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I SISTEMI DI DIFESA DI SVIZZERA, AUSTRIA, IUGOSLAVIA

di Paolo Miggiano

SOMMARIO: Vengono qui analizzati i sistemi di difesa dei tre paesi neutrali che confinano con l’Italia e per ogni paese si studiano le origini nazionali del sistema di difesa e le reazioni di questo al mutare delle minacce nel dopoguerra. Viene poi analizzato e discusso il modo in cui i responsabili italiani della sicurezza si sono rapportati ai tre paesi in questione nel secondo dopoguerra. Secondo l’Autore occorre non sottovalutare il contributo, in termini di esperienza soprattutto, che questi sistemi difensivi possono rappresentare all’interno di un ripensamento generale del modello difensivo italiano.

(Irdisp - Quale disarmo - Franco Angeli editore - Milano - ottobre 1988)



1. Introduzione.

La Svizzera, l’Austria e la Iugoslavia sono tre dei quattro Stati con cui l’Italia condivide confini terrestri. Questi paesi hanno grande importanza per la sicurezza dell’Italia in quanto la separano tanto dall’alleato tedesco quanto dai paesi del Patto di Varsavia. Eppure l’interesse italiano ai sistemi di difesa di questi paesi è inversamente proporzionale alla loro vicinanza geografica ed alla rilevanza delle loro scelte di politica militare sulla nostra sicurezza. Le cause di questa sottovalutazione non stanno solo in Italia. I paesi della NATO sono ancora segnati dai pregiudizi ideologici costruiti negli anni Cinquanta. Per il segretario di Stato americano John Foster Dulles la scelta della neutralità fatta da alcuni paesi europei era una scelta di diserzione (dalla guerra fredda), che assicurava la salvezza della nazione attraverso ‘l’indifferenza’: in definitiva una scelta ‘immorale’ (1). Non molto diverso era l’atteggiamento verso la Iugoslavia, che - sebbene non fosse mai entrata nel Patto di Varsavia - ne veniva considerata parte integrante. Che bisogno c’era di studiare i sistemi di difesa di Stati ‘immorali’ e ‘disertori’? Anzi, che bisogno c’era di avere alcun rapporto con essi? La distensione tra le superpotenze negli anni Settanta ha in parte cambiato l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dei neutrali e non-allineati. Permane invece lo scarso interesse allo sviluppo dei rapporti e della conoscenza di questi paesi. Le autorità di governo italiane hanno seguito pedissequamente l’atteggiamento dell’alleato americano, talvolta digerendone con estrema lentezza le positive evoluzioni. Il lento processo di distensione degli anni Sessanta e Settanta prima con l’Austria e poi con la Iugoslavia non sembra aver spazzato via i pregiudizi ideologici, se recentemente una qualificata rivista italiana di politica internazionale giudica ancora il neutralismo come “diritto… di non scegliere tra il bene e il male” e lo riconduce alla “inconscia penetrazione del concetto di autonomia della politica dalla morale che si è verificata agli albori della società moderna” (2). Pochi e lenti sono stati i passi in avanti nei rapporti bilaterali. E’ solo nel 1984 che un capo del governo italiano si decide a visitare Vienna, a 103 anni di distanza dalla precedente visita di De Pretis. Ed è solo nel 1985 che il presidente del Consiglio Craxi visita la Iugoslavia, a vent’anni dalla precedente. Se poi passiamo al piano della conoscenza i ritardi son o ancora più marcati. In Italia il substrato di ignoranza e di disinteresse per i vicini neutrali si è dimostrato ancora più solido e resistente dei pregiudizi ideologici che lo avevano generato e che - a sua volta - aveva alimentato. A tutt’oggi le informazioni su come si difendono tre dei quattro vicini con cui confiniamo sono frammentarie, discontinue, parziali. Di studi approfonditi poi, neanche a parlarne. L’atteggiamento degli Stati Uniti è, almeno in parte, comprensibile. Per il lontano governo americano infatti i tre paesi neutrali o non-allineati sono una delle tante variabili in gioco nella definizione di una politica di sicurezza mondiale. Meno giustificabile risulta un analogo atteggiamento da parte dell’Italia, la cui sicurezza a nord-est dovrebbe tener conto delle scelte di difesa di Svizzera, Austria e Iugoslavia. I primi tre paragrafi di questo capitolo sono dedicati alla politica di sicurezza di ogni singolo paese. A sua volta ogni paragrafo è diviso in tre parti: le origini nazionali del sistema di difesa; le reazioni del sistema di difesa al mutare delle minacce nel dopoguerra; il sistema di difesa attuale. Il quarto paragrafo cerca di fare un confronto e di mettere in evidenza somiglianze e differenze tra i sistemi. Il quinto paragrafo è dedicato a come i responsabili italiani della sicurezza si sono rapportati ai tre paesi in questione nel secondo dopoguerra. Il sesto ed ultimo paragrafo presenta le conclusioni e suggerisce alcune proposte.

 



2. Il sistema di difesa svizzero.

2.1. Le radici

Tra qualche anno la Svizzera celebrerà il settecentenario della sua nascita, che viene fatta risalire al 1291, quando i primi tre Cantoni della futura Confederazione si riuniscono nella piana di Gruetli per stringere un patto di mutua difesa contro la dinastia degli Asburgo. Le origini della neutralità svizzera e la peculiarità del suo sistema di difesa sono però molto più travagliate e contraddittorie di quanto normalmente si pensi. Sono necessari ben cinque secoli prima che la neutralità svizzera, con il suo carattere pacifico ma armato venga accettata dalle maggiori potenze europee. Dal Trecento al Settecento la storia della Confederazione svizzera è fatta non solo di espansione per adesioni volontarie dei Cantoni, ma anche di tentativi di espansionismo militare e guerre civili. Così come il modello militare della milizia, cioè dell’organizzazione armata dei cittadini di ogni Cantone, non ha solo il valore democratico che il mito di Guglielmo Tell indurrebbe a pensare. Dal Quattrocento al Settecento infatti le milizie cantonali svizzere vengono affittate ai più diversi sovrani d’Europa, al servizio dei quali conducono guerre di conquista e operano nel più tradizionale dei modi. L’utilizzo delle proprie truppe come moneta di scambio è, in questi secoli, una delle condizioni principali che garantiscono la sopravvivenza dello Stato federale. Così, fin dalle sue origini, la neutralità svizzera mostra la sua natura armata. La fine dell’avventura napoleonica e il nuovo assetto dell’Europa deciso a Vienna (1815) e Parigi vedono la neutralità svizzera confermata e accettata dalle otto potenze vincitrici. Ma non è un’accettazione incondizionata: la neutralità degli svizzeri verrà rispettata a condizione che sia ‘permanente’ ed ‘armata’. In quanto permanente la neutralità svizzera avrebbe garantito a tutte le potenze europee di non doversi tutelare contro le armate svizzere. In quanto armata la neutralità avrebbe garantito che il territorio svizzero, di interesse strategico per il passaggio est-ovest dell’Europa, non sarebbe stato utilizzato dai propri avversari. La Repubblica federale, che ora conta 22 Cantoni, stabilisce il servizio militare obbligatorio e crea un esercito di 32.000 uomini. Dopo un periodo di forti tensioni interne e un abortito tentativo separatista di una parte dei cantoni di lingua tedesca, la Costituzione del 1848 consolida la natura federativa, repubblicana, plurilingue, pluriconfessionale, democratica dello Stato svizzero. Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento lo sviluppo delle strutture e dei servizi federali (forze armate, tribunali, ferrovie, banca nazionale) consolidano il moderno Stato federale. Anche se in questo periodo le forze armate vengono usate alcune volte in funzione repressiva interna contro le lotte dei lavoratori, questa funzione è del tutto eccezionale. Le minacce più serie all’unità e all’identità del paese sono quelle indotte dai due conflitti mondiali. Nel 1915-18, la prima guerra mondiale suscita forti tensioni tra la popolazione di lingua francese e quella di lingua tedesca. La credibilità militare della neutralità svizzera viene confermata (3), ma l’unità interna della Confederazione e la sua neutralità politica sono messe a dura prova. Prova che comunque gli svizzeri superano positivamente, aumentando così anche la credibilità politica della propria neutralità. Ben più difficile a tutti i livelli la situazione nella seconda guerra mondiale, quando la Svizzera si trova ad essere completamente circondata da paesi fascisti e collaborazionisti. La minaccia è politica e militare. Politicamente le forze fasciste cercano di sviluppare nel paese un atteggiamento di conciliazione, sul modello del regime collaborazionista francese di Vichy; militarmente Hitler prende in considerazione l’ipotesi di un’invasione della Svizzera (piano ‘Tannenbaum’), come già fatto con l’Austria. Anche in questo caso l’obiettivo è di eliminare i vuoti tra le forze militari dell’alleanza nazi-fascista. Le pressioni indirette riescono a fare breccia nella classe politica svizzera. Immediatamente dopo l’instaurazione del regime di Vichy in Francia, il presidente della Repubblica elvetica si esprime in modo accomodante verso il ‘nuovo ordine europeo’ di Hitler e Mussolini (4). E’ in questa situazione che i militari svizzeri emergono come tutori dell’indipendenza e della neutralità del paese. Il generale di lingua romanza Henri Guisan, eletto nel 1939 dall’Assemblea federale a comandante delle forze armate in tempo di crisi, convoca gli ufficiali superiori nella storica piana di Gruetli e legge loro un messaggio in cui si afferma che la Svizzera avrebbe tenuto fede ai suoi valori ad ogni costo (5). Una dichiarazione preceduta e seguita da precise misure dissuasive. Per contrastare la propaganda politica e psicologica nazista le forze armate potenziano il servizio di propaganda interna ‘Armée et Foyer’ (esercito e focolare), per aumentare le forze combattenti viene approvata una legge sul servizio volontario femminile, infine viene adottata la nuova strategia del ‘ridotto alpino’. In caso di invasione viene cioè previsto di ritirare tutte le forze militari sulle Alpi svizzere, facendo saltare il tunnel del Gottardo e organizzando una difesa ad oltranza in una zona di difficile utilizzo da parte del nemico. Se le forze dell’Asse avessero voluto utilizzare la Svizzera per accorciare le proprie linee di comunicazione avrebbero dovuto pagare un prezzo estremamente gravoso. Un prezzo che i potenziali aggressori concludono essere troppo alto. Nei lavori preparatori del piano ‘Tannenbaum’ i militari tedeschi affermano infatti di non nutrire alcun dubbio sulla volontà e capacità degli svizzeri di difendersi se attaccati (6). Sono queste valutazioni dello Stato maggiore tedesco che portano Hitler a definire la Svizzera come un “piccolo porcospino” (7), sul quale ritiene conveniente non mettere le mani. Anche in questa circostanza la capacità di difesa armata della Svizzera sembra aver svolto, accanto ad altri fattori, un ruolo decisivo di garanzia della neutralità. Neutralità che ha comunque dei prezzi. Nel corso della seconda guerra mondiale 120 sono gli incidenti a fuoco lungo le frontiere o sui cieli svizzeri (8), mentre alle potenze dell’Asse viene garantito l’utilizzo delle ferrovie svizzere per il trasporto di merci.

2.2. Evoluzione nel dopoguerra.

Il sistema di difesa svizzero ha subito in questo dopoguerra alcuni mutamenti significativi, dovuti all’emergere di tre nuove minacce: un attacco o invasione sovietica, un attacco o ricatto nucleare, un blocco dei rifornimenti di materie prime. Nel 1956 l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica produce effetti di breve e lungo termine nella politica di sicurezza svizzera. Le spese militari vengono aumentate e si apre un dibattito sulla possibilità di dotarsi di armi nucleari tattiche per bloccare la superiore potenza convenzionale delle forze del Patto. Il partito dei nuclearisti (9) sembra avere la meglio quando, nel 1958, il governo approva in linea di principio l’adozione delle atomiche tattiche. Ma questa scelta di principio non viene tradotta in pratica. Nel 1968 il governo svizzero decide invece di aderire al Trattato per la non proliferazione delle armi nucleari. Alla scelta di non rispondere alla minaccia sovietica (nucleare e convenzionale) con proprie armi nucleari si accompagna l’adozione di altre misure dissuasive: la difesa passiva contro attacchi nucleari e il potenziamento della difesa militare convenzionale. Mosse dalla considerazione che “la neutralità non garantisce dalla radioattività”, e da una profonda adesione alla missione di protezione della popolazione, le autorità svizzere hanno dedicato alla Protezione Civile grande attenzione e risorse. Nel 1950 viene approvata la prima legge per la Protezione Civile, che impone che tutte le nuove case siano dotate di rifugi antiatomici e garantisce finanziamenti statali pari al 70% del costo del rifugio. Nel 1959 l’impegno dello Stato per la Protezione Civile viene inserito nella Costituzione. Nel 1963 la legge sulle abitazioni protette impone che tutte le costruzioni siano dotate di rifugi antiatomici, mentre la gestione della Protezione Civile passa dal ministero della Difesa a quello di Giustizia e Polizia. Nel corso degli anni Sessanta la strategia del ridotto alpino - efficace nel negare l’utilizzo del territorio svizzero soprattutto lungo l’asse nord-sud - viene ‘diluita’. Nuove fortezze vengono dislocate anche nella parte non montagnosa del paese, vengono introdotte le divisioni corazzate e potenziata la dotazione di aerei. Per rispondere ad un attacco di sorpresa viene anche aumentata la componente di militari di professione e di civili che lavorano stabilmente per la Difesa. Alla minaccia di blocco delle materie prime il sistema di difesa svizzero reagisce tramite misure di costituzione obbligatoria delle scorte, già sperimentata durante la seconda guerra mondiale. Anche la scelta di dotarsi di centrali nucleari per la produzione di energia rientra in questa impostazione strategica di limitare la dipendenza energetica dall’estero. Verso la fine degli anni Sessanta le autorità sentono il bisogno di ridefinire il senso generale della politica di sicurezza e di riorganizzare le sue varie parti. Nel 1966 in un ‘Rapporto’ (10) del governo (Consiglio federale) al parlamento (Assemblea federale) viene introdotta la definizione della difesa totale o generale (‘Gesamtverteidigung’) come obiettivo del sistema di difesa svizzero. Nel 1969, dopo due anni di lavoro, una commissione incaricata dal governo di definire i principi della difesa totale rende pubblico il suo studio: ‘Basi di una concezione strategica svizzera’. Nel 1970 un ‘libro rosso’ sulla difesa civile viene distribuito a tutte le famiglie. Nel 1973 un ‘Rapporto’ del Consiglio federale sancisce che la difesa totale è la dottrina ufficiale della Confederazione.

