hussite”, serie di conflitti combattuti dal 1416 al 1436 e conclusisi con un compromesso fra i rivoltosi, gli Asburgo e la Chiesa di Roma.
Durante il XVI secolo, l’Europa fu sconvolta dal successo della predica luterana e dalla conseguente spaccatura in seno alla Chiesa, la scintilla che provocò lo scoppio di una serie di conflitti religiosi che infiammarono il continente. La Francia fu travolta dai conflitti civili; la diarchia castiliana-aragonese di Spagna dovette far fronte alla sollevazione dei Paesi Bassi; i territori imperiali, che invano il grande Carlo V (1500-1558) aveva tentato di mantenere coesi politicamente e religiosamente, si erano divisi fra Stati “riformati” e Stati fedeli a Roma.
Agli inizi del XVII secolo la situazione politica europea si reggeva su di un fragile equilibrio, dove alla religione si mescolarono presto politica e ragion di Stato. Il Regno di Francia, sul cui trono sedeva il giovane Luigi XIII di Borbone (1601-1643) ma politicamente era retto dall’abile cardinale Richelieu (1585-1642), seguiva una politica volta a rigenerare il prestigio del paese dopo un cinquantennio di guerra civili e religiose, mirando per questo a indebolire la potenza degli imperiali Asburgo. Questi a loro volta, suddivisi nei rami spagnolo e austriaco, erano impegnati su più fronti. Gli spagnoli, titolari di uno dei più vasti Imperi, esteso dall’Europa al Sud America, si preparavano a riprendere la lotta armata contro le Province unite ribelli, con le quali avevano stabilito una tregua di dodici anni (Trattato dell’Aia, 1609), che ora stava per scadere. L’Impero invece, sul cui trono gli Asburgo vi sedevano dal lontano XIV secolo, si trovava diviso fra la Lega cattolica, capeggiata dalla Baviera, e l’Unione evangelica, guidata dall’elettore del Palatinato, Federico V di Wittelsbach – Simmern (1596-1632).
In questo contesto la Boemia, nei cui territori stava proliferando il messaggio protestante, si trovò improvvisamente al centro di una crisi dinastico - religiosa, che di lì a poco avrebbe portato alla guerra. Nel 1609 l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612) aveva concesso ai territori hussiti la piena libertà di religione, nonostante il mugugnare della corte papale; il successore, Mattia I (1557-1619), aveva scelto di rispettarla, concedendo addirittura il diritto di eleggere liberamente il proprio sovrano.
Simili aperture furono frutto della bramosia dei due, fra i quali esistette una rivalità per l’ascesa al trono, che alla fine aveva premiato per primo Rodolfo.
Alla morte di Mattia lo scettro imperiale sarebbe spettato all’arciduca Ferdinando d’Asburgo (1578-1637), cattolicissimo. Costui, col trattato di Praga del 1617, era riuscito inoltre a ottenere dal re di Spagna Filippo III (1578-1621), il diritto di reclamare a se il trono boemo in cambio dell’Alsazia, allora parte integrante dell’Impero.
Convinto sostenitore della Controriforma, Ferdinando II, asceso al trono nel 1619, si dichiarò ostile nel mantenere la libertà religiosa in Boemia. Alle pretese del nuovo imperatore, i sudditi di Praga risposero defenestrando i legati imperiali; al posto di Ferdinando, elessero come sovrano di Boemia il comandante dell’unione evangelica, il calvinista Federico V: fu l’inizio del conflitto.



Il primo decennio del conflitto.

