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Non è mai stata una terra ‘semplice’ da gestire per gli Stati Uniti: il Dakota infatti, ha sempre dato non pochi grattacapi ai vari governi federali sin dall’inizio, tanto che al Senato a suo tempo, proprio l’atto del 2 novembre 1889 (che ha sancito il passaggio con Washington di Nord e Sud Dakota) è stato segretato in alcune sue parti per via del timore di scontri e disordini dovuti alla rivalità tra gli abitanti dei due nuovi stati: se i residenti del Nord avessero scoperto di essere stati inclusi negli USA dopo i ‘cugini’ del Sud, sarebbe stata rivolta.

 

 

Una terra quindi che, tra rivalità e rivendicazioni, ha sempre dato filo da torcere alle autorità centrali, lo dimostrano anche le cronache di inizio ‘900 quando parlano dell’avanzata del ‘populismo’ del ‘NPL’ (costola del futuro Partito Democratico) contro la corruzione dilagante in questo Stato per via di gestioni poco limpide delle proprietà terriere; questo dà uno spaccato della storia e dell’anima del Nord e del Sud Dakota, e questo ben si ricollega alle storie dei giorni nostri: prima di esploratori francesi, trattati franco–spagnoli e colonizzatori europei, queste terre erano cuore e fulcro di tante civiltà dei nativi americani che qui in parte sono rimasti (se è vero che nel 2005 la loro popolazione costituiva il 5% del totale di quella del Nord Dakota), e da diversi mesi si oppongono con fierezza alla costruzione di nuovo grande oleodotto. La storia di diverse centinaia di tribù di nativi americani accampati presso la riserva di Standing Rock, al confine tra Nord e Sud Dakota, non sta solo ricevendo plauso e sostegni dei gruppi ambientalisti, ma sta riuscendo a polarizzare anche l’attenzione di chi nel resto degli Stati Uniti e non solo vuol rivendicare la lotta per riaffermare la propria identità. L’oleodotto in questione si chiama ‘Dakota Access’, dovrebbe attraversare quattro stati e portare petrolio e gas fino all’Illinois; un progetto che sta curando una società texana, che al momento ha sospeso i lavori proprio per via delle proteste, le quali sono dilagate quando gli indiani d’America hanno iniziato a sostenere le proprie ragioni: sotto quelle terre dove dovrebbero passare tubi e strumentazioni varie, vi sono le radici del loro popolo, vi sono sepolti i propri avi, ogni zolla della riserva tra i due Stati del Dakota assume un vero e proprio elemento sacro per la loro identità e dunque le tribù da lì non se ne andranno. All’inizio sembrava quasi una causa come altre in un’America in cui non passa giorno nel quale non si hanno notizie di proteste da parte di minoranze o di episodi di cronaca finiti nel sangue; invece, a poco a poco, le tribù native sono riuscite a trasformare la loro lotta in un movimento volto a riaffermare i propri valori, un qualcosa quindi che va ben oltre le semplici ragioni ambientaliste. A conferma di tutto ciò, è anche l’aiuto offerto da un gruppo di cittadini ‘insospettabili’:

I veterani di guerra. In particolare, 3.500 militari veterani delle ultime guerre combattute dagli USA hanno deciso di unirsi alla protesta e di proteggere l’accampamento dove sono insediati i rivoltosi indiani d’America; a capeggiare la fronda di veterani vi è Wesley Clark jr, figlio del generale che ha comandato la missione degli Stati Uniti nei Balcani negli anni ’90. A prima vista, può sembrare un’inedita alleanza, specie a chi conosce il nome di diverse tribù americane grazie ai film ambientati durante la conquista dell’Ovest: l’esercito a suo tempo, ha contribuito allo sterminio di gran parte della popolazione ‘pellerossa’ e di numerose tribù di nativi, adesso dei veterani invece corrono in soccorso delle proteste dei discendenti. In realtà però, la mossa non sorprende affatto: in primo luogo, l’accampamento dei manifestanti sorge proprio in un terreno di proprietà dell’esercito, il quale già dai primi giorni di protesta avrebbe quindi potuto far sgomberare l’area ma non ha mai proceduto in tal senso; in secondo luogo, le ragioni alla base della mossa dei veterani di guerra risiedono nella volontà di far rispettare i principi della Costituzione: “Ufficialmente il governo federale non ha preso posizione sulla vicenda e non ritiene quindi ingiuste le proteste dei nativi americani – affermano i rappresentanti dei veterani – Per cui non è legale usare la forza e se la Polizia minaccia lo sgombero noi faremo da scudo”. In effetti, l’uso di spray e manganelli di qualche settimana fa è stata una mossa pianificata dalle autorità locali e che, tra le altre cose, ha ricevuto un coro di proteste in seno all’intera opinione pubblica del paese. Purtuttavia, secondo i governatori di Nord e Sud Dakota, lo sgombero dell’accampamento dei manifestanti deve avvenire entro pochi giorni per via di ragioni puramente climatiche: “Le temperature a breve saranno ben oltre sotto lo zero, il campo non è affatto abitabile” si legge in una nota uscita dal palazzo del governo di Bismarck, il cui nome evoca la storia tedesca dell’800, ma che in questo caso si riferisce al nome della capitale del Nord Dakota. Nessuno però vuol credere che dietro un eventuale prossimo ordine di sgombero del campo vi siano ragioni per così dire "umanitarie", è per questo che i veterani hanno deciso di vigliare attorno all’accampamento e difendere i nativi americani. Per Washington e' una vera patata bollente, mentre il giorno dell’insediamento di Trump si avvicina ed il nuovo presidente dovrà farsi carico anche di questa situazione. La rivolta degli indiani d’America, il sostegno di parte dell’opinione pubblica e dei veterani dell’esercito USA è sintomo del clima che si respira in un paese attraversato da crisi economica, crisi d’identità, voglie di rivalsa ed antiche rivendicazioni; un clima che ben spiega anche le continue tensioni con la popolazione afroamericana e con le altre minoranze:
nel 2016 molti nodi intricati della storia degli Stati Uniti stanno venendo al pettine, le tribù indiane accampate nel Nord Dakota ne sono emblematica testimonianza.

Fonte: http://www.occhidellaguerra.it

 


 

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