2.3. Il sistema di difesa.

La Svizzera è un paese situato al centro dell’Europa, prevalentemente montagnoso, senza sbocchi sul mare. Il suo territorio comprende la zona montagnosa alpina (60% del territorio), la zona collinosa centrale (30%) e la zona montagnosa del Giura (10%). Le due zone montagnose favoriscono il difensore rispetto ad un eventuale aggressore, mentre lungo l’asse est-ovest c’è invece un corridoio collinoso (con colline fino a 1000 m) che va da Ginevra a San Gallo, utilizzabile dalle divisioni corazzate, come mostra la tavola 9.1. Circondata da tre lati da paesi della NATO, la Svizzera forma infatti con l’Austria un corridoio terrestre ed aereo che separa le forze della NATO del centro da quelle del sud dell’Europa. Dal punto di vista economico la mancanza di sbocchi sul mare rende la Svizzera dipendente dai porti italiani di Genova e Livorno. L’articolazione della difesa tiene ovviamente conto della situazione geostrategica del paese. Nel ‘Rapporto’ del 1973 minacce e strategia sono chiaramente definite. “La strategia rappresenta un modo di pensare, un’iniziativa e un’attitudine da adottare nel campo della sicurezza. E’ l’impegno, concepito globalmente e diretto contro tutte le minacce suscitate da progetti ostili (sovversione, terrorismo, abuso della forza, ricatto, attacco diretto e indiretto, conseguenze di atti militari o paramilitari organizzati dall’estero) di tutte le nostre forze civili e militari” (11). Per far fronte a queste minacce la difesa svizzera è articolata su quattro gambe: militare, civile, economica e psicologica. La ‘difesa militare’ svizzera si basa su una ‘armata’ (non esiste cioè un esercito e un’aeronautica come da noi, ma una sola forza armata che dispone sia di carri armati che di aerei) di cittadini-soldati, detta milizia, forte di 645mila uomini, mobilitabili in 48 ore (12). Il sistema della milizia è una caratteristica del sistema di difesa svizzero. Il principio del cittadino-soldato, in contrapposizione a quello degli eserciti di quadri permanenti e separati dalla società, sta alla base di questo sistema. L’armata di milizia è qualcosa di diverso da una forza armata con ampie riserve o di leva. Essa infatti assegna al cittadino-soldato un ruolo centrale, predominante, su quello dei militari di carriera (13). Il cittadino ha con la difesa un rapporto continuo e costante che dura quasi per tutto l’arco della vita. Il numero dei professionisti militari è ridotto al minimo indispensabile e solo i cittadini-ufficiali proposti per il grado di comandante di divisione devono abbandonare la loro occupazione civile. L’addestramento militare è scaglionato nel tempo e proporzionale al grado. I giovani dai 20 ai 32 anni sono destinati alle truppe d’élite (‘Auszug’) e, in questo periodo della loro vita, devono fare un corso reclute (118 giorni) e altri otto corsi di aggiornamento (160 giorni) (14). Dai 33 ai 42 anni gli uomini passano alle forze territoriali di primo livello (‘Landwehr’), nelle quali compiono 3 corsi di aggiornamento per un totale di 39 giorni. Dai 43 ai 50 anni ci si addestra nelle forze territoriali di secondo livello (‘Landsturm’), dove si svolgono 23 giorni di addestramento. I cinquantenni sono infine inseriti nella Protezione Civile, che li impegna per 2 giorni l’anno. Quindi un cittadino che svolga il suo servizio militare come soldato dedica, nel periodo della sua vita dai 20 ai 50 anni, circa un anno alla sua preparazione militare. Con l’aumentare del grado e per alcune specializzazioni aumenta anche il tempo che il miliziano deve dedicare alla sua preparazione. Un capitano, ad esempio, dedica alla sua formazione un periodo complessivo di 4 anni. Il principio del servizio militare obbligatorio è preso molto seriamente dagli svizzeri. L’obiezione di coscienza non è legalizzata e un refererendum tenuto nel 1977 ne ha confermato l’illegalità. Chi si dichiara obiettore (15) può essere condannato da quattro giorni a quattro anni di reclusione, ma si può evitare il servizio militare dietro pagamento di una tassa d’esenzione e si può optare per i servizi non armati, come quello sanitario. Dal punto di vista politico l’armata di milizia evita la possibilità che le forze armate si contrappongano al potere civile come gruppo di potere, anche se la coincidenza tra gerarchia sociale, politica e militare è stata criticata come ingiusta dai socialisti (16). Dal punto di vista militare le carenze dell’esercito di milizia, relative ai ristretti tempi di addestramento e ai lenti tempi di mobilitazione, sono affrontate con diversi correttivi. Ai ristretti tempi di addestramento si cerca di ovviare attraverso il più efficace utilizzo dei periodi addestrativi e lo sviluppo della formazione anche fuori dal servizio. Il primo viene ottenuto soprattutto attraverso l’uso generalizzato di simulatori (17). Il secondo attraverso un’ampia gamma di iniziative finanziate dallo Stato e organizzate da diverse istituzioni, come le società di tiro (18) o le associazioni di ufficiali e sottufficiali (19). Un’altra misura adottata per far fronte ai punti deboli dell’armata di milizia è l’aumento dei professionisti, per le specializzazioni più accentuate e le funzioni di pronto intervento. L’aviazione conta 3500 professionisti (20) per la squadra di sorveglianza (21), il sistema radaristico di difesa aerea, il servizio aerodromi militari. 1500 militari di carriera sono adibiti alle funzioni di addestramento dei miliziani, mentre altri 2000 professionisti si occupano delle fortezze sparse in tutto il paese e probabilmente anche di garantire-organizzare la distruzione o attivazione militare di 20mila punti critici (ponti, tunnel, ostacoli naturali) (22). Inoltre il ministero della Difesa dispone di 10.500 dipendenti (sui 32.000 dipendenti federali di tutti i ministeri). Anche contando i funzionari del ministero della Difesa, i professionisti non arrivano comunque a superare il 4% dei militari che compongono l’armata. Infine due ultime considerazioni relativamente ai tempi di reazione contro un attacco a sorpresa. In primo luogo, se è vero che i tempi di mobilitazione di tutte le unità sono generalmente stimati sulle 48 ore, sembra però che le unità di frontiera siano mobilitabili nell’arco di qualche ora (23). In secondo luogo, oltre ai militari di professione, ci sono ogni anno circa 34mila reclute in fase di addestramento e 400mila miliziani ai corsi di aggiornamento, che garantiscono in permanenza una forza di pronto impiego perlomeno pari a 20.000 unità (24). Accanto alle debolezze del sistema di milizia c’è la sua forza. In Svizzera ci sono 600mila armi automatiche e 24 milioni di proiettili. E’ il paese con la più alta densità di missili, artiglieria antiaerea e fucili d’Europa. 600 sono le basi militari, 170 i depositi di munizioni, 100 i chilometri di gallerie sotterranee. Tra i circa 900 carri armati ci sono 300 ‘Centurion’, mentre sono iniziate le consegne di 400 nuovi ‘Leopard 2’. Circa 1500 autoblinde e 4mila pezzi di artiglieria completano l’armamento dell’esercito. L’aviazione dispone di 297 aerei e un centinaio di elicotteri da combattimento. Dal punto di vista operativo l’armata è organizzata su 3 corpi d’armata di campagna, uno di montagna e 17 brigate indipendenti, come mostra la tavola 9.2. I corpi d’armata corrispondono a precise zone del paese, sono formati dalle truppe migliori (‘Auszug’), dotati di grossa mobilità, di molti carri armati e armi anticarro pesanti, mentre sembrano sottovalutate le armi anticarro leggere (25). Alla ‘Landsturm’ sono affidate le 6 zone territoriali, con compiti principalmente di supporto medico e logistico. Da miliziani della ‘Auszug’ e/o della ‘Landwehr’ sono formate anche le brigate indipendenti di frontiera, di fortezza e del ridotto alpino. La strategia operativa in uso è detta ‘combinata’, perché unisce alla difesa fissa e più legata al territorio, quella mobile delle divisioni corazzate. Il tipo di organizzazione militare adottato è in effetti più simile a quello degli eserciti NATO che ad un modello di guerra territoriale o partigiana, che gli svizzeri non hanno più praticato da almeno quattro secoli. Anche se nei documenti ufficiali esistono riferimenti alla volontà di resistere nei territori occupati, nessuna pianificazione militare sorregge queste dichiarazioni. Gran parte della difesa si basa sulle grosse unità corazzate che hanno la funzione di dissuadere il potenziale aggressore dall’invadere la zona collinosa centrale, dove vive l’80% della popolazione. Ma proprio la densità di popolazione e di centri abitati di questa zona renderebbe molto difficoltoso l’utilizzo in massa delle forze corazzate. La non pianificazione di forme più decentrate di difesa, con mezzi più leggeri, maggiore ancoramento territoriale, capacità di resistere anche in territorio occupato, sembra quindi derivare non da motivi militari, ma da ostacoli politici, militari e sociali (26). Il decentramento praticato in Svizzera riguarda principalmente le funzioni di supporto logistico e di reclutamento, nonché il finanziamento di diversi aspetti del sistema difensivo. La ‘difesa civile’ è curata dal corpo della Protezione Civile (PC), che svolge sia funzioni di protezione contro calamità naturali che contro attacchi militari. La Protezione Civile, che dipende dal ministero di Giustizia e Polizia, cura sia la formazione (generale e professionale) che l’organizzazione concreta della protezione. Ne fanno parte dalle 480 alle 600mila persone tra cui gli uomini scartati dal servizio militare, i cinquantenni, 20mila donne volontarie e, probabilmente, anche una parte consistente delle forze militari territoriali. Circa 300mila di queste persone hanno ricevuto un addestramento completo. Nel 1982-83 due milioni di copie di un nuovo opuscolo sulla difesa civile sono state distribuite alle famiglie. La difesa civile si articola in tre settori: lo sviluppo dei rifugi antiatomici, il servizio sanitario in situazioni di crisi, il servizio di sorveglianza e allarme. La Svizzera dispone di rifugi antiatomici o ‘protetti’ in grado di ospitare circa i 3/4 della popolazione. Verso il Duemila dovrebbe essere raggiunto l’obiettivo di un rifugio per ogni abitante. Sotto questo aspetto si tratta di un caso unico in Europa, ancora più notevole se si considera che la Svizzera non dispone di armi nucleari e che le autorità ritengono che la minaccia più credibile derivi dal ‘fall-out’ radioattivo di ordigni nucleari lanciati contro paesi vicini dotati di armi nucleari (27). In situazioni di crisi nucleare si prevede l”allineamento verticale’ della popolazione nei rifugi. Oltre ai rifugi familiari esistono anche rifugi collettivi a livello comunale e locale, che fungono da posti protetti anche per le operazioni militari della difesa territoriale. Tra questi ci sono gli ospedali protetti, che dispongono di circa 70mila posti letto. Grande importanza ha ricevuto negli ultimi anni il servizio di sorveglianza e di allarme. Esso consiste di una rete di posti di sorveglianza dell’inquinamento chimico e fisico dell’ambiente, diretti da specialisti e collegati al centro attraverso vari mezzi (cavi telefonici sotterrati, radio, piccioni). Al centro esiste una autorità che rilascia l’ordine di allarme, che viene tramesso tramite sirene in tutto o in una parte del paese, mentre televisioni e radio danno indicazioni alla popolazione. Il sistema viene sperimentato periodicamente (28) e, dal 1984, la Centrale nazionale per la sorveglianza e l’allarme nei casi di minacce vitali è completamente operativa relativamente ai pericoli di radioattività, inondazioni e caduta di satelliti (29). Dato che molti di questi servizi servono sia ai cittadini che ai miliziani, essi sono in via di coordinamento. La credibilità della Protezione Civile è alta dato che, secondo un recente sondaggio (30), il 70% della popolazione crede di avere buone o medie possibilità di sopravvivere in caso di guerra o catastrofe. Sia dal punto di vista dell’organizzazione che dei costi la PC è molto più decentrata dell’armata. Organizzativamente è articolata in Stati maggiori che corrispondono alle strutture decentrate dello Stato. Finanziariamente, i costi della PC gravano per il 46% sul governo federale, il 43% sui Cantoni e l’11% sui privati (31). Le spese complessive per la PC ammontano al 10-15% del bilancio della Difesa (32). La ‘difesa economica’ (o economia di guerra) provvede ad assicurare gli approvvigionamenti del paese in viveri, materie prime ed energia sia in tempo di pace (crisi, embarghi) che in tempo di guerra (33). Questa attività è coordinata dal ministro per l’Economia Pubblica, che dispone di tre uffici: alimentazione di guerra, industria di guerra e trasporti di guerra. La difesa economica si articola in iniziative immediate e in progetti di lungo periodo. Tra le prime l’impegno principale è nella realizzazione di riserve alimentari ed energetiche a livello di famiglia, comunità locali, fabbriche, Cantoni e Confederazione. Le diverse scorte dovrebbero garantire la vita privata e industriale del paese per 4-6 mesi di blocco totale del commercio con l’estero. Il finanziamento di queste scorte è a carico dei privati e delle imprese. Il governo federale fornisce agevolazioni fiscali e si occupa delle riserve di materiali pericolosi e di diretta importanza militare. Tra i progetti a lunga scadenza il più importante è il piano alimentare per gli anni Ottanta che prevede uno sviluppo agricolo capace di garantire - in caso di crisi - la produzione autonoma di 2400 calorie al giorno per persona (34). La ‘difesa psicologica’ prevede una serie di misure di sostegno ai valori fondamentali della Confederazione rispetto ad altri valori ritenuti inaccettabili. In tempo di guerra il suo compito è di dare all’opinione pubblica un’informazione che le permetta di resistere alla propaganda straniera. In tempo di pace la difesa psicologica opera su un terreno scivoloso in cui può essere facile per le autorità prendere abbagli e commettere abusi. In questo senso sembrano andare, a nostro parere, alcune dichiarazioni di alti responsabili della Difesa e del governo secondo cui il movimento occidentale per il disarmo nucleare non sarebbe altro che uno strumento della guerra psicologica di Mosca (35).

 



3. Il sistema di difesa iugoslavo.

3.1. Le radici.

La Iugoslavia è molto più giovane della Svizzera. E’ solo verso la fine dell’Ottocento che il piccolo Regno di Serbia, attraverso una serie di guerre di indipendenza e di espansione, dà origine al primo nucleo dell’attuale Stato. Nel 1918, a seguito della disgregazione dell’impero austroungarico, si forma il primo Regno degli iugoslavi (slavi del sud), i cui confini corrispondono sostanzialmente - a parte l’Istria - a quelli attuali. Nel 1921 la monarchia diventa costituzionale e basata su un parlamento. Si tratta comunque di una democrazia limitata, dominata da un apparato statale centralizzato e controllato dalla nazionalità serba, nata all’ombra di leggi eccezionali sulla sicurezza pubblica. L’opposizione delle nazionalità croate, slave e macedoni al potere centrale monarchico è forte. Per alcuni partiti che rappresentano minoranze nazionali l’obiettivo è una maggiore autonomia attraverso la lotta politica. Per altri, come gli ‘ustascia’ croati e affini al nazismo, la prospettiva è nettamente separatista e viene perseguita con gli attentati (36). Nel 1941 le forze dell’Asse invadono il paese. L’esercito monarchico resiste per dodici giorni e poi si disgrega, mentre il re fugge in Inghilterra. La Iugoslavia viene smembrata tra Germania, Italia, Bulgaria, Ungheria, Romania e Albania. In Croazia si instaurano al potere gli ‘ustascia’ di Ante Pavelic, alleati dell’Asse, che iniziano persecuzioni sistematiche delle minoranze ebraica e serba. Due forze guidano inizialmente la resistenza della popolazione contro gli invasori: la parte dell’esercito rimasta fedele al re (cetnici) e comandata dal colonnello Michajlovic; i partigiani organizzati dal Partito comunista iugoslavo (‘Komunisticka Partija Jugoslavije’, KPJ), il cui segretario è Josef Broz Tito. Mentre i primi, dal dicembre 1941, troveranno un ‘modus vivendi’ con le forze dell’Asse, i secondi assumeranno un ruolo militare e politico sempre più rilevante. Alcune caratteristiche peculiari dei comunisti iugoslavi aiutano a capire il loro successo nella resistenza. Nato come gli altri partiti comunisti da una scissione dal partito socialista agli inizi degli anni Venti, il KPJ mostra maggiore autonomia dalle direttive dell’Internazionale comunista controllata dai comunisti russi (37). Negli anni Venti e Trenta, le divergenze con Mosca, soprattutto sulla questione delle nazionalità, sono profonde ed esplicite. Una indipendenza che i comunisti russi cercano di piegare con la sostituzione di ben tre segretari del partito, l’espulsione di un centinaio di quadri, la minaccia - alla fine degli anni Trenta - di scioglimento del KPJ. Nonostante le pesanti ingerenze esterne, i comunisti iugoslavi mantengono la propria natura semifederativa, di organizzazione formata da tre diversi e indipendenti partiti (serbo, sloveno e croato). E’ nel corso dei cinque anni della guerra di liberazione che, assieme alla crescita dei comunisti iugoslavi, maturano alcune caratteristiche di lungo periodo del modello di difesa della moderna Iugoslavia. Nel 1941 le prime bande partigiane sono formate da decine-centinaia di persone, per un totale di qualche migliaio di combattenti. Nel 1942, oltre alle bande, si sviluppano le brigate mobili (3mila uomini) e il totale delle forze arriva a 140-150mila uomini. Nel 1945 il complesso delle forze di liberazione nazionale guidate da Tito è di 800mila uomini, articolati anche in armate e corpi d’armata, in tutto 62 divisioni e 25 brigate indipendenti (38). Si tratta della quarta armata del fronte antifascista, che dà un contributo decisivo alla guerra nell’area balcanica. Alla fine del conflitto la Iugoslavia conta un milione e 700mila caduti, pari al 10,6% della popolazione. Una percentuale superiore alle perdite subite dalla Russia. A fronte di 300mila partigiani morti nel corso della guerra stanno oltre 450mila morti delle truppe nemiche (39) e 30-35 divisioni dell’Asse (circa 900mila uomini) impegnate nel controllo del paese e distolte da altri fronti (40). Un contributo militare riconosciuto in primo luogo dalle grandi potenze dell’alleanza antinazista, che ne tengono conto alla Conferenza di Yalta. L’esperienza iugoslava della guerra di liberazione crea anche un’autonoma cultura e tradizione militare. Lo sviluppo, accanto alle piccole unità partigiane, di unità più grandi e più mobili (brigate, divisioni e corpi d’armata) sta alla base di una peculiare strategia di guerra. La guerra ‘combinata’ infatti prevede, accanto alle classiche formazioni e azioni partigiane, l’uso delle grandi unità per la guerra frontale: una concezione che si distacca tanto dalle esperienze di guerra partigiana degli altri paesi europei occidentali, che dalla struttura dell’Armata rossa sovietica. Dal punto di vista politico la guerra di liberazione vede il KPJ passare da 20-40mila iscritti a 140mila. Un aumento di influenza dovuto non solo all’impegno militare, ma anche agli obiettivi sociali ed istituzionali promossi dal partito nel corso del conflitto: la rivoluzione agraria (divisione dei latifondi tra i contadini poveri) e la rinascita nazionale (una repubblica federale basata sul riconoscimento delle diverse nazionalità). Sempre nel corso della guerra viene confermata l’elevata autonomia dalle pressioni di Mosca (41), che - nei primi due anni del conflitto - non aveva fornito ai partigiani iugoslavi alcun aiuto militare.