Iniziata per questioni religiose, la guerra assunse presto un carattere più politico; se a fianco di Ferdinando II si schierarono per questioni spirituali (e di ambizione) la Baviera, la Lega cattolica e, clamorosamente, la luterana Sassonia, ostile al calvinismo di Federico V, non tardarono a intromettersi nella vicende forze estranee al contesto imperiale. Scese in campo il sovrano transilvano Gabriele Bethlen (1580-1629), protestante ma principalmente interessato a strappare l’Ungheria asburgica all’Impero, schieratosi con L’Unione evangelica. Lo imitarono il Ducato di Savoia e la Repubblica di Venezia, cattoliche ma allineate alla Francia, che aveva scelto d’intervenire in via diplomatica in chiave anti-asburgica, favorendo il sorgere di un fronte italiano per il controllo della Valtellina, dominio degli Asburgo di Spagna, scesi in campo al fianco dei cugini austriaci, con la conseguenza di avvicinare ai boemi le Province Unite, in vista dell’ormai probabilissima ripresa delle ostilità con Madrid (1621).
Una crisi politico-religiosa aveva provocato un immenso conflitto su scala europea.
La prima fase della guerra, conosciuta come boemo-palatina, vide le forze cattoliche annientare quelle evangeliche nella battaglia della Montagna bianca, presso Praga (1620); la vittoria aveva permesso agli Asburgo di annettere ai propri domini ereditari il Regno di Boemia, che da quel momento divenne soggetto a una profonda opera di missionaria dei gesuiti, che avrebbe imposto il cattolicesimo come religione, provocando la scomparsa della confessione hussita. Federico V cadde prigioniero.
Il conflitto, anziché terminare, dilagò. La Francia continuò a tramare contro gli Asburgo, riuscendo a ottenere l’intervento del re danese Cristiano IV (1577-1648), ufficialmente sceso in guerra in nome della causa protestante, ma in realtà spinto per ragioni di prestigio (1624). Parallelamente riesplodeva il conflitto fra la Spagna e i ribelli dei Paesi Bassi.
Aveva inizio la seconda fase della guerra, quella danese, durata dal 1624 al 1629 e nella quale la causa religiosa appariva sempre più una scusa di facciata per coprire rivalità dinastiche e mire espansionistiche, mentre i comandanti degli eserciti impegnati a trarne benefici al fine di ottenere una rapida ascesa sociale. Assoluto protagonista di questa fase fu il duca Albrecht Von Wallestein (1583-1624), un nobile boemo convertito al cattolicesimo e ambizioso di ascendere fra le élite nobiliari, ma anche uno dei più grandi comandanti di allora; sotto la sua guida gli imperiali annientarono letteralmente le truppe danesi al Ponte di Dessau, preludio della disfatta che Cristiano IV subì poco dopo a Lutter (1626), vinto dall’altro grande comandante imperiale, il conte Jean T’Sercleas di Tilly (1559-1632).
La vittoria sulla Danimarca sembrò il colpo finale per le forze ostili agli Asburgo, in grande difficoltà su ogni fronte; le Province Unite resistevano efficacemente alle forze spagnole, ma il campo protestante si stava assottigliando, malgrado la Sassonia luterana scegliesse ora di schierarsi contro Ferdinando II. La situazione sorrideva totalmente ai cattolici. L’imperatore dominava incontrastato, tanto da delineare la trasformazione dell’Impero in una monarchia universale cattolica, già sogno di Carlo V. Con il successivo “editto di restituzione”, Ferdinando imponeva ai principi protestanti di restituire alla Chiesa i territori confiscati, conferendo inoltre il titolo di elettore alla Baviera a discapito del protestante Palatinato.
Ferdinando II però non aveva tenuto conto delle volontà di Richelieu di ostacolare la potenza asburgica; l’abile cardinale riuscì infatti a ottenere l’intervento di un temibile contendente, Gustavo II Adolfo Vasa (1594-1632), re della protestante Svezia.



Il modello militare svedese.

