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In caso di offese, anche su Facebook o altri social network, il riferimento a una persona, benché generico, si considera ugualmente reato di diffamazione se il nome e cognome di quest’ultima è facilmente intuibile.

 

 

Anche una semplice allusione può integrare il reato di diffamazione tutte le volte in cui, nonostante la mancata indicazione del nome e cognome della persona diffamata, questa possa essere facilmente identificabile attraverso criteri certi di collegamento. È quanto precisa la giurisprudenza della Cassazione in modo ormai consolidato. I social network vengono, a volte, utilizzati per piccole vendette personali. I dispetti di un collega di lavoro, il tradimento di un amico, la rottura di un rapporto affettivo: sulla spinta delle emozioni del momento, gli utenti dei social network condividono con gli amici i loro sentimenti più negativi verso specifiche persone. Senza andare per il sottile, alcuni pubblicano nomi e cognomi delle vittime, il che chiaramente integra una diffamazione, reato che si può punire a semplice querela della parte offesa (presentandosi cioè presso la più vicina stazione dei carabinieri o della polizia, o depositando l’atto di querela presso la Procura della Repubblica). Anzi, si tratta di una forma aggravata di diffamazione, visto che è posta in essere con un mezzo di pubblicità – quale il social network – in grado di diffondere l’offesa in tempi più rapidi e più ampi. Non si salva, però, dal reato neanche chi, tentando di fare il furbo, evita di pubblicare nome e cognome della vittima, ma opera allusioni talmente mirate e precise da consentire di risalire all’identità della persona di cui si tratta. I riferimenti, insomma, quando non generano incertezza, sono puniti dalla legge penale. L’esempio più ricorrente e banale è all’azienda in cui si lavora: avvisare gli amici della bassa qualità dei servizi resi da un esercizio commerciale integra un danno all’azienda che è passibile anche di licenziamento. Anche il minato sentiero dei sentimenti trova su Facebook la propria valvola di sfogo: parlare delle relazioni infedeli di una persona, con chiari riferimenti al proprio ex parter, viola non solo la privacy, ma l’onore di quest’ultima. Facile quindi la querela per diffamazione. Il post impersonale non salva sempre dal reato se le allusioni non sono poi così difficili da comprendere ed il soggetto a cui si riferisce la frase offensiva è identificabile per vie traverse: facile incorrere comunque, anche in questi casi, nella condanna penale. Il discorso appena fatto vale, ovviamente, anche quando l’allusione viene fatta fuori da Facebook, purché alla presenza di almeno due persone e in assenza della vittima: si pensi a una cena tra amici, ad un gruppo di Whatsapp, alla mail recapitata a più destinatari, a una frase di troppo detta nel corso di un’assemblea condominiale, ecc. . La diffamazione, infatti, scatta tutte le volte in cui si parla male di una persona senza che questa sia presente e purché vi siano più persone a sentire. L’allusione confidata a una sola persona non integra però alcun reato anche se il contenuto è evidentemente diffamatorio.

Come difendersi dalle allusioni.
Il problema principale resta sempre quello delle prove del reato. Nel caso in cui, infatti, si sia in presenza di una pagina Facebook, facile sarebbe che, terminata l’ira del momento, l’autore cancelli il post offensivo dopo aver riconsiderato il proprio gesto. Peraltro non tutti i giudici possono essere dell’idea che una semplice stampa della schermata sia sufficiente a dimostrare l’illecito penale e civile. Ecco quindi qualche suggerimento per difendersi. Il primo suggerimento è quello di fissare le prove dell’illecito. Esistono differenti modi. Il più sicuro è certamente quello di recarsi da un notaio con la stampa della pagina Facebook incriminata e chiedere l’autentica della copia all’originale. In questo modo non ci saranno possibilità che il reo possa contestare la genuinità della riproduzione meccanica. Il semplice file in Jpeg o Pdf della pagina web è, infatti, una documentazione facilmente alterabile che ben si presta a contestazioni in tribunale. In alternativa è possibile chiamare a testimone qualcuno che, nel corso del processo, possa dichiarare di aver visto il post. Per quanto ai non tecnici del diritto possa sembrare strano, vale più la prova testimoniale che una stampa al computer di una pagina che, magari, non è più raggiungibile. Bisogna poi sporgere la querela immediatamente recandosi alla polizia postale o alla stazione dei carabinieri. La querela può essere precompilata dall’interessato (o, sicuramente meglio, da un legale di fiducia) e depositata presso le autorità. Le stesse autorità, tuttavia, sono chiamate a redigere il verbale di querela su richiesta della vittima, non potendo esimersi dal farlo. A questo punto bisognerà attendere che le autorità provvedano ad avviare le indagini, il che potrà richiedere fino a circa sei mesi. Prima di tale momento il querelante potrebbe non avere alcuna notizia in merito al procedimento.

[1] Cassazione, sentenza n. 16712/14 del 16.04.2014 . - Cassazione, sentenza n. 13604 del 24.03.2014 .


Fonte: http://www.laleggepertutti.it

 

 

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