3.2. Evoluzione nel dopoguerra.

Alla fine del conflitto il KPJ rappresenta una larghissima parte del paese e dirige un’armata che ha liberato - sostanzialmente da sola - il territorio nazionale. Ma la rinascita nazionale iugoslava, già durante la guerra di liberazione, tende ad oltrepassare l’obiettivo di restaurare i confini del vecchio Stato, consolidati tra il 1921 e il 1941. I dirigenti iugoslavi aspirano ad un ruolo di egemonia nella regione balcanica che si manifesta in molti modi. Dagli appoggi ai partigiani greci alla proposta di una federazione con la Bulgaria, passando per il tentativo di espandersi a nord e ad ovest. Con la motivazione del proprio impegno militare, già durante la guerra, le autorità iugoslave cercano di estendere il proprio controllo su zone in cui gli iugoslavi sono una minoranza nazionale: una parte del Friuli italiano e della Carinzia austriaca (42). Nel dopoguerra queste rivendicazioni continuano ad essere fonte di profonde tensioni, anche militari, con i due Stati occidentali. Altrettanto significative, anche se meno conosciute, sono le tensioni con Mosca. I primi anni successivi al conflitto vedono un avvicinamento economico, politico e militare dei comunisti iugoslavi all’Unione Sovietica. Ma è un incontro costellato da profondi contrasti. Gli iugoslavi rifiutano le società miste proposte dai russi, il controllo russo sulle attività bancarie e - soprattutto - i tentativi di infiltrazione dei servizi segreti russi nelle strutture politiche e statali iugoslave. Nel 1948 i contrasti sfociano nella rottura e la Iugoslavia viene espulsa dal Cominform, l’organizzazione di collegamento dei partiti comunisti controllata da Mosca. La rottura del 1948 non è solo una frattura ideologica. L’Unione Sovietica toglie di colpo alla Iugoslavia i finanziamenti economici e l’ausilio dei tecnici di tutto il mondo comunista. Nei mesi successivi le manovre di destabilizzazione organizzate da Mosca fanno un salto di qualità. Nel 1948 gli ufficiali ‘cominformisti’ tentano un golpe militare (43), mentre nel 1949-50 alle frontiere con i paesi dell’est avvengono oltre un migliaio di incidenti. In questi anni la Iugoslavia fronteggia una reale minaccia di invasione sovietica. Una minaccia alimentata dalla propaganda al vetriolo del Cominform contro il revisionismo iugoslavo, nonché dai processi contro vari dissidenti dell’est accusati di ‘titoismo’. Per farsi un’idea della situazione vissuta in quel periodo dalla Iugoslavia basta leggere il titolo di uno dei tre punti all’ordine del giorno alla riunione del Cominform del novembre 1949: “Il Partito comunista iugoslavo in mano agli assassini e alle spie”. Negli anni Cinquanta la Repubblica federale iugoslava comincia a rendere strutturale la propria indipendenza ideologica dall’Unione Sovietica. Nel 1952 il carattere semifederativo del partito viene reso esplicito anche nellla denominazione, che diventa Lega dei Comunisti Iugoslavi (LCI). In luogo della direzione centralizzata e statale dell’economia il governo iugoslavo propone l’autogestione per le imprese e lo sviluppo dei coltivatori diretti nelle campagne. Se con l’Italia il punto più alto di tensione è raggiunto nel 1953, con gli altri paesi occidentali la situazione è diversa. Dal 1948 al 1958 Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti le forniscono aiuti economici e militari. Nel 1955, dopo il rifiuto iugoslavo di entrare nel Patto di Varsavia, si arriva comunque ad un miglioramento delle relazioni tra Unione Sovietica e Iugoslavia. Kruscev compie una visita a Belgrado e rassicura la Iugoslavia che l’organizzazione del Patto non è rivolta contro di lei, ma solo una contromisura per fronteggiare la NATO. Una rassicurazione che dura meno di un anno. Nel 1956 l’Armata rossa invade l’Ungheria e Tito, pur prendendo le distanze dagli insorti ungheresi, rafforza il dispositivo difensivo iugoslavo. Nel 1959 viene aumentato il bilancio della Difesa e si apre, all’interno delle forze armate, un primo dibattito sulla strategia più adeguata per rispondere ad un’eventuale invasione del paese. Come effetto di questo dibattito vengono rafforzate le medie unità, le brigate indipendenti più adatte ad una guerra partigiana ‘combinata’, che passano da 25 a 125 (44). Nel corso degli anni Sessanta si sviluppano nella Repubblica iugoslava nuove tendenze, in parte contraddittorie. Sul piano della politica estera i comunisti iugoslavi segnano un altro punto di distacco dall’egemonia sovietica, con la promozione da parte di Tito del movimento dei paesi non-allineati. Sul piano della politica interna nuove spinte per una maggiore democrazia e liberalizzazione a tutti i livelli si impongono nel partito e nella società. Contemporaneamente la dipendenza economica dal blocco sovietico (comprese le forniture militari) torna ad aumentare, toccando il suo apice nel 1965. Un riavvicinamento dovuto anche alle preoccupazioni iugoslave per la tendenza mondiale di aggressività dell’imperialismo (guerra in Vietnam, guerra arabo-israeliana, colpo di Stato dei colonnelli greci, rovesciamenti di Ben Bella in Algeria e di Nkrumah in Ghana). Nel 1968 l’invasione russa della Cecoslovacchia rompe nettamente la precedente situazione. Ciò che i dirigenti iugoslavi non avevano voluto ammettere pubblicamente nel 1956 ora viene accettato. Secondo il presidium della Lega, l’attacco alla Cecoslovacchia costituisce “una svolta storica nei rapporti tra tutti i paesi socialisti” (45). L’analisi della minaccia mondiale non vede più come protagonista l’imperialismo, ma le due superpotenze: la dottrina Breznev diventa pericolosa come la dottrina Johnson. E’ per contrastare una possibile invasione da est, come riconoscono coloro che hanno studiato a fondo la difesa iugoslava (46), che viene elaborato un nuovo modello di ‘difesa totale’ da parte delle autorità. Se le forze convenzionali iugoslave non bastano a fronteggiare da sole la superiore potenza delle divisioni corazzate sovietiche, ulteriori forze debbono essere predisposte in modo da garantire un’efficace resistenza armata, anche nelle zone “temporaneamente occupate” del paese. Il concetto di difesa totale si richiama all’esperienza della guerra di liberazione e riprende un concetto già usato a proposito della difesa svizzera: “In caso di aggressione contro il nostro paese - dichiara nel 1968 il sottosegretario alla Difesa Djuro Loncarevic - noi ci trasformeremo in un immenso porcospino, i cui aculei saranno dolorosi per l’invasore” (47). Al decentramento della gestione economica degli anni Cinquanta fa quindi seguito un parziale decentramento dei compiti di difesa militare ai centri di potere minori (Repubbliche e Province autonome, enti locali, organi di autogestione delle imprese). Nel 1968 il diritto all’autodifesa militare delle Repubbliche e dei consigli di impresa viene introdotto nella Costituzione. Nel 1969 una nuova legge federale stabilisce che, accanto all’Armata Popolare Iugoslava (API), le Repubbliche e i consigli possano finanziare, dirigere ed organizzare le Forze della Difesa Territoriale (FDT). Nel 1974 alcune modifiche alla Costituzione rafforzano la credibilità della difesa totale: viene negato a chiunque di firmare la capitolazione del paese o di accettare la sua occupazione parziale o totale; viene negato a chiunque il diritto di impedire ai cittadini di combattere contro il nemico; viene previsto che, in caso di guerra, tutti i cittadini che resistano con le armi o altri mezzi contro l’aggressore siano considerati parte delle forze armate. Nel 1982 una nuova legge federale sulla difesa nazionale introduce il diritto delle unità militari ad avviare automaticamente operazioni militari in caso di invasione e istituisce il servizio unificato di sorveglianza e allarme con sirena per tutto il paese. Attraverso questi provvedimenti si delinea negli anni Settanta ed Ottanta una struttura di difesa totale (‘opstenarodna odbrana’ (48)) articolata, come quella svizzera, su quattro componenti: militare, economica, civile, psicologica.

3.3 Il sistema di difesa.

La Iugoslavia copre una superficie di circa 256mila chilometri quadrati, estendendosi per 900 Km lungo l’asse nord/ovest-sud/est e per 400 Km lungo l’asse nord/est-sud/ovest. Ha 3mila chilometri di confini terrestri, di cui il 70% con paesi del Patto di Varsavia (Ungheria, Romania, Bulgaria), il 10-15% con paesi della NATO (Italia, Grecia) e il resto con paesi esterni ai blocchi (Austria, Albania). Il territorio comprende un bastione centrale montagnoso formato dalle Alpi Dinariche (40% del paese) e la pianura danubiana (60%). Due corridoi di pianure e colline permettono il passaggio terrestre, uno sulla direttrice est-ovest e l’altro nord-sud, come mostra la tavola 9.3. Dal punto di vista geostrategico i corridoi citati sono stati utilizzati più volte in diversi periodi storici. Nella situazione attuale è il corridoio est-ovest che assume interesse strategico sia per la NATO che per l’Unione Sovietica. Per quest’ultima la Iugoslavia potrebbe servire non solo come zona di passaggio per un’invasione dell’Italia passando per la soglia di Gorizia, ma anche come possibilità di avere uno sbocco diretto nel Mediterraneo con i porti necessari al sostegno della Quinta Squadra navale (49). A livello regionale la Iugoslavia ha buoni rapporti con la Grecia e con la Romania, mentre esistono tensioni con la Bulgaria e l’Albania. La prima rivendica il territorio della Macedonia, mentre la seconda è ritenuta dagli iugoslavi in parte responsabile per le rivolte della minoranza albanese del Kossovo. Infine, per quanto riguarda la ‘geopolitica’ delle popolazioni, la Repubblica federale socialista iugoslava comprende otto maggiori nazionalità (50), diverse lingue di cui tre ufficiali (51), tre maggiori comunità religiose (52) ed altre minori. La difesa totale si articola nella difesa militare, economica, civile e psicologica. Le principali componenti della ‘difesa militare’ sono l’Armata Popolare Iugoslava e le Forze della Difesa Territoriale. L’API ha un ruolo centrale nella difesa militare del paese, soprattutto per bloccare un’aggressione-lampo di un eventuale aggressore. Le forze dell’API (esercito, marina e aeronautica) ammontano normalmente a 210mila uomini (53), tra cui 123mila coscritti. Con la mobilitazione delle riserve la forza sale a circa 800mila effettivi. Il servizio militare dura 12 mesi in tutte e tre le armi. L’obiezione di coscienza non è riconosciuta e gli obiettori sono perseguiti penalmente. Le uniche esenzioni riguardano poliziotti e frequentatori delle accademie militari. La selezione delle reclute non si basa sull’idoneità fisica, bensì sull’idoneità al lavoro. Dopo il servizio di leva il 20% dei coscritti passa nelle file della riserva dell’API ed è obbligato a partecipare a corsi di aggiornamento. Il restante 80% entra nelle FDT. L’esercito e l’aeronautica sono le armi più sviluppate. Tra le unità dell’esercito spicca la mancanza dei corpi d’armata. Le medie unità comprendono 19 brigate (7 corazzate, 3 meccanizzate, 3 motorizzate, 3 alpine, 3 di fanteria) e 12 divisioni di fanteria. Queste ultime dipendono dalle sette regioni militari in cui è articolato l’esercito (54), che a loro volta quasi coincidono con la struttura politica del paese, con le sue sei Repubbliche e due Province autonome (55). A queste forze vanno aggiunti 33 reggimenti indipendenti missilistici e di artiglieria, antiaerea e anticarro. Tra i circa 800 carri armati in dotazione si possono contare un centinaio di moderni T-72 e T-74 . Tra i circa 1800 pezzi di artiglieria ci sono moderni sistemi missilistici anticarro e antiaerei. L’aeronautica dispone di circa 355 aerei e 30 elicotteri da combattimento. La marina ha 6 navi di media stazza (fregate e corvette) e 7 sommergibili. Ma la strategia della marina fa perno soprattutto su una trentina di piccole unità missilistiche, su 25 battaglioni di artiglieria costieri e su due brigate di fanteria di marina per la difesa della isole. Le Forze della Difesa Territoriale contano circa un milione di effettivi, articolati in brigate (fanteria e artiglieria) e in battaglioni (contraerei). Esse dipendono da Stati maggiori designati dai governi delle Repubbliche e dispongono di armi in genere meno moderne di quelle dell’API. Le FDT compiono sia esercitazioni autonome che in collaborazione con l’API, che provvede anche all’addestramento di ufficiali e specialisti. La difesa territoriale è finanziata dalle Repubbliche e Province autonome, che dovrebbero destinarle una somma pari al 5-10% del bilancio della Difesa (56). I ruoli delle due forze armate sono diversi a seconda del tipo di aggressione da fronteggiare. Nello scenario di un’aggressione limitata, cioè da parte di un solo Stato senza l’intervento diretto dei blocchi o delle superpotenze, è l’API ad avere il comando delle operazioni e le FDT della Repubblica aggredita le sono subordinate. Nello scenario di un’aggressione totale, da parte di un blocco o una superpotenza, la situazione è più articolata. All’API spetterebbe la ‘battaglia delle frontiere’, per infliggere le prime dure perdite al nemico e garantire i tempi di mobilitazione delle FDT e della difesa civile. Dopo questa prima battaglia, le forze superstiti dell’API attuerebbero una ‘trasformazione discendente’ verso più agili unità partigiane. Le unità dell’API dislocate in territorio “temporaneamente occupato” passerebbero automaticamente agli ordini delle FDT, cui spetta la direzione militare della resistenza. Col mutare dei rapporti di forza a favore della resistenza si creerebbero poi le condizioni per una nuova ‘trasformazione ascendente’ verso unità più regolari e più ampie, in grado di liberare il paese. Particolare attenzione viene dedicata alla necessità di bloccare con battaglie d’arresto un eventuale passaggio lungo il corridoio est-ovest. A questo specifico compito sono destinate perlomeno 14 brigate (di cui due corazzate) e una divisione di fanteria (57). La ‘difesa economica’ ha in teoria gli stessi obiettivi di quella svizzera. L’accumulazione di riserve per fronteggiare crisi militari, iniziatasi nel 1975, si è però scontrata con la necessità di usare queste riserve contro le frequenti crisi economiche (58). La ‘difesa civile’ organizza circa due milioni di persone, tra cui le donne e gli uomini non impegnati nella difesa militare. E’ organizzata su base territoriale, come le FDT, e comprende unità generiche e unità di specialisti (protezione contro attacchi nucleari e chimici). E’ finanziata dagli enti locali al di sotto delle Repubbliche ed ha il compito di proteggere e salvare sia beni che vite dalle distruzioni di guerra e catastrofi naturali. Negli ultimi anni gli sforzi si sono concentrati nella costruzione di rifugi e del sistema di allarme nazionale. Un peso del tutto particolare assume in Iugoslavia la questione della ‘difesa psicologica’. La “autoprotezione sociale” che integra il concetto di difesa totale a livello di minacce minori (terrorismo, sabotaggi, sovversione politica) si collega sia ai tentativi di destabilizzazione compiuti da paesi stranieri, sia alla realtà di uno Stato federale relativamente giovane (ad esempio rispetto alla Svizzera) in cui alcune nazionalità non si sentono pienamente integrate. Come si è già osservato per la Svizzera, quello della difesa psicologica è un terreno scivoloso, nel quale ogni legittima rivendicazione di una minoranza nazionale o di un gruppo di cittadini possono essere presentate come sovvertimento dell’ordine statale. Comunque i tentativi di usare l’autoprotezione sociale o le FDT per fini di controllo interno non garantiscono buoni risultati. Nei casi di disordini e sollevazioni (Croazia 1971, Kossovo 1981) è l’API a intervenire, mostrando la sua vocazione di custode e garante dell’integrità federale dello Stato. La catena di comando politica vede al proprio vertice la presidenza collettiva della Repubblica federale (formata da un rappresentante per ogni Repubblica). E’ la presidenza che decide lo stato di allerta delle due forze armate. Il comando dell’API spetta al ministro della Difesa (in genere un militare) e, in caso questi sia impossibilitato, al capo di Stato maggiore.