Tanto alto quanto largo, Gustavo II Adolfo, della dinastia dei Vasa, rappresentava allora l’unica speranza delle forze anti asburgiche. Il sovrano scandinavo, sincero luterano ma privo di fanatismo, era sbarcato con un duplice obbiettivo, ovvero far trionfare la causa protestante e rafforzare politicamente e territorialmente il suo Regno.
L’armata svedese, sbarcata a Usendom il 4 luglio 1630, non sembrava promettere successi eclatanti; le unità montavano infatti ad appena tredicimila unità, divise in sedici formazioni di cavalleria e novantadue compagnie di fanteria. Si trattava di un piccolo esercito, al quale certamente si sarebbero aggregati alcuni rinforzi da quelle città protestanti che avevano scelto di non piegarsi a Ferdinando II, come Magdeburgo, ma che comunque non avrebbero costituito una grossa riserva. Inoltre la Svezia usciva da un conflitto non molto positivo combattuto contro il Regno polacco per il controllo del Baltico, risolto in un nulla di fatto malgrado l’annessione della città di Riga.
L’esercito svedese non sembrava rappresentare una grossa minaccia per le forze imperiali.
Bisognava però tener conto di alcuni determinanti fattori, quali il carisma del sovrano scandinavo e le sue eccezionali doti militari, nonché la sua grande competenza diplomatica: Gustavo II riuscì infatti a ottenere due preziosissime alleanze. La prima fu siglata col Brandeburgo dell’elettore Giorgio Guglielmo (1595-1640), cosa che permise agli svedesi di porre il controllo su tutta la regione nord-orientale, comprese le foci dell’Elba e dell’Oder. La seconda con la Sassonia del riluttante Giovanni Giorgio I (1585-1656), sì ostile a Ferdinando ma anche a chiunque non fosse tedesco, e Gustavo II era comunque un invasore: il patto fu il frutto di un’aspra trattativa, spesso sul punto di saltare.
Gustavo II Adolfo fu inoltre abilissimo a sfruttare, per fini propagandistici, lo spaventoso saccheggio di Magdeburgo, caduta per mano di Tilly dopo un durissimo assedio che aveva provato duramente le forze imperiali, le quali non ebbero pietà per nessuno: invano Tilly tentò di fermare lo scempio. L’eco del massacro aveva indignato l’opinione di tutti, anche di molti cattolici, permettendo al re svedese di guadagnare l’appoggio di chi, specie fra i protestanti, guardava con diffidenza al re invasore. Importante fu l’appoggio finanziario delle Province Unite, che andò a sommarsi a quello francese.
Ciò che avrebbe permesso a Gustavo II Adolfo di imporsi sullo scenario del conflitto sarebbe stata tuttavia la sua grande competenza militare; al sovrano va dato il merito di aver attuato una delle migliori riforme tattico-militari del tempo.
All’epoca gli eserciti europei erano costituiti prevalentemente da mercenari dalle più svariate origini; non esisteva la minima ombra di un vero e proprio esercito nazionale. Nel XVII secolo la cavalleria aveva ormai perso il ruolo predominante che aveva rivestito in passato; l’utilizzo prevalente si basava su cariche atte a portare confusione fra le linee nemiche, senza l’obbiettivo di sfondarle; l’arma per eccellenza rimaneva ancora la lancia, sebbene le armi da fuoco si stessero diffondendo sempre di più.
Nervo delle armate erano le fanterie dei picchieri, impostesi in Europa sul finire del XV secolo.
Improntate sul modello dei quadrati svizzeri di fine Quattrocento, si erano perfezionate con l’aggiunta di moschettieri e archibugieri, sempre più protagonisti nei campi di battaglia.
L’equipaggiamento del fante consisteva principalmente in pesanti corazze, mentre l’armamento era costituito prevalentemente dalle armi bianche. La più nota delle formazioni di allora era il tercio spagnolo, ideato ai tempi di Carlo V, composto da circa tremila uomini ammassati in quadrato, con un nucleo centrale di picchieri attorniato da moschettieri e archibugieri; quest’ultimi, disposti in due ranghi allineati per ciascun lato, potevano sovente formare altri quattro piccoli quadrati, uno per ogni angolo del gruppo, noti come “maniche” e disposti in quattro ranghi allineati, per un totale di sei linee di uomini armati con armi da fuoco (quattro delle maniche più due del quadrato centrale) per ogni lato.
Il tercio, se ben manovrato, appariva praticamente invulnerabile agli attacchi della cavalleria.
