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«Insomma, è ora di guardarci in faccia e dircelo chiaramente: è inutile che continuiamo a far finta di rivaleggiare con la Francia o la Germania. Non ci riusciamo, non siamo fatti per certe cose. D’ora in avanti i nostri modelli saranno altri, ben più allettanti e assolati: le Seychelles, le Maldive, Mauritius. Noi faremo come loro, e come questi Paesi l’Italia diventerà un paradiso dell’accoglienza e del buon vivere, costruito attorno alle straordinarie ricchezze artistiche ed ambientali di cui siamo depositari» (dal «Discorso di San Gimignano» del Presidente del Consiglio, 31 ottobre 2031).

 

 

DI FABRIZIO FEDERICI

La Grande Trasformazione era in atto ormai da un paio di decenni. L’aveva preceduta una lunga fase di accorta preparazione, in cui le attività produttive – e l’industria in particolare – erano state spinte in una profonda crisi, i finanziamenti alla ricerca erano stati quasi azzerati, e si era diffuso tra la popolazione il mito di un’Italia «terra della cultura». Venne abilmente instillata la convinzione che bastasse sfruttare i beni culturali del Paese per assicurare a tutti la prosperità. «E pensare che si potrebbe campare soltanto di quello!»: nei bar non si mugugnava altro.

La situazione che si era venuta a creare era perfetta per un cambiamento radicale: masse di disperati da una parte, la speranza dall’altra in una svolta che passasse attraverso il massiccio sfruttamento turistico delle bellezze nazionali. Al momento buono, la trasformazione fu avviata con piglio deciso, e con rapidità tale che in breve tempo divenne irreversibile. Fu varato in pompa magna il «piano di riconversione economica totale» al turismo, che prevedeva innanzitutto il blocco di ogni forma di sostegno e di agevolazione alla produzione di beni e servizi (che non fossero, è chiaro, più o meno direttamente legati all’accoglienza). Fu stilata una lista di attività «tipicamente italiane» da sostenere, legate tutte, più o meno, all’ospitalità.

Si colsero nel giro di qualche anno risultati significativi: un sensibile ampliamento della capacità ricettiva e un deciso miglioramento complessivo dell’offerta (con un exploit nella categoria extralusso); un gagliardo recupero di posizioni nelle classifiche internazionali dei Paesi preferiti dai turisti; un netto incremento dell’occupazione. Certo, aumentarono le importazioni e diminuì drasticamente l’export, che addirittura un tempo, a detta di qualche anziano brontolone, aveva costituito uno degli assi portanti dell’economia nazionale. Il rinnovato entusiasmo planetario per le bellezze italiche, comunque, suppliva ampiamente a questa contrazione.

Conseguenze positive si registrarono anche per il paesaggio e il patrimonio storico-artistico. La popolazione fu conquistata dal fervore per la cura dei propri beni culturali: non molto diversa, a dire il vero, dalla premura con cui si accudisce e si ingrassa un maiale, per poi scannarlo al momento giusto. Sul piano legislativo, si adottarono provvedimenti importanti. Epocale fu la svolta impressa dalla legge «per la semplificazione del patrimonio culturale»: era ora di finirla con un’inutile parcellizzazione e una diffusione capillare delle testimonianze storiche, che portava a disperdere in mille rivoli le risorse e rendeva più difficile organizzare i flussi turistici. Ciò che risultava di maggiore importanza, sulla base di criteri di attrattività, veniva preservato ed esaltato; il resto si poteva (anzi, in alcuni casi, si doveva) trattare in maniera molto più sbrigativa.

Ci furono chiese che vennero tutelate e i relativi conventi che subirono l’abbattimento; e conventi che, al contrario, furono salvati (e trasformati in lussuosi resort), mentre le chiese adiacenti, bruttine e senza opere di grido, lasciarono il posto a graziose aree verdi. Anche nel campo del restauro vennero introdotte importanti novità. Su tutte, le norme relative al «restauro visibile»: basta con quei lavori certosini, anzi maniacali, che sequestravano le opere per anni e al termine dei quali il dipinto era uguale a prima. Occorreva che il restauro risultasse ben ‘palpabile’, una volta concluso: fu un fiorire di colori elettrici, di mani, teste, piedi che (ri)apparivano su tavole e tele. Nell’ambito del restauro architettonico, merita menzionare la legge n.° 412 sul «restauro attraente»: mica potevamo continuare a farci ridere dietro dal mondo per quelle facciate screpolate, per tutti quei ciuffi d’erba, e i colori stinti…

E poi c’era da considerare che molti dei nostri visi-benefattori provenivano da nazioni come la Cina e la Russia, che avevano una concezione del tutto diversa in merito al passaggio del tempo sugli edifici, e dunque era doveroso cercare di andare incontro al loro gusto, adattandoci un po’. La nuova teoria del restauro, la cosiddetta «teoria del Come Nuovo», fu ufficialmente adottata dallo Stato, che puniva severamente chi non vi si attenesse: le facciate divennero sempre più linde e pinte e sgargianti, i pezzi che mancavano venivano rifatti con gran disinvoltura. A suggellare il nuovo corso, una celebre star della televisione, ormai ultracentenaria, ma sempre levigatissima, fu nominata presidentessa onoraria dell’Istituto Centrale per il Restauro.