4. Il sistema di difesa austriaco.

4.1. Radici ed evoluzione nel dopoguerra.

Il sistema di difesa austriaco è rimasto profondamente condizionato dal modo in cui lo Stato austriaco ha riguadagnato la propria indipendenza dopo la seconda guerra mondiale. La partecipazione al conflitto a fianco della Germania nazista e l’essersi ritrovata - alla fine della guerra - occupata sia dalle potenze occidentali che dalla Russia, hanno per diversi anni legato la sorte dell’Austria a quella della Germania. E’ solo nel 1955 che, sulla base di un trattato concordato dalle quattro potenze vincitrici, può rinascere uno Stato austriaco indipendente e che le truppe straniere abbandonano il paese. La neutralità permamente dell’Austria ha quindi delle caratteristiche peculiari che la rendono diversa dalle esperienze di altri paesi neutrali e nonallineati (Svizzera, Svezia, Iugoslavia). Più che una scelta endogena, frutto di una consolidata tradizione o di un risorgimento nazionale, la neutralità austriaca è prodotta da cause esogene. In effetti, come notano alcuni studiosi austriaci di politica estera (59), si può anche considerare la neutralità austriaca come una scelta imposta e uno scambio politico. Lo scambio politico, diplomaticamente abile da parte austriaca, avviene con gli alleati ed in particolare con l’Unione Sovietica. I dirigenti politici dell’Austria sconfitta hanno come primo obiettivo quello di mantenere l’integrità del paese ai confini precedenti la guerra. I dirigenti sovietici puntano, dopo aver consolidato regimi satelliti nei paesi occupati dall’Armata rossa, ad una fascia neutralizzata (60) e poco armata che li separi dai paesi occidentali alleati nella NATO. Se l’ottenimento dell’indipedenza (e dell’integrità territoriale) è un indubbio successo della diplomazia austriaca, questa ‘grazia ricevuta’ dai vincitori è pagata con una serie di limitazioni della propria indipendenza e capacità di difesa militare. Sul piano giuridico, la dichiarazione di neutralità permanente, adottata dai partiti austriaci sempre nel 1955, prevede che il paese non possa in alcun caso entrare in un’alleanza militare. Sul piano militare, l’articolo 13 del Trattato di Stato prevede che il paese non possa disporre di una serie di armi di distruzione di massa, tra le quali figurano anche i missili. Questi ultimi, sebbene fossero considerati all’epoca tipiche armi aggressive, hanno in seguito vissuto profondi sviluppi tecnologici e di impiego per cui oggi costituiscono anche un elemento fondamentale per una efficace difesa controcarro e antiaerea. Nel 1955 il determinante appoggio sovietico per un’Austria unita e neutrale ha diverse motivazioni. Esso è una indubbia scelta di distensione con l’occidente dei dirigenti succeduti a Stalin, ma è anche il tentativo di indicare all’ancora indecisa Repubblica federale tedesca una strada alternativa all’entrata nella NATO (è solo in quell’anno che la Rft entrerà nell’Alleanza). Infine la scelta sovietica ha anche un valore militare perché un’Austria poco difesa offre alle forze del Patto di Varsavia indubbi vantaggi. In primo luogo essa forma (assieme alla Svizzera) un cuneo terrestre ed aereo che separa le forze NATO del centro da quelle del sud, rendendo più difficoltose le comunicazioni e lo spostamento di truppe tra i paesi NATO. In secondo luogo, in quanto poco difeso, questo cuneo può essere utilizzato militarmente. E’ una situazione che viene percepita con lucidità da Stati Uniti e Francia, che nel 1955 riconoscono la neutralità austriaca alla condizione che fu già posta alla Svizzera nel 1818, che cioè l’Austria si dimostri capace di difendersi (61). Negli anni successivi alla nascita della nuova Repubblica, gli avvenimenti interni ed internazionali modificano anche profondamente ma solo in parte la situazione iniziale. Il mutamento più profondo avviene nell’opinione pubblica. La scelta, più o meno obbligata, della neutralità si consolida e diventa parte di una nuova identità nazionale in cui il neutralismo, l’indipendenza dalla Germania, l’adesione alla democrazia e alla cultura occidentali, il rifiuto del comunismo diventano, da scelta dei vertici politici, valori comuni della società (62). Le tensioni alle frontiere con i paesi del Patto (a seguito delle invasioni russe del 1956 e del 1968) e i conseguenti tentativi di intimidazione di Mosca contro l’Austria vengono affrontati con determinazione ma senza atteggiamenti provocatori. Nella propaganda condotta da Mosca contro presunti appoggi dall’Austria agli insorti, i comunisti austriaci giocano un ruolo decisivo, ma l’effetto è per loro devastante. Già non molto numerosi nel 1955, essi perdono nelle elezioni del 1959 il loro ultimo rappresentante in parlamento. La scena politica è dominata invece da due grandi partiti, quello socialista e il partito del popolo (cristiano e moderato), ambedue ideologicamente autonomi da Mosca. Ma è la popolazione ad essere ancora più indipendente delle stesse forze organizzate. Nel 1960, ad un atto di gentilezza del governo austriaco che permette all’Unione Sovietica di tenere a Vienna il festival mondiale della gioventù comunista, la popolazione risponde con atti di disobbedienza civile, tra cui una manifestazione di protesta di 15mila studenti. La neutralità dell’Austria diventa nel tempo una identità positiva, che dà una risposta nuova al problema della ‘grandezza’ del paese. Dopo due tentativi di essere ‘grandi’ basati su una politica di espansione militare (il primo in proprio con l’impero, il secondo associandosi al partner nazista), il neutralismo pone gli obiettivi di prestigio del piccolo Stato su una direttrice democratica e pacifica. Cresce la partecipazione dell’Austria all’ONU, alle sue attività diplomatiche e alle missioni di pace. Un’attività riconosciuta dalla maggioranza dei paesi, che nominano nel 1972 l’austriaco Kurt Waldheim segretario delle Nazioni Unite. Meno convincenti risultano invece altri aspetti della politica estera e militare austriaca. Non vanno ignorati, ad esempio, l’appoggio fornito ai terroristi separatisti dell’Alto Adige-Sud Tyrol verso la fine degli anni Cinquanta (63), o la natura largamente declaratoria delle scelte a favore dello sviluppo del Terzo Mondo negli anni Settanta (64). Ma è nel campo della sicurezza che la sopravvalutazione dell’importanza della diplomazia e gli atteggiamenti declaratori producono le proposte più discutibili e più discusse. Per i primi quindici anni della nuova Repubblica la politica estera di neutralità marcia separata da ogni ipotesi di ricostruzione della difesa o di modifica dell’assetto militare. I governi di unità nazionale e anche quelli diretti dai popolari non danno priorità alla spesa militare, che oscilla tra l’1 e l’1,5% del prodotto interno lordo. Le forze armate vengono ricostituite con mezzi finanziari scarsi, ma comunque ispirandosi a modelli tradizionali, come quello dell’esercito nazista (65). Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta l’Austria rimane letteralmente priva di una qualsiasi difesa aerea. Ai vincoli economici posti dai governi si sommano quelli relativi al divieto all’utilizzo delle armi missilistiche. Se la questione fosse ritenuta di grande importanza, essa potrebbe essere risolta attraverso una modifica unilaterale costituzionale del Trattato di Stato. Ma la strada diplomatica scelta dal governo austriaco è quella dell’accordo preventivo delle due superpotenze. Nel 1965 le autorità austriache effettuano un primo cauto sondaggio. Al via libera del vicesegretario alla Difesa americano Cyrus Vance, si contrappone il rifiuto del ministro sovietico della Difesa Rodion Malinovski. I motivi della posizione sovietica sono interessanti, in quanto mostrano l’interesse russo per una neutralità austriaca male armata. Secondo quanto dichiarato in quei giorni da un diplomatico sovietico, l’Austria non avrebbe infatti bisogno dei missili perché la sua neutralità sarebbe principalmente un “obbligo morale” (66). E il veto russo blocca ogni ulteriore iniziativa del governo austriaco. Verso la fine degli anni Sessanta una serie di esercitazioni mettono in luce le carenze operative delle forze armate austriache (67). Un anno dopo un grosso successo elettorale porta al governo il partito socialista, la cui piattaforma programmatica prevedeva due uniche proposte sulla difesa: riduzione della leva e delle spese militari. Una volta al governo, i socialisti si trovano però di fronte alla necessità di elaborare una proposta positiva di politica militare. Ad un gruppo di ufficiali viene quindi proposto di definire un modello di difesa adeguato alla politica di neutralità austriaca, con i suoi corollari di non aumentare le spese militari e di rinunciare ai sistemi missilistici. L’esponente più conosciuto di questi ufficiali è il generale Emil Spannocchi, comandante delle forze armate austriache dal 1973 al 1981. Nel 1975 una modifica alla Costituzione consacra l’adozione della difesa totale territoriale (‘Umfassende Landesverteidigung’) da parte dell’Austria. La difesa totale austriaca ricalca, almeno nelle dichiarazioni, quelle degli altri paesi neutrali. Ma la sua definizione e ancor più la sua attuazione procedono con una strabiliante lentezza. La stesura di piani dettagliati è delegata ad un rapporto del Consiglio di difesa nazionale. Quest’organo consultivo del governo, dopo otto anni di lavoro, presenta nel 1983 il suo Piano di difesa nazionale, che viene approvato dal parlamento. La costruzione delle componenti economiche, civili e psicologiche della nuova difesa - pur definite nel Piano - è ancora sulla carta (68).

4.2. Il sistema di difesa.

La situazione geostrategica dell’Austria è indubbiamente difficile. Per circa 1200 chilometri essa confina con paesi della NATO (Rft e Italia), per 900 con i paesi del Patto di Varsavia (Ungheria e Cecoslovacchia), per altri 500 con paesi esterni ai blocchi (Svizzera e Iugoslavia). Quasi tutte le zone di confine con i paesi del Patto sono pianure prive di ostacoli naturali. Solo al centro del paese c’è un massiccio montagnoso più adatto alla difesa prolungata. Lungo i lati del massiccio montagnoso ci sono due ‘corridoi’ est-ovest come mostra la tavola 9.4. Questi corridoi, utilizzabili dalle forze corazzate delle due alleanze, sono stati già usati in precedenti guerre. Uno è la valle del Danubio che porta alla Germania federale, l’altro che - attraverso la Stiria e la Carinzia - può portare verso l’Italia (attraverso il Trentino o passando per la Iugoslavia). Alcune altre considerazioni geografiche rendono più chiaro il quadro. Vienna è situata a ridosso del confine con i paesi dell’est. La capitale dell’Austria si trova cioè 200 Km a est di Berlino e 150 Km ad est di Praga. E’ più vicina a Varsavia che a Bonn, più vicina a Sofia e Bucarest che a Parigi. Mosca è altrettanto vicina che l’Inghilterra. Il Piano di difesa nazionale del 1983 considera come prioritarie le minacce di blocco dei rifornimenti energetici, di violazione dei diritti umani, di uso del terrorismo e - dopo queste - di aggressione armata diretta (69). Tra le diverse componenti della difesa totale destinate a far fronte alle minacce, la ‘difesa militare’ è l’unica per ora sviluppata. Le forze armate sono costituite da 27mila militari di carriera e 200mila riservisti (70). Il servizio di leva dura, per un soldato, otto mesi: sei mesi di addestramento iniziale vengono svolti di seguito, mentre gli altri due sono scaglionati nell’arco di 15 anni. Per gli specialisti addestramento e aggiornamento possono comportare un impegno totale di un anno. Sommando i militari di carriera e i cittadini in addestramento e aggiornamento, l’Austria dispone in ogni momento di una forza pari a 54.700 uomini. L’aeronautica è costituita da una sola divisione. La difesa aerea è basata su 32 aerei (altri 24 sono già stati ordinati) e una trentina di elicotteri da combattimento. La difesa antiaerea degli aeroporti è garantita da tre battaglioni con cannoni da 20 e 35 mm. L’esercito comprende una divisione meccanizzata, otto brigate di fanteria e molte unità di minori dimensioni (battaglioni, reggimenti, compagnie di arresto). La divisione meccanizzata è una forza di pronto impiego di 15mila uomini, la stragrande maggioranza militari di professione integrati da una minoranza di riservisti. Dispone di circa 170 carri armati e di gran parte dei 284 cacciacarri ‘Kuerassier’. Le otto brigate di fanteria motorizzata sono unità territoriali, articolate a livello di regione, in larga parte formate da riservisti e per il resto da quadri permanenti. Esse divengono operative con la mobilitazione e viene previsto il loro impiego su tutto il territorio. Le unità di arresto sono identiche alle brigate per composizione e criteri di reclutamento, ma sono destinate alla difesa statica nelle regioni d’origine. Due o tre sono gli scenari considerati come più probabili: il passaggio di un aggressore attraverso l’Austria per attaccare un altro paese; l’occupazione parziale o totale del paese come base per operazioni contro terzi. Il secondo scenario viene poi ulteriormente articolato in poco chiari sottoscenari (71). Dal punto di vista operativo grande spazio ha il concetto della ‘difesa d’area’ (‘Raumverteidigung’). Sembra di capire, anche se le pubblicazioni ufficiali non sono esplicite al proposito, che la difesa d’area derivi dalla impossibilità pratica di difendere la capitale e le frontiere con un minimo di credibilità, per cui le forze austriache non accetterebbero combattimenti decisivi lungo una linea frontale. Esse si ritirerebbero all’interno, attorno a delle zone chiave dove è prevista la difesa ad oltranza e da cui partirebbero i contrattacchi. Le zone chiave sembrano essere state scelte sulla base di due criteri non coincidenti: le maggiori possibilità che il terreno offre al difensore; l’essere poste in prossimità o sulle probabili linee di penetrazione dell’avversario. Comunque, se le cose si mettessero particolarmente male, le forze armate potrebbero ripiegare sul massiccio montagnoso posto al centro del paese e, di lì, garantire una resistenza prolungata. Il sistema di difesa austriaco, molto più degli altri due già analizzati, è stato oggetto di profonde critiche che è giusto citare. Alla fine degli anni Sessanta un ricercatore americano, uno dei pochi in quel periodo a nutrire rispetto per gli Stati neutrali, conclude un suo studio sull’Austria affermando che l’apatia e la mancanza di volontà di fare sacrifici per sostenere l’aspetto armato della neutralità toglieva forza alla dimostrazione della volontà di indipendenza austriaca (72). All’inizio degli anni Ottanta, secondo l’esperto di relazioni internazionali austriaco Hanspeter Neuhold, “il sistema difensivo è inferiore al minimo standard richiesto a livello internazionale” (73). Critiche condivise, almeno in parte, da altri osservatori (74). Il nuovo modello di difesa elaborato con l’avvento dei socialisti al potere, non sembra aver cambiato ancora molto rispetto alla situazione precendente. Più che un efficace sistema di difesa, sembra essere una scolastica costruzione teorica ad uso diplomatico, in cu i l’utilizzo verbale delle esperienze e dei modelli di altri popoli copre la sottovalutazione della difesa armata della neutralità.