Punto di forza era la potenza di fuoco offerta dagli archibugieri e moschettieri adottanti la tecnica olandese del “fuoco continuo”, ovvero una disposizione a più linee coordinata da permettere contemporaneamente ai ranghi avanzati di aprire il fuoco con le file arretrate in atto di ricaricare pronti a invertire le posizioni dopo la raffica. Ai picchieri spettava il compito di respingere un’eventuale carica avversaria, proteggendo così la fase d’intercambio delle linee con armi da fuoco.
Una formazione micidiale, ma con un difetto. La consistenza numerica e la disposizione in base all’armamento rendevano il tercio molto lento, difficilmente manovrabile e vulnerabile ai colpi d’artiglieria. Quest’ultima, determinante durante gli assedi, non rivestiva ancora un ruolo di peso in campo aperto, questo anche a causa del calibro dei pezzi, generalmente elevato, che ne rendeva difficile lo spostamento durante uno scontro.
Gustavo II Adolfo rivoluzionò tutto. Innanzitutto cambiò metodo di arruolamento, introducendo la coscrizione (il Regno di Svezia fu il primo paese a introdurla), seppur in forma limitata, a causa della bassa densità demografica del Paese. In media ogni comunità era tenuta a fornire un uomo ogni dieci/venti atti alle armi; aumentava la durata della ferma, elevata a vent’anni. Il risultato fu la creazione di un esercito professionista stipendiato solo in caso di chiamata (quindi a basso costo) e molto coeso: gli uomini erano accumunati dalla medesima fede e dalla fedeltà verso il sovrano.
Questi coscritti erano tuttavia destinati alla cavalleria, di conseguenza composta interamente da svedesi, e solo in minima parte alla fanteria, ancora composta per lo più da mercenari.
Convinto che a una maggiore preparazione corrispondeva una maggiore possibilità di scelta strategica, Gustavo Adolfo fu un sostenitore dell’addestramento di truppa in un’età dove le armate erano perlopiù ammassi di uomini privi di conoscenze tattiche.
Per lui la mobilità sul campo era tutto; al fine di rendere gli spostamenti delle truppe meno difficoltosi, fece alleggerire sia le armature di fanti e cavalleggeri che le armi da fuoco. Furono introdotte anche le uniformi, diverse per reggimento.
La grossa novità riguardò l’adozione di un nuovo modello di schieramento, non più basato su grossi ammassi di uomini ma su brigate di picchieri e moschettieri numericamente ridotti, suddivisi in tre o più “Skvadron” (battaglioni). Gli Skvadron si dividevano all’interno in due formazioni, una comprendente reparti di picchieri appoggiati da quattro linee di archibugieri o moschettieri posti in avanguardia, e una, minore nel numero, costituito da cinque ranghi di uomini con armi da fuoco. Ulteriore innovazione di Gustavo II Adolfo fu dunque aumentare la presenza di uomini col moschetto, convinto che il successo in battaglia dipendesse anche da una potenza di fuoco maggiore rispetto a quella nemica, secondo un’interpretazione più evoluta del “fuoco continuo” olandese; i ranghi di moschettieri e archibugieri erano sì stati ridotti da sei a cinque, ma con la prima linea disposta in ginocchio in modo da permettere alla seconda di sparare simultaneamente, con le tre arretrate impegnate nel ricaricare: il risultato fu quello di una potenza di fuoco raddoppiata.
Un occhio di riguardo fu riservato all’artiglieria. Il sovrano svedese fece giungere dall’Olanda i più validi ed esperti istruttori; grande attenzione fu posta sia alla mobilità che al tempo di caricamento: si alleggerì il calibro generale dei pezzi. Si ideò anche un nuovo tipo di cannone, battezzato “cannone di cuoio”, molto leggero ma di efficacia limitata, a cui si preferì progressivamente il “mortaio da quattro a tiro rapido”, così leggero da poter essere trasportato da un solo cavallo o da appena tre uomini, dimostrando un’eccezionale manovrabilità. L’artiglieria rientrò così nello schema tattico basilare degli svedesi, con lo scopo di aumentare la potenza del fuoco continuo.
Gustavo II rivalutò infine l’utilizzò della cavalleria; il reparto presentava una novità, ovvero l’adozione della sciabola al posto della lancia, introdotta durante la guerra contro la Polonia del cugino Sigismondo III Vasa (1566-1632).
L’importanza della riforma militare svedese sarebbe presto balzata agli occhi di tutti dopo Breitenfeld, una delle più importanti battaglie del conflitto analizzato.