Come in ogni rivoluzione, anche la scuola andò incontro a profondi cambiamenti. I programmi scolastici ‘di prima’ vennero giudicati obsoleti e inutilmente complicati per le giovani menti; si privilegiarono alcuni momenti della Storia, attorno ai quali si intendeva costruire la nuova identità del Paese e sui quali si voleva fondare la «grande opera di valorizzazione». Il Rinascimento, prima di tutto: visto come un’epoca di ripiegamento e di nostalgia, in cui si ambiva a vivere, proprio come adesso, del proprio passato. I soliti, sparuti vecchi brontoloni sostenevano che le cose non stavano proprio così, ma tanto nessuno stava ad ascoltarli.

Dal Rinascimento si giungeva, attraverso la lunga epopea del Grand Tour, alla Dolce Vita, la vera antesignana dei tempi presenti, paradiso in terra per tanti illustri ospiti impegnati in spensierate «vacanze romane». I barbogi asserivano che anche questo fu un momento meno semplice di quanto si volesse dare a credere, che alle spalle aveva una stagione di straordinario sviluppo industriale e tecnologico, da loro evocata con accenti mistici come il «miracolo italiano». Mah, io non ci credo, ci venivano allora per lo stesso motivo per cui ci son sempre venuti da noi, gli stranieri: è un posto splendido per passare le vacanze.

Tutto procedeva, dunque, per il meglio. Si era messo in piedi un mix micidiale di bellezza, di gastronomia, di buon vivere, cui era impossibile dire di no. Al successo commerciale, sul piano internazionale, si sommava un consenso interno sempre più impressionante, al punto che si moltiplicarono le proposte per marcare con forza il fatto che il Paese era entrato in una nuova era. Ci fu chi addirittura propose di mutare nome all’Italia, dotandola di un marchio più competitivo (ricordo tra le tante idee quella di ribattezzarla Arcipelago Italiano, secondo me non era male, in fondo un bel po’ di isole, tra grandi e piccole, le abbiamo); altri proposero di cambiare il primo articolo della Costituzione, sostituendo alla parola «Repubblica» la parola «resort». Ma su questi punti non si raggiunse un accordo. Si riuscì comunque a cambiare l’articolo, che con universale soddisfazione assunse questa veste: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul turismo».

Niente sembrava poter arrestare il mix micidiale di bellezza, di gastronomia, di buon vivere. E, naturalmente, di sole. Quell’anno, però, piovve. Non che prima non fosse mai piovuto, eh, o che si fosse messo a piovere ogni santo giorno. Ma piovve mostruosamente più del solito, senza alcun riguardo alle stagioni, ai giorni feriali e festivi, ai ponti e alle vacanze scolastiche. Pioveva, poi smetteva, una breve tregua, e poi ricominciava: impossibile programmare una vacanza decente. Iniziarono a fioccare le disdette.

Di fronte all’imprevisto, il Paese cadde preda dello smarrimento: se il presidente e il Ministro del Turismo tuonavano contro il «complotto dei meteorologi», il popolo rispolverò una religiosità che, tra reception e ristorantini, si era andata raffreddando, e si affidò all’intercessione delle sacre immagini, sempre più spesso portate in processione per propiziare un cielo assolato. Quando i brontoloni, sempre più vecchi e un po’ meno sparuti, fecero notare che si reagiva così anche molti secoli prima, in tempi assai meno progrediti, la massa accolse le loro osservazioni come un attestato del carattere «tipicamente italiano» di quelle manifestazioni, e con più grande fervore Santi e Madonne furono condotti a sfidare la pioggia battente.

Sul volto del Presidente del Consiglio, sempre paffuto ma ormai crettato dalle rughe, si disegnò un’espressione mista di stupore e rabbia quando ebbe tra le mani un’informativa dei servizi, nella quale si iniziava a gettare un po’ di luce sulla faccenda. Quel tempo assurdo non era dovuto a cause naturali: qualcuno, presumibilmente uno Stato concorrente, aveva creato un mastodontico sistema per modificare il clima, garantendo per sé il bel tempo e concentrando sulla Penisola una ressa di nubi minacciose. Un sistema complicatissimo, fatto di specchi, sostanze, emissioni di onde, di cui si stava ancora cercando di capire il funzionamento. In un secondo rapporto, il meccanismo veniva spiegato con maggiori dettagli: ma il presidente non prestò loro grande attenzione. Un po’ perché di queste cose scientifiche capiva poco, un po’ perché i suoi occhi si inchiodarono su un altro punto: non solo si era riusciti a capire qual era il Paese che aveva escogitato quell’infernale marchingegno, ma soprattutto era stato individuato lo scienziato che ne era l’inventore. Un ragazzo! Più che dall’età del giovane, però, il presidente fu colpito dal suo cognome: cinque semplici lettere «tipicamente italiane», precedute da un nome che era invece, senza dubbio, d’Oltralpe.

Il presidente aveva già intuito, e trovò qualche riga più sotto la conferma della sua intuizione: anche il padre del mago della pioggia era stato uno scienziato, un brillantissimo studente e poi un valido ricercatore, il cui percorso si era però bruscamente interrotto poco prima dei quarant’anni. Costretto a lasciare l’Italia, una carriera luminosa lo attendeva all’estero, dove poco dopo mise su famiglia, trasmettendo al primogenito la passione per la ricerca. Il presidente abbassò il foglio, sollevò lo sguardo: da qualche istante aveva ricominciato a piovere.

29.06.2015

Fabrizio Federici

Fonte: http://www.minimaetmoralia.it

 


 

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