5. Confronto tra i vari sistemi.

I tre paesi presi in esame mostrano profonde diversità su aspetti fondamentali della struttura statale ed economica, ricondotte in genere alle alternative tra sistemi democratico-capitalisti e a partito unico-socialisti. Diversa è stata la posizione con cui sono usciti dal secondo conflitto mondiale: uno neutrale (Sizzera); uno vinto (Austria); uno vincitore (Iugoslavia). Ma proprio per queste diversità sono ancora più significative le somiglianze che si riscontrano sul terreno dei sistemi di difesa. Altre diversità però, più importanti per le implicazioni sulla sicurezza, emergono scavando a partire dalle somiglianze. La scelta della neutralità o del non allineamento (75) sono comuni a questi tre paesi. In questa scelta è contenuta non solo la decisione di stare fuori dai due blocchi in cui è divisa l’Europa, ma anche una ‘scelta di vita’ di questi paesi basata sulla rinuncia ad aspirazioni di espansione territoriale ed a ruoli di egemonia militare. Comune ai tre paesi è l’adozione di un sistema di difesa esplicitamente strutturato a combattere in casa propria, sia sulla soglia di casa che sul proprio territorio. Comune è anche il decentramento di almeno una parte del sistema di difesa nella direzione di una maggiore responsabilizzazione della popolazione come mostra anche la tabella 9.5. Maggiore responsabilizzazione che viene organizzata dalle diverse entità economiche e governi regionali (o nazionali) che compongono lo Stato. La caratteristica democratico-federativa di questi paesi aiuta questo processo di responsabilizzazione e decentramento. Altrettanto comune è l’adozione di un’organizzazione militare sostanzialmente diversa sia dagli eserciti di mestiere (Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada), sia da quelli di leva tipicamente europei. Questi ultimi sono formati da una componente di quadri permanenti (ufficiali e sottufficiali) e una di coscritti (pochi ufficiali e molti soldati di leva). Negli eserciti di leva europei il ruolo dei cittadini-militari rispetto ai militari di carriera è del tutto marginale. In Italia ad esempio, anche dopo attuata la mobilitazione, le forze armate arriverebbero a coinvolgere circa il 2% della popolazione nella difesa del paese. La media negli altri paesi NATO non è molto diversa, con un massimo del 4,7% di cittadini coinvolti, come nel caso della Norvegia. Nei tre paesi presi in esame invece la percentuale di cittadini coinvolti con la mobilitazione nella difesa è molto più alta. Si va dal 16% della Iugoslavia al 17% della Svizzera, mentre anche l’Austria si propone di arrivare al 13%. I numeri hanno un valore qualitativo. In caso di guerra questi tre paesi prevedono (e preparano) l’apporto attivo di una parte consistente dei cittadini non solo per respingere l’aggressore, ma anche per limitare i danni alla propria popolazione. Anche in tempo di pace il ruolo dei cittadini-militari negli eserciti di leva è marginale. Si tratta di un impegno ristretto nel tempo - una sorta di tassa giovanile ‘una tantum’ - ed escluso da funzioni di responsabilità. Il caporale che vuole diventare sergente maggiore o il tenente che vuole diventare capitano sono costretti a scegliere la carriera delle armi come loro occupazione principale. Nei tre paesi presi in esame i cittadini-militari hanno invece maggiori responsabilità. Nelle forze armate svizzere la maggioranza degli ufficiali e dei sottufficiali sono cittadini-militari, così come lo sono i militari delle Forze della Difesa Territoriale iugoslava. Questa situazione contribuisce, tra l’altro, ad aumentare la conoscenza dei problemi della difesa e il rispetto reciproco tra militari e civili. Comune ai tre paesi è l’adozione di un modello di difesa articolato. I due pilastri su cui si basano i sistemi militari sono e rimangono la difesa territoriale e l’esercito di cittadini. Ma una serie di correttivi sono stati introdotti dai responsabili della sicurezza per ottenere maggiore efficacia (anche dissuasiva) del sistema difensivo. Una componente di forze di pronto impiego (formate in parte cospicua da militari di carriera) è stata sviluppata per rispondere ad un possibile attacco di sorpresa e permettere la mobilitazione di tutte le forze di difesa. Questa stessa componente è stata dotata di mezzi corazzati e supporto aereo per poter resistere al primo colpo e, successivamente, realizzare controffensive che ricaccino l’invasore fuori dal territorio. In pratica si è aggiunta alla difesa territoriale una forte componente di difesa alle frontiere, anche per togliere al potenziale aggressore l’illusione di poter conquistare a basso costo una parte strategicamente importante del territorio. Dal punto di vista operativo, i concetti svizzeri e iugoslavi di ‘guerra combinata’ esprimono la stessa mediazione, prevedendo l’uso sia delle grandi o medie unità regolari che delle unità territoriali, della difesa statica che di quella dinamica, della guerra frontale che di quella di logoramento. Comune ai tre paesi è infine la scelta di rinunciare all’acquisizione di armi nucleari e basare la propria dissuasione solo sulle armi convenzionali. La Svizzera, pur avendone avuta la possibilità a portata di mano, ha rinunciato all’acquisizione di un deterrente nucleare autonomo. Una scelta dettata quindi da motivi strategici, e non dagli alti costi degli armamenti nucleari. L’Austria e la Iugoslavia hanno anche loro fatto la stessa scelta, con l’adesione al Trattato di non proliferazione nucleare. Però la Svizzera, e in minima parte anche la Iugoslavia, si sono preoccupate di tutelare (per quanto possibile) la popolazione dalla minaccia nucleare. In tutti e tre i paesi, infine, la stragrande maggioranza della popolazione mostra fiducia e adesione ai sistemi di difesa adottati, per i quali è quindi disposta (a parte l’Austria) a spendere molto e ad impegnare una parte cospicua del proprio tempo. Se sotto diversi aspetti i sistemi di difesa di Svizzera, Austria e Iugoslavia presentano caratteristiche comuni, sembrano esistere però alcune fondamentali differenze. La prima e più sostanziale riguarda la credibilità dei loro sistemi di difesa. Confrontando le pubblicazioni ufficiali e le analisi critiche dei tre sistemi è difficile sfuggire alla conclusione per cui i sistemi di difesa della Svizzera e della Iugoslavia costituiscono un credibile strumento di dissuasione, mentre lo stesso non si può dire per la difesa austriaca. Vi è in primo luogo la dimensione economica. Dal 1955 in poi la spesa militare dell’Austria è oscillata tra l’1 e l’1,5% del prodotto interno lordo (PIL), mentre le spese militari della Svizzera sono oscillate dal 3 al 2% del PIL e quelle iugoslave dal 9 al 5% (76). La difficile posizione geostrategica dell’Austria, esposta almeno quanto la Iugoslavia a possibili attacchi, non sembra infatti giustificare una spesa militare tanto bassa. Un paese neutrale che non sia in grado di ostacolare decisamente l’utilizzo del proprio territorio da parte di un blocco non lascia all’altro blocco molte scelte. Una di queste spiacevoli scelte potrebbe essere, da parte della NATO, quella di un attacco nucleare per impedire l’avanzata del Patto attraverso l’Austria. Un’ipotesi che potrebbe spiegare come, tra gli obiettivi di attacchi nucleari definiti nel 1980 dall’amministrazione americana, ce ne sia qualcuno “in un non meglio specificato ‘territorio alleato e neutrale’” (77). Una seconda significativa differenza nei sistemi di difesa dei tre paesi è quella relativa alla preparazione alla guerriglia. L’essenza della guerriglia è quella di utilizzare al massimo le risorse derivanti dal combattere sul proprio territorio, negando alcuni tradizionali principi militari (tra fronte e retrovie, tra militari e civili). Nelle guerre degli eserciti tradizionali il nemico che abbia conquistato una parte di un paese deve fronteggiare solo forze regolari che gli stanno di fronte. Se il nemico ha poi sconfitto tutte le forze regolari al paese non resterebbe che la capitolazione. La guerriglia nega questa certezza dei fronti e della vittoria al nemico, sviluppando continue e grosse operazioni militari nelle zone occupate divenute retrovie dell’invasore. Sia la Svizzera che l’Austria trattano di questa possibilità come misura estrema e, soprattutto, non prevedono alcuna preparazione seria per questo tipo di guerra. Solo la Iugoslavia sembra aver imboccato con decisione questa strada.



6. L’Italia e i suoi vicini neutrali.

Nel secondo dopoguerra i rapporti dell’Italia con Svizzera, Austria e Iugoslavia sono progressivamente migliorati. In particolare con gli ultimi due si è passati da un periodo di forti tensioni (fino alla prima metà degli anni Settanta) a un periodo di distensione. Una costante di questi rapporti è stata comunque la miopia provinciale, cioè l’incapacità italiana di considerare i rapporti con questi paesi in un’ottica più ampia di quella bilaterale. Corollario di questa impostazione è la grande ignoranza su quanto questi paesi facevano nel campo della sicurezza. Per molti anni i rapporti con l’Austria ruotano attorno al sostegno austriaco agli irredentisti dell’Alto Adige-Sud Tyrol e alla non credibilità della difesa austriaca. Anche se dagli inizi degli anni Sessanta le forze politiche austriache cessano di fornire appoggio e retroterra agli irredentisti dell’Alto Adige, la minaccia alla sicurezza pubblica della minoranza italiana rimane alta per tutto il decennio. Nel 1966, ad esempio, le autorità italiane arrivano a considerare il terrorismo altoatesino come una minaccia militare, cui fare fronte con la costituzione di comandi regionali unificati di polizia e esercito. Nel 1969 però, con la firma del pacchetto Moro-Waldheim, vengono definite le condizioni di tutela della minoranza tedesca in Italia e di autonomia dell’Alto Adige. Da allora i rapporti diplomatici tra i due paesi diventano via via più distesi, mentre anche l’iniziativa armata degli irredentisti perde gran parte del suo retroterra politico e - quindi - della sua consistenza. Al periodo di maggiore tensione politica con l’Austria corrispondono sul piano militare alcune scelte offensive nella pianificazione operativa. Secondo Virgilio Ilari, nelle serie dottrinali dell’esercito dal 1948 al 1958, “sembra esistessero disposizioni per l’occupazione di posizioni avanzate in Austria e Iugoslavia” (78). Nel 1957 l’esercitazione ‘Fulcro Verde’ simula la difesa da forze del Patto di Varsavia arrivate in Italia passando dal Brennero (79). Con lo sviluppo delle dottrine operative relative all’utilizzo delle armi nucleari tattiche (80), all’occupazione di posizioni avanzate in Austria e Iugoslavia sembra sostituirsi il bombardamento atomico delle stesse posizioni. Nel 1960 l’esercitazione ‘Argine Bianco’ ripete lo scenario della ‘Fulcro Verde’, ma questa volta le forze del Patto sono bloccate in prossimità del Brennero con l’utilizzo di armi atomiche (81). Altrettanto tesi i rapporti con la Iugoslavia, per via delle già citate tendenze all’espansione della giovane repubblica socialista. Il culmine della tensione si raggiunge nel 1953. L’esercitazione ‘Saldatura Italica’, nell’agosto di quell’anno, prevede l’occupazione del territorio libero di Trieste, nel caso gli iugoslavi avessero occupato la zona B della città (82). Negli anni successivi però le tensioni di confine si riducono gradualmente e vengono definitivamente risolte nel 1975 con la firma del Trattato di Osimo. Verso la metà degli anni Settanta il clima di distensione facilita i primi contatti tra le forze militari italiane e quelle dei paesi neutrali confinanti (83). Si tratta comunque di iniziative episodiche, dalle quali sarebbe azzardato dedurre un cambiamento della dottrina militare verso questi paesi. Negli ambienti militari, secondo Maurizio Cremasco, permane la tendenza “a considerare la Iugoslavia parzialmente o totalmente allineata all’Unione Sovietica in caso di conflitto con la NATO” (84). Alla fine degli anni Settanta l’attenzione verso i sistemi di difesa dei tre vicini neutrali fa un salto qualitativo. Le istituzioni militari, scosse anche loro dall’ondata di contestazione e di rinnovamento aperta dalle lotte studentesche nel 1968, vivono una profonda crisi di identità. La funzione di esercito di polizia contro poco probabili sollevazioni interne viene rifiutata anche da molti quadri. La nuova funzione di proiezione della potenza oltremare per la tutela degli interessi nazionali non ha ancora consolidato consensi. Tra le fila dell’esercito e della marina emergono confusamente idee e proposte per un nuovo modello di difesa, meno dipendente dalle armi nucleari e dall’alleato americano, più legato alla popolazione e all’esperienza della resistenza. Nell’esercito sono soprattutto gli ufficiali degli alpini (85), con la propria tradizione di reclutamento regionale, a portare avanti l’idea di una difesa territoriale, legata alla popolazione, in polemica con la dottrina ufficiale della difesa avanzata (dottrina ufficiale della NATO dal 1956 e della difesa italiana dal 1977). Sono posizioni che si rifanno esplicitamente ai modelli di difesa adottati dai tre paesi neutrali, e che arrivano ad influenzare anche le forze politiche, in particolare il partito socialista. Nel 1979, 47 deputati socialisti presentano una proposta di legge che, ispirandosi ai modelli di difesa territoriale, prevede la riduzione della leva ad otto mesi e la regionalizzazione del servizio militare (86). Primo firmatario della proposta è l’ex-ufficiale di marina Falco Accame, dimessosi clamorosamente dal servizio alla metà degli anni Settanta, candidato dai socialisti alle elezioni del 1976, eletto deputato e poi diventato presidente della Commissione difesa della Camera. In merito alla strategia di difesa Accame aveva più volte sostenuto, sulle riviste militari, la necessità di una difesa marittima in prossimità delle coste e attuata con naviglio sottile. Nel 1980 il ministero della Difesa viene assegnato, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, al socialista Lelio Lagorio. Ma è proprio durante la sua direzione della Difesa che la prospettiva concreta di una riforma si allontana e il dibattito sulla difesa territoriale viene bruscamente chiuso. La svolta comporta l’emarginazione delle proposte di riforma dell’assetto militare e l’appiattimento sulle posizioni dell’alleato americano e dei massimi vertici militari (87). Accame viene emarginato dal partito (88) e le sue proposte vengono abbandonate. Per Lagorio la difesa territoriale non solo “non trova rispondenza nella situazione italiana”, ma pone “problemi di natura costituzionale”, ed è incompatibile con “la nostra politica militare” che “è demandata esclusivamente alla forze armate regolari” (89). Alle critiche socialiste si affiancano quelle dei comunisti, ai quali la difesa territoriale sembra incostituzionale, “inadeguata e povera di motivazioni”, legata ad una ipotesi politica “di neutralità e comunque di disimpegno” (90). Anche i democristiani, dopo un vago ed ambiguo accenno all’ipotesi della difesa territoriale del deputato Arnaldo Forlani (91), si dichiarano contrari. Nell’ottobre del 1980 un convegno organizzato dall’Istituto Studi e Ricerche Difesa (ISTRID) sanziona la condanna delle autorità militari contro l’eresia della difesa territoriale (92). E’ il capo di Stato maggiore dell’esercito, Eugenio Rambaldi, che si prende il compito di riconfermare “la posizione dottrinale dello Stato maggiore dell’esercito” (93). La difesa territoriale, secondo lo Stato maggiore, implicherebbe la rinuncia ad impedire l’occupazione del territorio e comporterebbe costi umani e materiali insostenibili. Essa sarebbe improponibile nelle società occidentali ed escluderebbe l’Italia dall’Alleanza atlantica. Quindi, conclude Rambaldi, la concezione strategica della difesa avanzata (e del primo uso nucleare) “rimane completamente valida”. Rifiutati dai maggiori partiti, chiuso d’autorità il dibattito sulle riviste militari, i riformatori militari si disperderanno per le più diverse strade. Qualcuno, come Accame, uscirà dal partito socialista e si avvicinerà a forze più radicali come Democrazia Proletaria. Qualcun altro, come il colonnello degli alpini Carlo Jean, farà pubblica ammenda delle proprie eresie territoriali (94) e diventerà nel giro di sei anni generale. Del dibattito italiano sulla difesa territoriale della fine degli anni Settanta vanno sottolineati alcuni elementi. Il primo e più importante è il suo basso livello qualitativo. La totalità del dibattito si svolge sulla base di una scarsa e confusa conoscenza dei modelli di difesa adottati nei tre paesi neutrali. I saggi che nelle riviste italiane trattano dei sistemi di difesa dei paesi neutrali o della difesa territoriale si possono contare sulle dita di una mano, testi fondamentali (95) non vengono né tradotti né citati, la necessità di ricerche sull’argomento non viene neppure presa in considerazione da parte dei riformatori militari. Nessuno di loro sente la necessità di promuovere convegni per confrontarsi, discutere e sviluppare le nuove teorie. A nessuno viene in mente di portare il dibattito fuori dalle caserme o da ristrette cerchie militari e politiche. Inoltre i riformatori sembrano superficialmente dividersi tra simpatizzanti del modello iugoslavo (96) e simpatizzanti di quello austriaco (97), senza cercare una sintesi credibile ed unitaria per la situazione italiana. Significativo è il fatto che tutta una parte dei riformatori scelga come punto di riferimento la dottrina Spannocchi e il modello austriaco, cioè quello militarmente meno credibile tra i tre che abbiamo esaminato. Discutibile è anche la pedissequa applicazione delle proposte della dottrina Spannocchi all’Italia, che traspare ad esempio nella proposta di Accame (98). L’impossibilità delle forze armate austriache di bloccare un attacco delle forze del Patto su 740 chilometri di confine in pianura, e la conseguente scelta della dottrina Spannocchi di attirare il nemico nel proprio territorio per combatterlo ‘esclusivamente’ con la guerra territoriale, diventa per Accame un dogma da applicare comunque anche ai 60 chilometri di confine collinoso della soglia di Gorizia. Criticabile sembra anche la scelta di proporre direttamente una legge di riduzione e regionalizzazione della leva, saltando la necessità di un approfondimento del modello e dei suoi problemi. Alle caricature della difesa territoriale del romanticismo militare i vertici dello Stato maggiore rispondono con argomenti meno romantici ma altrettanto superficiali. La possibilità di una forte difesa territoriale ‘combinata’ con una forte difesa alle frontiere, tipica delle soluzioni più mature (Iugoslavia, Svizzera, ma anche Svezia (99) ) non viene neanche presa in considerazione. La possibilità di preparare un paese alla difesa territoriale, praticata ad esempio da Svizzera e Svezia, viene esclusa a priori perche sarebbe improponibile nei paesi occidentali. L’argomento, pur vero, dei grandi costi umani di una guerra territoriale viene sollevato strumentalmente senza affiancargli una qualsiasi valutazione dei costi umani prodotti dalle ‘normali’ guerre moderne o - a maggior ragione - dall’uso delle armi nucleari. In sintesi, anche per il dibattito italiano sulla difesa territoriale degli anni Settanta, valgono le considerazioni più generali espresse dallo studioso di relazioni internazionali dell’Università di Oxford Adam Roberts, una persona che allo studio delle politiche militari dei paesi neutrali ha dedicato diversi anni della sua vita. “I governi e i loro critici hanno troppo spesso discusso l’intera questione della difesa territoriale e degli eserciti di cittadini in una maniera scandalosamente semplicistica. Le proposte sono state avanzate, o rigettate, sulla base di caricature dei problemi ad esse connessi. Con poche onorevoli eccezioni, c’è stata troppo poca discussione concreta sui concreti paesi che hanno già incorporato queste impostazioni nella propria pianificazione difensiva, o sulla maniera in cui le concrete alleanze oggi esistenti potrebbero farlo” (100). Negli ultimi anni l’interesse per i paesi neutrali, in particolare per l’Austria e la Iugoslavia, sembra essere pericolosamente tornato alle coordinate degli anni Cinquanta e Sessanta. L’enfasi che le nuove dottrine americane (‘Airland Battle’) pongono sull’offensiva e sull’attacco immediato nella profondità del territorio avversario, pur non sottoscritte ufficialmente dalle autorità italiane, stanno permeando le dottrine strategiche nazionali e guidano l’acquisizione dei sistemi d’arma. Se sul fronte centrale europeo l’idea è quella dell’attacco nella profondità del territorio del Patto di Varsavia, nel fianco sud le autorità italiane sembrano cercare la profondità nel territorio dei neutrali. Nel ‘Libro bianco’ pubblicato dalla difesa nel 1985 si afferma, a proposito della missione di difesa a nord-est, che “la manovra difensiva” (sic) prevede come primo compito di “individuare, ritardare, logorare il movimento delle forze avversarie ‘prima ancora che esse investino le posizioni di difesa’, impiegando a tal fine le forze aeree e il fuoco dei sistemi d’arma a più lunga gittata” (101). Dato che la dottrina ufficiale della difesa avanzata colloca il grosso delle forze a ridosso della frontiera, il programmato attacco di logoramento delle forze avversarie prima del contatto diretto non potrebbe che avvenire in Austria o Iugoslavia. In modo molto più esplicito si esprimono alcuni consulenti del ministro della Difesa, che hanno collaborato alla stesura del ‘Libro bianco’. Per Carlo M. Santoro, l’applicazione dell”Airland Battle’ a nord-est richiederebbe la proiezione immediata, quasi preventiva della forza militare italiana in Iugoslavia (Karlovac e Lubiana) e in Austria (lungo l’asse Innsbruck-Graz) (102). Una proposta di piani operativi per nulla concordata con i paesi in questione, basata sull’assunto che essi o collaborerebbero o comunque non si opporrebbero ad un’invasione del Patto. Per Luigi Caligaris, generale in riserva dell’esercito e anche lui consulente di Spadolini, uno dei compiti della neonata Forza d’Intervento Rapido (FIR), dovrebbe consistere nella rapida proiezione di potenza all’interno (ottanta chilometri) del territorio iugoslavo (103).