 


Breitenfeld (1631).

Mentre Gustavo II Adolfo, sbarcato in Pomerania, stringeva alleanza coi riluttanti principi elettori di Brandeburgo e Sassonia, l’esercito imperiale, sino allora vittorioso su tutti i fronti, si trovò all’improvviso in difficoltà. L’abile Wallenstein, che nel frattempo era caduto in disgrazia a causa dei complotti interni alla nobiltà, si era ritirato in Boemia col suo esercito, non disposto a combattere senza il proprio comandante (e pagatore); all’improvviso l’esercito cattolico si era ritrovato con una sola valida armata in grado di far fronte alla minaccia svedese, quella del conte di Tilly, il quale si trovava in difficoltà nel reperire non soltanto il denaro per le truppe mercenarie, ma anche i beni di sussistenza per mantenerle. Il terribile saccheggio di Magdeburgo, che indignò l’Europa, fu il frutto della necessità di procurarsi le sostanze per il proprio fabbisogno, tra l’altro soddisfatto parzialmente a causa dello spaventoso incendio che distrusse la città e gran parte dei generi di conforto.
Spinto dalla necessità, Tilly, vistosi respingere ogni richiesta d’aiuto dal vendicativo Wallenstein ed impossibilitato nel ritirarsi verso sud, rischiando di aprire agli svedesi la strada verso il cuore dell’Impero, prese la decisione di invadere la Sassonia. Tra il 14 e il 15 Settembre del 1631, le truppe imperiali, abilmente guidate dal comandante in seconda, il conte di Pappenheim, occupavano Lipsia, anticipando l’arrivo di Gustavo Adolfo, forte di 42.000 uomini fra svedesi, mercenari, sassoni e altri alleati. Tilly avrebbe voluto barricarsi nella città, dove avrebbe facilmente potuto resistere in attesa dei rinforzi promessi da Ferdinando II.
Ma il comandante non aveva fatto i conti con l’ambizione e la testardaggine del suo comandante in seconda, lo spericolato conte Gottfried Heinrich di Pappenheim (1594-1632); coraggioso in battaglia, tanto da essere sempre in prima linea, questi nutriva un profondo disprezzo per il suo generale, a sua detta troppo titubante, prudente e anche incompetente sul piano tattico; del resto le conquiste di Magdeburgo e Lipsia furono frutto di sue ardite e abili mosse. La sua famiglia era circondata dall’aura di una piccola leggenda, secondo la quale un suo membro avrebbe sconfitto un re invasore salvando la patria; Pappenheim aveva fatto suo quel mito, identificando in Gustavo II Adolfo quel re invasore. Uscito in perlustrazione la notte del 16 Settembre, avvistò una pattuglia nemica e, anziché ritirarsi ingaggiò battaglia, fallendo però la carica: inviò conseguentemente la richiesta di Immediati rinforzi. Tilly, furioso, non poté far altro che lasciare Lipsia e muovere con l’esercito in soccorso del suo secondo.
Verso le nove mattutine del 17 settembre 1631, le avanguardie svedesi avvistarono le forze imperiali presso il villaggio di Breitenfeld. Forte di 31.000 uomini, Tilly, che aveva scelto un terreno inclinato a proprio vantaggio e con il sole alle spalle, optò per lo schieramento tradizionale; diciassette tercios andarono a costituire il centro mentre la cavalleria si schierava in colonne su entrambi le ali, con i cavalleggeri allineati ginocchio contro ginocchio; ventisette pezzi d’artiglieria furono disposti in prima linea davanti alla fanteria. Tilly prese il comando del centro mentre Pappenheim si posizionò sull’ala sinistra.
L’artiglieria imperiale iniziò a bombardare le forze protestanti prima che avessero completato di posizionarsi secondo lo schema di Gustavo Adolfo. Lo schieramento fu sorprendente; il sovrano svedese aveva affidato la propria ala sinistra agli alleati sassoni, guidati da Giovanni Giorgio in persona, disposti secondo lo schema classico, con la cavalleria all’esterno, seguita in linea retta dai gruppi di fanteria e con l’artiglieria posta in parte fra cavalleggeri e fanti e in parte in prima linea.
Ciò che colpiva era lo schieramento assunto dall’ala destra e dal centro svedese. Sul fianco destro Gustavo Adolfo dispose il grosso della cavalleria, organizzata non in colonne ma in piccoli squadroni, con i cavalli non allineati regolarmente; con i cavalleggeri si posizionarono anche alcuni battaglioni di moschettieri, allineati in file da cinque ranghi di profondità; cavalleggeri e moschettieri si disposero non in linee parallele ma in gruppi ristretti, posti in posizione alternata, a formare una sorta di scacchiera se osservata dall’alto; una disposizione che avrebbe permesso una maggiore libertà d’azione.
Al centro, comandato dal sovrano, si disposero sette skvadron; quattro furono collocati in prima linea, ognuno suddiviso nelle due formazioni sopradescritte: un nucleo corposo di picchieri e moschettieri, e un battaglione di cinque ranghi di uomini con moschetto, posizionato davanti al primo.