7. Conclusioni e possibili indicazioni.

L’analisi dei sistemi di difesa adottati da Svizzera, Austria e Iugoslavia induce a due ordini di considerazioni. In primo luogo sugli effetti diretti che questi sistemi di difesa hanno sulla sicurezza italiana. In secondo luogo sugli spunti che essi offrono per l’elaborazione di una alternativa all’attuale sistema di difesa italiano. Rispetto all’ipotesi di un’invasione dell’Italia da parte del Patto di Varsavia il sistema di difesa adottato dalla Iugoslavia sembra garantire un certo lasso di tempo (almeno alcuni giorni (104) ) necessario all’Italia per difendere al meglio la soglia di Gorizia. Tempo sufficiente a spostare unità militari e a mobilitare forze anche molto più consistenti delle attuali riserve. Se è vero che la difesa austriaca risulta meno sicura, va però detto che le maggiori preoccupazioni riguardano la Repubblica federale tedesca. Le direttrici di una possibile penetrazione del Patto attraverso l’Austria verso l’Italia sono infatti di difficile utilizzo. Le colonne corazzate del Patto giunte sul Brennero potrebbero essere realisticamente bloccate, mentre quelle che puntassero sulla soglia di Gorizia attraverso l’Austria dovrebbero comunque invadere la Iugoslavia. Maggiori problemi potrebbe portare la debolezza della difesa aerea austriaca, che costituisce un possibile varco tra le serie difese aeree della Iugoslavia e della Svizzera. La recente acquisizione da parte dell’Austria di radar mobili per la difesa aerea prodotti dalla Selenia (105) potrebbe però migliorare la situazione, almeno dal punto di vista dell’informazione. Dato che questi radar sono gli stessi prodotti per le forze italiane, è ipotizzabile che essi possano all’occorrenza scambiare dati con la rete radar italiana. Anche la Svizzera dispone di una rete radar ‘compatibile’ con quella della NATO (106). Le potenzialità del contributo militare passato, attuale e futuro di tutti e tre i vicini neutrali sono state largamente ignorate dai responsabili italiani della sicurezza. Un humus culturale superficiale, arido di conoscenza e ricco di visioni provinciali e pregiudizi ideologici, ha fatto fiorire valutazioni errate. Al calo delle tensioni politiche l’Italia ha fatto seguire una doppia politica, da un lato quella estera piena di rispetto formale per i nuovi amici (107), dall’altro la pianificazione di operazioni convenzionali (e forse anche nucleari) nelle case degli amici. Un primo risultato sarebbe già il superamento di questa impostazione schizofrenica. Un confronto franco ed aperto sui rispettivi problemi di sicurezza creerebbe sicuramente qualche problema diplomatico, ma porrebbe basi solide alla costruzione di rapporti di fiducia reciproca. Se, ad esempio, si ritiene che la difesa austriaca non ci garantisca abbastanza, perché non porre apertamente questo nostro problema agli austriaci? Per la Iugoslavia dovremmo essere già oltre la necessità di costruire una mutua fiducia. I pregiudizi ideologici sulla natura comunista del regime iugoslavo hanno impedito per anni di vedere la realtà di un paese indipendente da Mosca e determinato anche più di noi a contrastare qualsiasi invasione. Il problema della Iugoslavia non è quello che essa possa appoggiare un qualsivoglia attacco del Patto contro l’Italia. Il vero problema della Iugoslavia è che, anche per gli sforzi profusi nella propria difesa, essa rischia il fallimento economico. Posti di fronte all’eventualità di una bancarotta, i dirigenti iugoslavi potrebbero anche riavvicinarsi a Mosca, e non solo economicamente. Da questo punto di vista è sconcertante la sottovalutazione di questo problema da parte italiana, cioè la non considerazione della stabilità economica iugoslava come un problema della nostra sicurezza militare. Investendo risorse nello sforzo degli iugoslavi per il rilancio della propria economia noi potremmo dare un contributo alla nostra sicurezza altrettanto significativo che aumentando il nostro bilancio della Difesa. Che il recente viaggio del ministro Spadolini in Iugoslavia vada in questa direzione è dubitabile. Ufficialmente i colloqui hanno riguardato solo la possibilità di vendite di armi italiane. I sistemi di difesa adottati dai tre vicini neutrali dell’Italia possono esserci utili anche per gli spunti che offrono ad una possibile riforma della difesa italiana. Il crescente rifiuto delle società occidentali europee verso le armi e la difesa nucleare ha spinto anche le autorità della NATO verso un maggior impegno convenzionale. Purtroppo la nuova enfasi sulla difesa convenzionale si è basata molto di più sulle idee in gran parte americane dell’attacco in profondità che sulle idee di diversi europei sulla difesa in profondità. Questo modo di allontanarsi dalla dipendenza dalle armi nucleari attraverso una strategia convenzionale offensiva non sembra il più indicato per costruire situazioni di stabilità militare, tanto in Europa quanto nella regione mediterranea. Portaerei, aerei da bombardamento strategico, forze di intervento rapido e il loro corollario di volontari di truppa (108) configurano strumenti di proiezione di potenza altrettanto provocanti (anche se meno distruttivi) delle armi nucleari e chimiche. Viene da chiedersi infine quanto attendibili siano le dichiarazioni dei vertici militari e politici italiani di scambiare un maggior impegno convenzionale con una diminuzione della dipendenza dalle armi nucleari. Per ora ad ogni proposta di nuove armi nucleari e chimiche le autorità italiane hanno sempre dato il proprio immediato, cieco ed assoluto appoggio. In sostanza i responsabili della sicurezza italiani sono stati fino ad oggi capaci solo di rincorrere i modelli organizzativi e le strategie militari adottate dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Più che una scelta si è trattato di una tendenza ‘pavloviana’ di una classe dirigente priva di proprie idee sulla sicurezza. Una tendenza che è cresciuta senza chiedersi quanto l’estrema improbabilità di una minaccia di invasione e la continua volontà di giocare un ruolo di potenza globale avessero influito sulla scelta di quei modelli. La proposta di maggior impegno convenzionale dell’Europa occidentale va comunque al nodo del problema della dipendenza della NATO dalle armi nucleari: la superiorità convenzionale del Patto di Varsavia. In effetti le armi nucleari furono introdotte negli anni Cinquanta in Europa occidentale proprio per bilanciare la inferiorità convenzionale degli alleati europei della NATO. Le mutate condizioni economiche, politiche e sociali dell’Europa occidentale offrono però oggi opportunità nuove per migliorare la difesa convenzionale e rendere via via più superflue le armi nucleari. Oltre alla soluzioni proposte dagli americani, si possono pensare altre strade. Se in questi quarant’anni molti paesi europei hanno imparato a vivere con la bomba (atomica), ce ne sono altri che hanno imparato a vivere senza di essa. Le esperienze fatte da diversi paesi europei medi e piccoli, che si sono posti il problema di contrastare la superiorità convenzionale (anche) sovietica senza adottare il nucleare, convergono verso un’ipotesi di difesa totale o ‘non-convenzionale’. In Italia il concetto della difesa totale suscita in diversi ambienti lo spettro della militarizzazione della società, forse anche perché i primi a parlarne sono stati neofascisti come Rauti e Giannettini. In realtà questo modello ha avuto per diversi paesi una funzione dissuasiva decisamente pacifica. Non si può, ad esempio, non considerare come il maggiore impegno di svizzeri e svedesi nella propria difesa totale abbia avuto un grosso ruolo nel garantire a questi paesi ben 170 anni di pace. L’allargamento del concetto della difesa ai terreni economico e civile può anche comportare maggiori impegni per i cittadini, ma non implica automaticamente alcuna militarizzazione. Anzi. Porsi, ad esempio, il problema della vulnerabilità energetica dei paesi europei può portare alla scelta di dotarsi di scorte di petrolio per garantire la continuità delle attività economiche in caso di crisi. Una misura di sicurezza molto meno provocatoria di quella di acquistare una o due portaerei per andare immediatamente a ‘riaprire i rubinetti’. Perché non chiedersi quante scorte di petrolio si potrebbero approntare con i circa 3mila miliardi (109) necessari all’acquisto delle portaerei Garibaldi e Mazzini? Ancora più evidenti sono i vantaggi derivanti dall’esistenza di una robusta componente civile della difesa. In Svizzera, Iugoslavia e Svezia essa assolve in pace a compiti utili anche in caso di guerra, come la protezione e la cura della popolazione e del territorio. In Italia, in caso di guerra, ci sarebbero solo un 2% di militari mobilitati e un 98% di profughi con il compito di stare buoni e fare il tifo. Le esperienze che abbiamo fatto in caso di catastrofi naturali, nonostante gli sforzi degli ultimi anni, non credo abbiano portato il 70% della popolazione a pensare di avere buone probabilità di sopravvivere in caso di guerra o catastrofe, come avviene in Svizzera. E perché non pensare alle possibilità che la difesa civile può offrire alla resistenza nonviolenta in particolari condizioni e situazioni? Nel 1983, dopo due anni di lavoro, una Commissione sulla resistenza - incaricata dalla Commissione difesa del parlamento svedese di studiare la questione - ha raccomandato di inserire nella pianificazione difensiva la preparazione della resistenza civile nelle aree temporaneamente occupate (110). Nella Repubblica federale tedesca le intuibili difficoltà connesse alla difesa militare delle città hanno portato alcuni militari a proporre una combinazione di difesa non armata cittadina e difesa armata rurale (111). Perché non pensare a quello che si potrebbe fare su questo piano anche in Italia, magari cominciando da Trieste, considerata indifendibile dai comandi militari? Sul piano più ristretto della difesa militare, gli elementi basilari della difesa non-convenzionale sembrano essere la difesa territoriale e l’esercito di cittadini, che permettono una partecipazione maggiore della popolazione al condiviso compito della difesa del paese. Quest’ultima non è basata sulla capacità di rappresaglia contro altri paesi, ma sul rendere il proprio territorio e la propria popolazione difficili da conquistare. Perciò la difesa territoriale è un sistema strutturalmente ed esplicitamente difensivo, una ‘difesa difensiva’ e ‘non provocatoria’, semplicemente inadatta ad attaccare altri paesi. Un sistema, quindi, difficilmente interpretabile da altri paesi come una minaccia e meno suscettibile di stimolare la corsa al riarmo. Sebbene l’ipotesi di una difesa difensiva si sia per lo più sviluppata in paesi neutrali, alcuni dei suoi elementi sono presenti anche in eserciti della NATO. In Norvegia e Danimarca l’esperienza della resistenza partigiana nella seconda guerra mondiale ha lasciato un’eredità non solo nelle istituzioni politiche ma anche in quelle militari. Il corpo della guardia nazionale norvegese può mobilitare per la difesa territoriale 80mila cittadini in 24 ore; di questi solo 300 sono militari di carriera (112). Simile per composizione e funzioni è la guardia nazionale danese. In Francia esiste la ‘Défense Opérationelle du Territoire’, una struttura che può disporre di 200mila soldati (113). Altrettanti ne può mobilitare la ‘Territorialheer’ della Germania federale (114). Queste due ultime strutture hanno però compiti limitati per lo più ad operazioni contro aviosbarchi e azioni di sabotaggio. Diversi esperti di sicurezza dei paesi NATO - come l’americano George F. Kennan, il francese Andre Beaufre, gli inglesi Basil Liddel Hart e Michael Howard (115) - hanno ritenuto la difesa territoriale una proposta interessante per i paesi europei della NATO. Un’eventuale svolta verso una difesa difensiva del nostro paese dovrebbe comunque evitare le mitologie e le semplificazioni romantiche. Una soluzione ponderata potrebbe consistere nella combinazione di unità tradizionali con unità simili alla milizia svizzera; le prime dotate di mobilità e mezzi capaci di garantire capacità controffensive, le seconde più statiche e legate al territorio di origine. Anche la strategia dovrebbe essere combinata, dovrebbe cioè prevedere una prima difesa avanzata a ridosso della frontiera, ma anche una seconda difesa nella profondità del nostro territorio. I sistemi di difesa difensiva e totale sembrano avere una effettiva capacità di difesa in caso di guerra e, di conseguenza, una forte funzione di dissuasione verso un potenziale aggressore. I maggiori costi che l’adozione di un sistema di questo tipo potrebbe comportare per l’Italia vanno comunque valutati assieme ai ricavi in termini di adesione della popolazione al proprio sistema di difesa. I cittadini di paesi così diversi come la Svizzera, la Iugoslavia o anche la Svezia, sembrano disposti ad un maggiore impegno, quando questo sembra loro garantire effettivi maggiori ricavi in termini di sicurezza. Questi guadagni sono in parte evidenti in condizioni di pace (ed esempio per la difesa civile contro le catastrofi naturali), ma lo diventano ancora di più in situazioni di crisi e tensione. La riduzione (o l’eliminazione) della minaccia nucleare è diventato in questi ultimi anni per gli europei uno dei più importanti obiettivi, forse il maggiore ricavo che la maggioranza dei cittadini vorrebbe richiedere per il proprio impegno per la difesa. La domanda che è giusto porsi è quindi se un modello di difesa di tipo totale può garantire da solo una dissuasione credibile anche contro le armi nucleari dell’avversario. La risposta è complessa. La difesa territoriale nega alle armi nucleari una parte consistente dei loro obiettivi. La non concentrazione delle forze in grandi unità rende le armi nucleari tattiche (da campo di battaglia) abbastanza inutili e anche pericolose per lo stesso aggressore. Il radicamento nella giurisprudenza internazionale del principio della illegittimità di un attacco nucleare contro Stati non nucleari contribuisce alla dissuasione. L’approntamento di una difesa passiva basata sui rifugi antiatomici, per quanto discutibile sia la sua efficacia pratica, sembra contribuire a rafforzare la determinazione di un paese nuclearmente disarmato a resistere ai ricatti delle potenze atomiche. Ma l’impressione è che anche i paesi neutrali a difesa totale contino, in caso di minaccia nucleare, sulla dissuasione garantita dalle armi nucleari degli Stati che le possiedono. Anche secondo Adam Roberts (116) e Michael Howard (117), la difesa totale-territoriale non può soppiantare ‘completamente’ la deterrenza nucleare. Quest’ultima può però essere ridotta ad una capacità minima, di ‘secondo colpo’, che dissuada chiunque a dare inizio alla distruzione del mondo. Questa deterrenza minima potrebbe essere garantita all’Europa occidentale anche da un solo sottomarino nucleare francese, inglese o americano. Quindi, con l’adozione della difesa difensiva e di una deterrenza nucleare minima, la panoplia di armi nucleari attualmente esistenti, tra cui tutte quelle schierate in Italia, potrebbe essere eliminata. La proposta di un modello di difesa totale-territoriale può quindi accompagnarsi ad una proposta di disarmo nucleare dell’Italia. Queste due proposte possono essere entrambe perseguite in maniera unilaterale dal nostro paese. Esse richiedono come condizione propedeutica ‘non’ la modifica dell’attuale sistema di alleanze, ma la revisione degli attuali indirizzi strategici e della mentalità subalterna con cui l’Italia ha partecipato alla NATO. Il conte Sforza diceva una quarantina di anni fa che “l’adesione al Patto Atlantico non si negozia”. Norvegia, Danimarca e Spagna hanno invece dimostrato che si può negoziare, e ora stanno nella NATO senza ospitare armi nucleari sul proprio territorio. L’adesione alla NATO - o anche la proposta di uscirne - non possono in ogni caso essere un alibi per evitare la responsabilità di proporre risposte adeguate sia al maggioritario rifiuto della società italiana per le armi nucleari che alla necessità di garantire la sicurezza del paese.