I restanti tre skvadron si posero in seconda linea mentre alcune riserve, specialmente di cavalleria, furono collocate in retroguardia. L’artiglieria, composta da cinquantun pezzi di calibro più leggero rispetto a quelli imperiali ma nettamente più manovrabili, fu collocata a gruppi di tre fra i vari battaglioni, sia del centro che delle ali.
Per più di due ore i due contendenti non fecero altro che scambiarsi furiose salve di artiglieria, moschetti e archibugi: nessuno aveva ancora mosso un passo. Tuttavia, la capacità di fuoco svedese si era rivelata superiore, sia nella manovra che nel volume, grazie alla reinterpretazione del fuoco continuo olandese: gli svedesi sparavano e ricaricavano con una velocità tre volte superiore a quella imperiale.
Seppure gli eserciti non si fossero ancora spostati dalle posizioni iniziali, l’andamento risultava favorevole a Gustavo II Adolfo: gli imperiali dovevano agire. Il primo passo lo fece ancora una volta Pappenheim, che lanciò la sua cavalleria contro l’ala destra protestante, descrivendo un’ampia manovra aggirante con lo scopo di evitare il violento fuoco nemico. Riuscì ad arrivare quasi alle spalle delle forze avverse; la cavalleria svedese però reagì abilmente, rovesciando il fronte sino a formare un angolo retto rispetto al centro e all’ala sinistra, sbarrando la via agli imperiali; la manovra ebbe successo grazie alla disposizione a scacchiera del fianco destro, che permise di attuarla in brevissimo tempo.
In soccorso dell’ala destra giunsero parte delle riserve in retroguardia di Gustavo Adolfo mentre la cavalleria imperiale, che non sapeva più come agire, veniva falcidiata dal tiro incrociato di moschettieri e artiglieri. Pappenheim, colto di sorpresa, dovette ritirarsi.
Tilly osservò stupefatto lo svolgere della carica, mostrandosi seriamente preoccupato. Lungi da perdere la testa, il comandante imperiale passò al contrattacco; approfittando della resistenza di Pappenheim, in grado di tener testa alla seguente controffensiva svedese, attaccò l’ala sinistra protestante, occupata dalle truppe sassoni. Mosse nello stesso momento il centro e l’ala sinistra puntando l’artiglieria nemica posta fra la fanteria e la cavalleria. Le truppe di Giovanni Giorgio resistettero valorosamente per circa due ore, ma un improvviso fuoco raddoppiato dei moschettieri imperiali provocò il crollo delle prime linee; protetta dal fumo prodotto dalle armi da fuoco, la cavalleria croata di Tilly caricò violentemente, sfondando al centro e strappando ai sassoni l’artiglieria, che venne immediatamente rovesciata sulle truppe restanti: il fianco sinistro protestante era crollato. Ciò che restava dell’armata sassone si diede alla fuga, compreso Giovanni Giorgio: la ritirata si sarebbe fermata a quattordici miglia dallo scontro, sebbene alcune fonti parlino di una fuga di ben venticinque chilometri.
Annientati i sassoni, la cavalleria croata, euforica, commise però l’errore di puntare subito il centro occupato dagli skvadron svedesi. Gustavo II seppe reagire prontamente; rovesciò nuovamente il fronte ad angolo retto, disponendosi in piccoli gruppi. La cavalleria imperiale s’infiltrò così fra gli angusti spazi che dividevano i reparti svedesi, rimanendone impantanata; moschettieri e picchieri protestanti opposero un’accanita resistenza, appoggiati magistralmente dall’artiglieria, che nella situazione fu egregiamente manovrata. L’eccezionale potenza di fuoco svedese bloccò l’avanzata dei tercios di Tilly, impedendo ai fanti imperiali di soccorrere l’ormai decimata cavalleria.
In quel frangente calò il crepuscolo. Senza avere più il sole in fronte, Gustavo Adolfo decise di contrattaccare. Ordinò alla cavalleria di riserva, nettamente più fresca, di attaccare ciò che rimaneva di quella avversaria sul fianco destro imperiale.
La manovra riuscì. Impegnata a contrastare la carica svedese, la cavalleria croata non si avvide del contemporaneo attacco degli skvadron nel settore che la collegava ai tercios. Gli svedesi frantumarono lo schieramento di Tilly in due tronconi; l’artiglieria sassone fu recuperata, riposizionata e diretta contro i quadrati imperiali, che furono devastati: il fronte imperiale crollò.
L’esercito di Tilly si diede alla fuga: lo stesso comandante fu gravemente ferito e tratto in salvo per miracolo. Pappenheim, ancora impantanato dall’ala destra svedese, avvedutosi della situazione, riuscì a mantenere l’ordine e a ripiegare verso Lipsia con l’aiuto dell’oscurità calante; portò in salvo quasi quattro reggimenti, ma dovette abbandonare la città, indifendibile con così poche truppe.
Sul campo giacevano 12.000 soldati imperiali; altri 7.000, caduti prigionieri, sarebbero stati incorporati tra le file mercenarie di Gustavo II Adolfo; gli svedesi conquistarono tutta l’artiglieria di Tilly e circa un centinaio di bandiere.
Per la causa protestante fu un trionfo: le sorti del conflitto si capovolsero. Gustavo II Adolfo invase la Baviera, occupando addirittura Monaco e giungendo a controllare tutto l’alto Reno mentre i sassoni entravano a Praga.