NOTE

1. ‘The New York Times’, 10 giugno 1956.

2. F. Bacchetti, “La politica di neutralità dell’Austria”, ‘La Comunità Internazionale’, n.3, 1984, p.375.

3. Il generale tedesco von Schlieffen ricorda nelle sue ‘Memorie’ del 1915 che preferiva lasciare in pace un popolo la cui organizzazione militare si basava su così solide basi. Cfr. B. Cramer, ‘Dissuasion infra-nucleaire. L’Armée de milice suisse: mythes et realites strategiques’, Cirpes, Paris, 1984, p.7.

4. C. Boutet, ‘L’Armée suisse contemporaine’, Cersa, Toulouse, 1982, p. 1 degli allegati.

5. ‘Ibidem’, p.30.

6. B. Cramer, ‘op. cit.’, p.7

7. ‘Ibidem’.

8. C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 9 degli allegati. G. Bucciol, “Esercito e paese. Interazione per un modello di difesa integrata in Svizzera”, ‘Rivista Militare’, gennaio-febbraio 1983, p. 68.

9. Tra le prese di posizione a favore dell’adozione di armi atomiche tattiche, cfr. D. Brunner, G. Daeniker, L. Farner, A. A. Wicki, ‘Gedanken zu einen Zweischerischer Atomwaffenkonzeption’, Zuerich, 1965.

10. ‘Rapport du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant la conception de la Défense nationale militaire’, 6 giugno 1966.

11. ‘Rapport du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale sur la politique de sécurité de la Suisse’, 27 giugno 1973, p. 5, cit. in C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 36.

12. International Institute for Strategic Studies (IISS), ‘The Military Balance 1986-1987’, IISS, London, 1986, pp.86-87. Anche i dati sulle forze militari che seguono, ove non diversamente specificato, sono tratti da questa fonte.

13. L’importanza del cittadino-militare nell’armata svizzera è illustrata con efficacia da J. McPhee, ‘Il formidabile esercito svizzero’, Adelphi, Milano, 1987. Il volume raccoglie le impressioni che l’autore ha ricavato in alcune settimane passate come ‘complemento’ dell’esercito svizzero, arricchite di riferimenti storici e valutazioni personali.

14. C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 69.

15. Nel 1967 gli obiettori erano 93, nel 1974 sono saliti alla punta massima di 545, nel 1978 sono scesi a 391. Nel 1979 gli obiettori sono stati 128, lo 0,25% del contingente chiamato alla scuola reclute. C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 24 degli allegati.

16. Secondo il consigliere federale socialista Jean Ziegler la maggioranza dei consiglieri federali (anch’essi non retribuiti) fanno parte dei Consigli di amministrazione delle aziende e, nell’armata, rivestono ruoli di comando. C. Boutet, ‘op. cit.’, pp. 94-96. Secondo un’inchiesta dei sociologi Masnata-Rubattel, nello Stato maggiore della 2a divisione di frontiera ci sono 47 direttori di piccole e medie aziende, 39 quadri intermedi dell’industria, 20 avvocati e giudici, 12 quadri intermedi delle compagnie d’assicurazione, 12 medici e farmacisti, 4 funzionari superiori di polizia. C. e F. Masnata-Rubattel, ‘Le pouvoir suisse. Seduction démocratique et répression suave’, Christian Bourgois, Paris, 1978, pp. 196-197, cit. in B. Cramer, ‘op. cit.’, p. 16. La conferma delle discriminazioni di classe nella gerarchia militare è dovuta al fatto che le classi più abbienti hanno più soldi e più tempo da dedicare alla propria formazione militare rispetto ai meno abbienti. Infatti i rimborsi per i mancati guadagni dei

periodi di addestramento sono pari al 30% dello stipendio, mentre per sviluppare la propria carriera occorre dedicare all’attività militare diverse ore della propria giornata da civile. Per un capitano questo tempo è stato stimato in circa un’ora al giorno. Grazie a questa sua natura di classe l’armata è stata più volte impiegata efficacemente contro gli scioperi. L’intervento antipopolare dell’armata svizzera non può essere comunque paragonato a quello di altri eserciti europei, come quello tedesco, italiano o austriaco. Sugli interventi antisciopero dell’armata svizzera vedi C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 104.

17. I simulatori in dotazione all’armata svizzera comprendono il simulatore per equipaggio carri ‘Elsap 2000’, il ‘Weibull’ per cannoni da 20 mm, il ‘Solartron’ a raggi laser per cannoni, il simulatore guida per carri armati, quello per veicoli anticarro ‘Bantham’, il simulatore di tiro per sistemi missilistici anticarro ‘Dragon’, il simulatore di tiro per artiglieria, l’indicatore di errori di puntamento per l’artiglieria contraerea, il simulatore ‘Simir’ di guida e tiro per aerei ‘Mirage’. C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 81.

18. Nel 1974 le società di tiro organizzavano 32mila giovani dai 15 anni in su.

19. La ‘Societé suisse des Officiers’ conta 22mila aderenti, La ‘Association suisse des Sous-Officiers’ 21mila. Queste associazioni organizzano incontri, dibattiti, visite all’estero, pubblicazioni di opuscoli e riviste, e anche gare sportive. Oltre la rivista ufficiale, ‘Allgemeine Schweiz Militaerzeitschrift’ con 30mila copie di tiratura, c’è la prestigiosa ‘Revue Militaire Suisse’, e la rivista dell’associazione sottufficiali ‘Notre Armée de Milice’, stampata in 16mila copie.

20. C. Boutet, ‘op. cit.’, p. 79

21. La squadra di sorveglianza è composta da un’ottantina di aerei (F-5E ‘Tiger’, ‘Mirage’ IIIS, ‘Mirage’ IIIRS), articolati su tre gruppi di combattimento e uno di ricognizione. I piloti militari di professione sono 140. G. Simone, “Come si difende la Confederazione”, ‘Panorama Difesa’, aprile 1987, pp.59-65.

22. ‘Ibidem’, p.82.

23. B. Cramer, ‘op. cit.’, p. 9. M. Faivre, “Des milices cantonales a la defense totale de la Suisse”, ‘Strategique’, n.4, 1983, p.51.

24. IISS, ‘op. cit.’, p.86.

25. B. Cramer, ‘op.cit.’, p. 36.

26. ‘Ibidem’, pp.31-39. La vicenda del maggiore H. von Dach è emblematica delle resistenze conservatrici allo sviluppo di una componente ‘partigiana’ nella difesa svizzera. Nel 1958, a due anni dall’invasione dell’Ungheria, von Dach pubblicò una specie di manuale del partigiano moderno, in cui si davano indicazioni per la resistenza individuale e di piccoli gruppi. L’opera fu snobbata in patria mentre ebbe successo negli Stati Uniti, dove fu tradotta e considerata un manuale di grande valore. Solo successivamente il manuale fu stampato in Svizzera a grande tiratura. L’opera di von Dach non incise granché nel dibattito militare; sulla sua carriera invece incise significativamente, compromettendola. Il manuale di von Dach, tradotto in italiano, si trova in Stella Rossa (a cura di), ‘In caso di golpe. Manuale teorico-pratico per il cittadino di resistenza totale e di guerra di popolo, di guerriglia e di controguerriglia’, Savelli, Roma, 1975.

27. Vedi la dichiarazione del presidente del consiglio federale Chevallaz del 1983, riportata in B. Cramer, ‘op. cit.’, p. 25.

28. Nel corso dell’82, ad esempio sono state tenute sia un’esercitazione di allarme simultaneo con sirena in tutta la Svizzera, che l’esercitazione ‘Mass media 82’, che ha coinvolto 1500 giornalisti e miliziani. G. Bucciol, ‘op. cit.’, p. 67.

29. A. Wyser, “Nouvelles dimensions de la sécurité: la voie suisse”, in C. Gasteyger (a cura di), ‘La sécuritè de la Suisse’, Institut universitaire de hautes études internationales, Genève, 1983, p. 87. Wyser è il direttore dell’Ufficio centrale della difesa svizzera.

30. Service d’information et de presse de l’OFPC, 18 gennaio 1982, cit. in B. Cramer, ‘op. cit.’, p.28.

31. A. Wyser, ‘op. cit.’, p.85.

32. Nel 1972 le spese complessive per la PC sono state di 210 milioni di franchi svizzeri. C. Boutet, ‘op. cit.’, p.47. Nel 1981 di 500 milioni. B. Cramer, ‘op. cit.’ p. 28, n.175. Si tratta rispettivamente del 9-10% e del 13-14 % dei bilanci della Difesa dei rispettivi anni. Comunque sembra delinearsi negli anni Ottanta una tendenza del governo federale a scaricare la parte maggiore dei finanziamenti della PC ai Cantoni e ai privati. Dal 1981 i finanziamenti ai privati per la costruzione dei rifugi sono stati sospesi e la quota del bilancio della Difesa dedicata alla PC è scesa dall’8% del 1974 al 4,5% del 1981. B. Cramer, ‘op. cit.’, pp.26 e 28.

33. Per un’analisi del profilo dell’economia svizzera e dei settori critici di dipendenza dall’estero, vedi K. Jacobi, “Sommes-nous devenus trop dépendants du monde extérieur?”, in C. Gasteyger, ‘op. cit.’, pp.55-64.

34. A. Wyser, ‘op. cit.’, pp.91-92.

35. In rappresentanza di tutte queste opinioni citiamo quella dell’ex-presidente della Confederazione e ministro della Difesa, Georges André Chevallaz: “Le curieux conglomérat de pacifisme militant, de bons sentiments niais et de violence non-violente que les Etats totalitaires promènent en Europe occidentale et aux Etats-Unis pour leur usage particulier évoque toujours l’argument de l’arme atomique, de l’holocauste ou de l’apocalypse nucléaire. C’est un chantage de bon effet, le meilleur argument di désarmament unilatéral et de capitulation anticipée”. G. A. Chevallaz, “La sécurité de la Suisse: continuité et changement”, in C. Gasteyger, ‘op. cit.’, p.23.

36. Nel 1928 il leader del Partito contadino croato viene assassinato in pieno parlamento. Nel 1934 gli ‘ustascia’ e i separatisti macedoni uccidono il re Alessandro.

37. L. Foa, “Socialismo iugoslavo”, in ‘Il mondo contemporaneo’, vol. 2, ‘Storia d’Europa’, t. 3, La Nuova Italia, Firenze, 1980, pp. 1151-1152.

38. M. V. Vego, “Yugoslav Armed Forces Since 1968”, in ‘Rusi and Brassey’s Defence Yearbook’, London, 1983, riportato in Dipartimento Affari Internazionali (DAI), Servizio studi, Camera dei Deputati (a cura di), ‘La politica iugoslava della difesa’, documentazione per le commissioni parlamentari n. 89, Roma, 1985, p. 24.

39. V. Cerovic, “La défense de l’indipendance et de la paix”, ‘Revue de Politique Internationale’, 5 dicembre 1981, pp. 6-8.

40. Su questa valutazione concordano sia le fonti di parte iugoslava che di parte tedesca. Per le prime vedi C. Cerovic, ‘op. cit.’. Per le seconde vedi, ad esempio, le valutazioni del generale Emil Spannocchi, comandante in capo delle forze armate austriache dal 1973 al 1981. Nella seconda guerra mondiale l’allora maggiore Spannocchi era inserito nel comando di una divisione corazzata tedesco-austriaca impegnata sul fronte russo. Spannocchi ricorda che l’esercito tedesco aveva valutato che per controllare la retrovia iugoslava occorrevano 3 soldati e mezzo per chilometro quadrato. Dato che la Iugoslavia misura circa 256mila chilometri quadrati, questo significa circa 900mila combattenti dell’Asse impegnati a controllarla. E. Spannocchi, ‘Una ipotesi per la difesa del territorio’, testo della conferenza tenuta a Roma il 12 marzo 1982, Quaderni del Centro Alti Studi Difesa (CASD), Roma, 1982, p.16.

41. F. Claudin, ‘La crisi del movimento comunista’, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 293-301.

42. R. Lukic, ‘La dissuasion populaire yougoslave’, Cirpes, Paris, 1985, p.9. Vedi anche F. Claudin, ‘op.cit.’, p.383. Sulle rivedicazioni territoriali iugoslave sulla Carinzia vedi T. O. Schlesinger, ‘Austrian Neutrality in Postwar Europe’, Wilhelm Braumueller, Wien-Stuttgart, 1972, p. 79. Sulle rivendicazioni territoriali verso l’Italia vedi le affermazioni di Luigi Longo, dirigente del partito e delle formazioni partigiane comuniste italiane, contenute in una lettera del 1943 al centro comunista di Mosca. Nella lettera Longo protesta contro la richiesta dei partigiani iugoslavi di spostare le unità partigiane italiane a sinistra del fiume Tagliamento. Secondo gli iugoslavi il territorio alla destra del fiume era considerato parte della futura nazione iugoslava e doveva, quindi, essere liberato dagli iugoslavi stessi. Nel novembre 1943 il Partito comunista sloveno aveva anche proposto al Comitato di liberazione nazionale sloveno di decretare l’annessione di Trieste. La lettera di Longo a Mosca è riportata

in P. Secchia (a cura di), ‘Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione 1943-1945’, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 183-184.

43. Il tentativo di colpo di Stato è immediatamente successivo all’espulsione del KPJ dal Cominform e coinvolge tre generali, tra cui il capo di Stato maggiore della Difesa. F. Claudin, ‘op. cit.’, p. 394.

44. M. V. Vego, ‘op. cit.’, p.25.

45. Citato in A. Roberts, ‘Nations in Arms’, (2a edizione), MacMillan Press, London, 1986, pp.161-162.

46. Secondo A. Ross Johnson, la scelta iugoslava di una difesa totale contro la minaccia sovietica è “la conseguenza di lungo periodo più significativa di quella invasione fuori dal blocco sovietico”. A. R. Johnson, “The Role of the Military in Yugoslavia: An Historical Sketch”, in R. Kolkowitz, A. Korbonski (a cura di ), ‘Soldiers, Peasants and Bureaucrats’, George Allen Unwin, London, 1982, riportato in DAI, ‘op. cit.’, p.10. Vedi anche: R. Lukic, ‘op. cit.’, p.7.; M. N. Vego, ‘op. cit.’, p.26; J. Nouzille, “La politique de défense de la Yougoslavie”, ‘Strategique’, Paris, 2o trim., 1982, p.86; A. Roberts, ‘op. cit.’, p.172.

47. Citato in J. Nouzille, ‘op. cit.’, p. 91.

48. La traduzione letterale di questa espressione serbo-croata è “difesa di tutto il popolo”.

49. Attualmente la Quinta Squadra deve partire dai porti del Mar Nero e passare ogni volta nello stretto dei Dardanelli controllato dalla Turchia. Sebbene l’Unione Sovietica abbia accordi di collaborazione militare con la Siria e anche con la Iugoslavia questi non sembrano garantire l’assistenza necessaria alla Quinta Squadra. Ciò è sicuramente vero per la Iugoslavia, che per una norma della legge sulle acque territoriali del 1974, permette che presso i propri porti possano sostare solo due navi da guerra della stessa bandiera nel medesimo periodo. A. Roberts, ‘op. cit.’, p.184.

50. Serbi, croati, sloveni, macedoni, montenegrini, albanesi, magiari e musulmani.

51. Il serbo-croato, lo sloveno e il macedone.

52. Ortodossi (circa 7.500.000), cattolici (circa 6.500.000), musulmani (circa 1.400.000).

53. Tutti i dati sulle forze armate iugoslave che seguono, quando non diversamente specificato, sono presi da IISS, ‘op. cit.’, pp.87-88.

54. Esiste un comando regionale nella Slovenia, Croazia, Bosnia, Montenegro, Macedonia. La Serbia ne ha invece due, uno a Belgrado e uno a Nis.

55. Le sei repubbliche sono: Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia, Macedonia, Montenegro. La Voivodna e il Kossovo sono invece Province autonome.

56. Cioè lo 0,4% della ricchezza prodotta dalle Repubbliche. Cfr. N. Cubra, “Financing Total National Defence”, ‘Yugoslav Survey’, n.3, 1984, pp. 17-26.

57. J. Nouzille, ‘op. cit.’, p.95.

58. N. Cubra, ‘op. cit.’, p.24. Per ovviare a questa situazione, il governo ha recentemente disposto che un livello minimo delle riserve acquisite con fondi federali non possa essere utilizzato per interventi sul mercato.

59. H. Neuhold, H. Rudofsky, W. Loibl, “The Permanent Neutrality of Austria”, in K. E. Birnbaum, H. Neuhold, ‘Neutrality and Non-alignement in Europe’, Wilhelm Braumueller, Wien, 1982, pp.44-80.

60. Per una analisi dell’ipotesi della neutralizzazione della Germania, come progetto dominante della dirigenza sovietica, vedi L. Caracciolo, ‘Alba di guerra fredda’, Laterza, Roma-Bari, 1986, p.21.

61. H. Neuhold ‘et al.’, ‘op. cit.’, p.55.

62. Sul progressivo radicamento dell’opzione neutralista nell’identità nazionale austriaca vedi lo studio di T. O. Schlesinger, ‘op. cit.’ Il giudizio di Schlesinger sul carattere profondamente occidentale della società austriaca è condiviso anche da Fausto Bacchetti, per il quale “l’Austria per la sua cultura, la sua Costituzione, la pratica politica e il patrimonio ideologico dei suoi partiti si pone nettamente e senza equivoci nel campo occidentale”. F. Bacchetti, ‘op. cit.’, p.375.

63. Sulla politica austriaca verso l’Alto Adige-Sud Tyrol vedi T. O. Schlesinger, ‘op. cit.’, pp.56-78.

64. Per gli anni Settanta l’Onu propone ai paesi industrializzati di destinare lo 0,3% del Prodotto Interno Lordo (PIL) ai paesi in via di sviluppo. L’appoggio delle autorità austriache a questa iniziativa è totale, a livello verbale. Il ministro degli Esteri austriaco, il socialista Kreiski, propone addirittura un nuovo piano Marshall per il sud del mondo. Nonostante ciò e nonostante che la carica di segretario dell’ONU sia tenuta dal 1972 al 1981 da un altro austriaco, il concreto impegno austriaco è deludente. Verso la fine del decennio, nel 1979, l’Austria è arrivata a destinare allo sviluppo del Terzo Mondo appena lo 0,19% del PIL; una quota analoga a quella degli Stati Uniti e della Svizzera. Su questo aspetto cfr. H. Neuhold ‘et al.’, ‘op. cit.’, pp.84-86.

65. Emil Spannocchi, comandante delle forze armate austriache dal 1973 al 1981, ricorda quel periodo in questi termini. “Volevamo costruire un esercito per difendere la nostra neutralità e più tardi ci accorgemmo di aver costruito qualcosa di falso. Questo errore è comprensibile perché gli esperti cui era stato dato il compito di creare la nuova struttura delle forze armate avevano in precedenza servito, quali ufficiali, nella ‘Wehrmacht’ tedesca e perciò stesso ne avevano acquisito il cliché senza tener conto che l’esercito è uno strumento della politica; solo se serve l’obiettivo del proprio Stato risponde allo scopo. Gli obiettivi politici che la ‘Wehrmacht’ tedesca ha servito sono stati certamente diversi da quelli della giovane neutralità austriaca. L’esercito austriaco, quindi, costruito secondo quel prototipo… non poteva che essere falso”. E. Spannocchi, ‘op. cit.’, p.12.

66. ‘The New York Times’, 6 ottobre 1965, citato in T. O. Schlesinger, ‘op. cit.’, p.123.

67. Cfr. L. Specht, “Il modello austriaco di difesa”, ‘Problemi del Socialismo’, (nuova serie), n.1, 1984, p.193.

68. In una pubblicazione ufficiale del ministero della Difesa austriaco si dice che le diverse componenti della difesa “dovranno in futuro coprire tutti gli aspetti della minaccia”. Buroe fuer Wehrpolitick, ‘Prepared for Austria’, Bundesministerium fuer Landesverteidigung, Wien, 1984, p.26.

69. ‘Ibidem’.

70. IISS, ‘op. cit.’, pp.81-82.

71. Occupazione di tutto o larga parte del territorio, occupazione di parte non larga, minacce di bassa intensità.

72. T. O. Schlesinger, ‘op. cit.’, p.138. Per altre critiche alla sottovalutazione della difesa militare vedi pp.124-125.

73. H. Neuhold ‘et al.’, ‘op. cit.’, p.56.

74. Per lo svizzero Josef Feldman, ad esempio, l’efficiacia della risposta austriaca ad un attacco militare sarebbe dubbia, per la mancanza dei missili, la debolezza dei mezzi corazzati e della copertura aerea. J. Feldman, “La concezione della difesa militare di un paese vicino: l’Austria”, in Istituto Studi e Ricerche sulla Difesa (ISTRID) (a cura di ), ‘La difesa del territorio’, ISTRID, Roma, 1980, pp.289-302. Un anonimo colonnello dell’esercito italiano, che simpatizza per i sistemi di difesa territoriale, arriva alla conclusione che “il generale Spannocchi vendeva fumo con la sua teoria dello ‘sciame d’api’ contro un ipotetico invasore”. G. Boatti, “Malinconici guerrieri”, ‘Il Manifesto’, 18 settembre 1986. Anche secondo l’austriaco Leo Specht la difesa austriaca mostra gravi limiti, per cui bisognerebbe “organizzare una difesa il più efficace possibile”. L. Specht, ‘op. cit.’, pp.191-208. Sulla debolezza dell’attuale difesa aerea austriaca vedi P. Rollino, R. Sacchetti, “In equilibrio tra efficienza e

neutralità. La forza aerea austriaca”, ‘Panorama Difesa’, ottobre-novembre 1986, pp.59-62. Un giudizio positivo, ma comunque limitato alla difesa terrestre, è invece espresso da P. Valpolini, “L’esercito austriaco”, ‘Panorama Difesa’, giugno 1987, pp.27-33.

75. Il non allineamento ha le stesse caratteristiche della neutralità per quanto riguarda la sicurezza, ma ha un’aggiunta di enfasi nel porre il problema del sottosviluppo economico tipico del Terzo Mondo, ma anche di altri paesi.

76. Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), ‘SIPRI Yearbook 1978’, Taylor Francis, London, 1978, pp.148-149 e ‘SIPRI Yearbook 1986’, Oxford U. P., Oxford New York, 1986, pp.242-243.

77. P. Pringle, W. M. Arkin, ‘S.I.O.P. The Secret U.S. Plan for Nuclear War’, W. W. Norton Company, New York London, 1983, p.188, cit. in M. De Andreis, P. Miggiano (a cura di), ‘L’Italia e la corsa al riarmo’, Milano, Franco Angeli, 1987, p.41.

78. V. Ilari,”Concetto difensivo e dottrina militare”, in M. Cremasco (a cura di), ‘Lo strumento militare italiano’, Milano, Franco Angeli, 1986, p.103.

79. E. Cerquetti, ‘Le forze armate italiane dal 1945 al 1975’, Feltrinelli, Milano, 1975, p.158.

80. Si tratta delle serie dottrinali 600, 601 e 620 dello stato maggiore esercito, elaborate tra il 1958 e il 1960. V. Ilari, ‘op. cit.’, p.102.

81. E. Cerquetti, ‘op. cit.’, p.172.

82. ‘Ibidem’, p.127.

83. ‘Ibidem’, p.327.

84. M. Cremasco, “La dimensione militare”, in S. Silvestri, M. Cremasco, ‘Il fianco sud della NATO’, Feltrinelli, Milano, 1980, p.76.

85. G. Boatti, “Le frontiere vecchie e nuove dell’esercito italiano”, ‘Belfagor’, gennaio 1985, pp.75-86. Una parte degli articoli degli ufficiali favorevoli alla difesa territoriale, apparsi sulla ‘Rivista militare’, sono riportati in ISTRID, ‘op. cit.’

86. E’ la proposta di legge n.1231 dell’ottava legislatura.

87. Sul mutamento della politica di sicurezza socialista a cavallo degli anni Ottanta vedi P. Miggiano, “Grida di guerra nel Psi” e “Lelio Lagorio: un vero ministro della guerra”, ‘Quotidiano dei Lavoratori’ (ediz. settimanale), 18 e 25 settembre 1981.

88. Dopo le elezioni del 1979, il partito socialista sostituisce Accame con Paolo Battino Vittorelli alla presidenza della Commissione difesa della Camera.

89. Intervista a ‘Il Settimanale’, 13 maggio 1980.

90. A. D’Alessio, introduzione al convegno ISTRID del 14 ottobre 1980, in ISTRID, ‘op. cit.’, pp.15-23.

91. Il riferimento di Forlani alla possibilità di una difesa non nucleare, ispirata all’esperienza iugoslava è nel suo intervento alla Camera del 7 maggio 1980, riportato in ISTRID, ‘op. cit.’, pp.203-208. L’intervento viene poi gonfiato dalla stampa, che lo presenta come la nuova strategia militare democristiana. Il dibattito suscitato dai giornali impone a Lagorio di prendere posizione, con le dichiarazioni sopra citate a ‘Il Settimanale’, in cui si sconfessano le proposte dei riformatori. Due settimane dopo l’intervento di Forlani in parlamento, il deputato democristiano Bartolo Ciccardini si premura di chiarire la proposta del suo collega. Essa consiste in “una piccola forza di altissima tecnologia dotata di validissimi supporti (necessari per il rapido impiego anche in settori diversi), appoggiata ad una difesa del territorio concepita in maniera diversa, con la partecipazione dei cittadini e della società”. In pratica si propone un esercito a due componenti: la prima piccola, ad alta tecnologia e forma

ta da militari di carriera; la seconda da una milizia di tipo svizzero. Alla seconda componente, cioè ai cittadini militari dovrebbe spettare il compito costituzionale della difesa del territorio. La prima componente dovrebbe invece garantire il rapido impiego dei volontari non solo a sostegno della difesa nazionale, ma anche per interventi militari nel Terzo Mondo. Nel citato intervento Forlani fa infatti esplicito riferimento alla necessità degli europei di impegnarsi nel golfo Persico per garantirsi “la certezza degli approvvigionamenti energetici”. Per Ciccardini, il nuovo sistema convenzionale non servirebbe comunque a diminuire le armi nucleari, anzi gli euromissili sarebbero indispensabili per riequilibrare la bilancia militare est-ovest. B. Ciccardini, “Come, dove e perché difendere l’Europa”, ‘Il Popolo’, 23 maggio 1980, riportato in ISTRID, ‘op. cit.’, pp.211-215.

92. Gli atti del convegno sono riportati in ISTRID, ‘op. cit.’

93. ‘Ibidem’, pp.41-62.

94. Per le posizioni di Carlo Jean a favore delle difesa territoriale, vedi i due articoli scritti nel 1972 e nel 1978 sulla ‘Rivista Militare’, ora riportati in ISTRID, ‘op. cit.’, pp.351-362 e 329-349. Il secondo di questi articoli esce firmato con lo pseudonimo di Carlo Bess. Con lo stesso pseudonimo Jean firma sulla ‘Rivista Militare’ il resoconto del citato convegno dell’ISTRID, facendo proprie le posizioni espresse in quella sede da Rambaldi. G. Boatti, ‘Le frontiere…’, cit., p.82.

95. A. Roberts, ‘Nations in Arms’, (1a ediz.), Chatto Windus, London, 1976. G. Brossolet, ‘Essai sur la non bataille’, Belin, Paris, 1975. E. Spannocchi, G. Brossolet, ‘Verteidigung ohne Schlacht’, Muenchen, 1976. H. Afheldt, ‘Verteidigung und Frieden’, DTV, Muenchen, 1979.

96. Il più rappresentativo di questa tendenza è Carlo Jean, come mostrano i citati articoli sulla ‘Rivista Militare’.

97. Falco Accame sembra essere, se leggiamo giusto nei suoi un po’ confusi riferimenti, su questa posizione.

98. F. Accame, intervento al convegno dell’ISTRID del 14 ottobre 1980, in ISTRID, ‘op. cit.’, pp.83-101.

99. Sul modello difensivo e la strategia svedese vedi A. Roberts, ‘Nations in Arms’, (2a ediz.), MacMillan Press, London, 1986, pp.62-123 e 285-288.

100. A. Roberts, ‘op. cit.’, (2a ediz), pp.278-279.

101. Ministero della Difesa, ‘La Difesa. Libro bianco 1985’, Roma, 1984, p.41. Il corsivo è nostro.

102. L. Caligaris, C. M. Santoro, ‘Obiettivo difesa’, Il Mulino, Bologna, 1986, pp.55-79.

103. L. Caligaris, M. Cremasco, “Italian Rapid Intervention Force”, ‘Paper IAI’/02/85, Istituto affari internazionali, Roma, p.37.

104. Nel caso di un attacco da parte delle forze del Patto, i comandanti iugoslavi ritengono di poter far durare per due settimane la battaglia frontale sulle frontiere, mentre nella seconda fase di guerra partigiana sono convinti di poter impegnare una trentina di divisioni sovietiche e resistere per un anno senza aiuti da altri paesi. J. Nouzille, ‘op. cit.’, p.100.

105. Si tratta degli MRCS-403. IISS, ‘op. cit.’, p.82.

106. Il sistema radar militare svizzero, denominato ‘Florida’, è stato costruito dalla ditta americana Hughes. La stessa azienda ha costruito la rete radar NADGE (‘NATO Air Defence Ground Environment’) della NATO. B. Cramer, ‘op. cit.’, p.41.

107. Vedi, ad esempio, G. W. Maccotta, “La Repubblica federale austriaca”, ‘Rivista Marittima’, marzo 1987, pp.9-16.

108. La cosiddetta legge di riforma della leva, approvata nel 1987 dal parlamento, prevede che le forze armate possano arruolare fino a 65mila volontari di truppa. Questi ultimi dovrebbero risolvere il problema della inaffidabilità politica dei soldati di leva per operazioni militari illegittime. Luigi Caligaris, a proposito della necessità di utilizzare volontari invece di coscritti per la Forza di Intervento Rapido, scrive: “A livello politico l’uso dei soldati di leva… farebbe sorgere seri problemi se essi fossero utilizzati in missioni come quelle previste per la forza di intervento rapido… in situazioni che spesso superano il compito tradizionale di difesa del confine militare. L’opposizione delle famiglie dei soldati, degli stessi soldati e di alcune forze politiche, che è stata superata durante la crisi di Beirut potrebbe causare il fallimento dell’operazione”. L. Caligaris, M. Cremasco, ‘op. cit.’, p.46.

109. M. De Andreis, P. Miggiano, ‘op. cit.’, p.165.

110. A. Roberts, ‘op.cit.’, p.287.

111. H. H. Nolte, M. Nolte, ‘Ziviler Widerstand und Autonome Abwehr’, Nomos, Baden Baden, 1984.

112. A. Roberts, ‘op. cit.’, p.267.

113. ‘Ibidem’, pp.268-269.

114. ‘Ibidem’, p.269.

115. ‘Ibidem’, cap.8. Per più recenti prese di posizione vedi: M. Howard, ‘The Causes of Wars’, (2a ediz.), Harward U. P., Cambridge (MA), 1984, pp.262-263; J. L. Clarke, “NATO, Neutrals and National Defence”, ‘Survival’, London, novembre-dicembre 1982, pp.260-265.

116. A. Roberts, ‘op. cit.’, p.279.

117. M. Howard, ‘op. cit.’, p.263.

 

Fonte: http://www.radioradicale.it

 


 

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