 


La guerra dei trent’anni all’indomani di Breitenfeld.

La vittoria svedese sul campo di Breitenfeld consacrò la riforma militare di Gustavo II Adolfo; decisivi per le sorti furono lo schiacciante volume di fuoco e la grandissima duttilità della brigata rispetto al tercio.
La battaglia divenne l’icona dei protestanti tedeschi e il mito della propaganda anti asburgica; fu il simbolo della riscossa luterana ai danni di Ferdinando II e della Controriforma. In realtà, la vittoria di Gustavo II Adolfo, seppur schiacciante, non fu affatto decisiva, anzi. Le sorti del conflitto furono sì capovolte, ma per breve tempo; l’esercito imperiale si riorganizzò e, facendo tesoro della lezione subita, analizzò bene il modello tattico svedese che si andava imponendo.
Ferdinando II richiamò alla guida dell’esercito il duca di Wallestein, che preparò la riscossa. Sul campo di Lutzen (1633), imperiali e svedesi si riaffrontavano nuovamente; lo scontro, incerto sino a sera, si concluse nuovamente a favore degli scandinavi, i quali però non solo non ottennero una vittoria decisiva ma perdevano anche il loro comandante: Gustavo II Adolfo cadde nello scontro. Si può quasi dire che per gli imperiali Lutzen fosse stata una dolce sconfitta: i cattolici non subirono infatti alcun danno notevole.
Le forze protestanti non avrebbero più avuto un comandante abile come il re di Svezia e, a Nordlingen (1634) subivano una rovinosa disfatta per mano delle truppe ispano - imperiali guidate dal cardinal-infante Ferdinando d’Austria (1609-1641).
La situazione tornò di nuovo a vantaggio degli Asburgo. Nordlingen, la Breitenfeld dei protestanti, avrebbe capovolto di nuovo le sorti di tutti, sia dei cattolici che tornavano a vincere, sia dei luterani che tornavano a perdere, sia di Wallestein, che veniva fatto assassinare dall’invidiosa nobiltà. Ma la guerra non finì in quell’angolo di Baviera.
A decidere il conflitto fu l’intervento militare della Francia, voluto fortemente da Richelieu deciso ad impedire la vittoria di spagnoli e imperiali. La fase francese (1635-1648), l’ultima del conflitto, avrebbe toccato l’apice a Rocroi, dove il principe Luigi II di Borbone-Condé (1621-1686), duca d’Enghien, sconfisse l’esercito spagnolo del marchese Francisco De Melo (1597-1651), stabilendo una situazione di equilibrio fra le forze in campo, che sarebbe durata sino al 1648, anno in cui finì la guerra.
La pace di Westfalia consacrò la supremazia continentale del Regno di Francia; l’indipendenza delle Province Unite; la potenza del Regno di Svezia, che si estendeva territorialmente sulla Pomerania, su Brema e Verden; confermò altresì la forza degli Asburgo d’Austria; permise alla Baviera di ottenere lo status di Stato elettore; decretò il declino degli Asburgo di Spagna, nuovamente vinti nel 1659 dai francesi.
La grande sconfitta fu però l’idea dell’Impero universale; l’istituzione, che si vuole fondata da Carlo Magno, entrò definitivamente in crisi.

Nicolò Dal Grande

 

Fonte: http://www.tuttostoria.net

 


 

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