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Genocidio è il tentativo di sterminare, con metodi organizzati, in gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso (dal greco génos, stirpe, donde il latino gens: gente, stirpe, razza). Le odierne leggi internazionali lo puniscono quale “crimine contro l’umanità” (accordo di Londra, 8 agosto 1945), sia nel caso venga commesso nel corso delle operazioni belliche, sia che abbia luogo in stato di pace (convenzione dell’Assemblea generale dell’O.N.U. del 9 dicembre 1948).

La storia antica è ricca di massacri e deportazioni di interi popoli. Nelle sue memorie sulla guerra di Gallia, ad esempio, Giulio Cesare narra senza batter ciglio come tentò di sterminare il popolo degli Eburoni che si era ribellato ai Romani, tentativo coronato da un notevole successo. Tuttavia è nella storia moderna che noi troviamo gli esempi più massicci e sistematici di genocidio.

È noto che un grandissimo numero di popoli amerindiani venne letteralmente sterminato dai conquistatori europei, tanto nel Nord che nel Sud America. In certi casi, le condizioni di vita imposte dai conquistadores erano così intollerabili che interi gruppi tribali ricorsero al suicidio di massa: tale il caso degli Arawak dell’isola di Hispaniola (Haiti) durante il XVI secolo.

Più recentemente, nella Terra del Fuoco gli allevatori bianchi giunsero a iniettare stricnina nelle pecore di cui si cibavano gli indigeni e a sparare a vista contro qualunque Fuegino, anche pacifico, col risultato che già nel 1925 non si contavano più di 190 individui fra Yaghan e Alakaluf, mentre oggi sono del tutto estinti.

Gli abitanti della Tasmania, ai primi dell’800, vennero braccati dagli Inglesi come animali, rastrellati con una gigantesca operazione di polizia da una costa all’altra della grande isola, e deportati in un isolotto dove morirono quasi tutti. L’ultimo tasmaniano morì nel 1876, e il suo corpo, esumato su richiesta della Royal Society, rimase esposto fino al 1976 in una teca del Tasmanian Museum, come un raro pezzo da collezione.

Ma è nel XX secolo che hanno avuto luogo i tentativi più sistematici e sinistramente efficaci di genocidio. Milioni di persone hanno perso la vita nei campi di concentramento hitleriani in Germania e nei Paesi da essa occupati, fra il 1938 e il 1945, e altri milioni nei gulag di Stalin, specie durante la campagna per la collettivizzazione forzata delle campagne, negli anni ’30. Si discute ancora sulle cifre, ma certo si trattò di qualcosa che non si era mai visto prima nella storia dell’umanità, sia per il numero delle vittime che per le modalità “industriali” delle deportazioni e dello sfruttamento della manodopera servile così ottenuta.

C’è poi stato il genocidio dei Tutsi da parte degli Hutu in Ruanda, nel 1994, costato un milione di vittime; quello delle popolazioni negre del Sudan meridionale da parte del governo islamico fondamentalista di Khartoum; e le varie “pulizie etniche” (in pratica, dei piccoli genocidio localizzati) in varie parti della ex Jugoslavia, ad opera sia dei Serbi che dei Croati, negli anni fra il 1991 e il 1999, secondo un copione che era già stato attuato negli anni della seconda guerra mondiale, specie per opera degli ustascia di Ante Pavelic.

Pochi giorni fa (marzo del 2006) ha destato un certo scalpore la notizia della morte in carcere dell’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, processato dal tribunale Internazionale dell’Aja per “crimini contro l’umanità”, specie ai danni degli Albanesi del Kossovo, quando ancora non era stata emessa la sentenza. Bisogna però ricordare che il presidente croato Franjo Tudjman ha avuto analoghe responsabilità per quanto riguarda la “pulizia etnica” delle minoranze serbe in Slavonia e in altre zone della Croazia; e che, nella parte musulmana della Bosnia, le atrocità croate non sono state dissimili da quelle compiute dalle bande nazionaliste serbe.

Tuttavia una parte considerevole dell’opinione pubblica occidentale ignora ancor oggi che durante la prima guerra mondiale ebbe luogo un altro spietato genocidio: quello degli Armeni.

Se oggi si è in parte sollevata la cortina di silenzio che lo avvolgeva, è solo perché l’Unione Europea sta negoziando i preliminari per un futuro ingresso della Turchia, nazione che non ha mai riconosciuto la responsabilità storica di tale genocidio (a differenza di quanto fatto dal governo tedesco nei confronti del popolo ebreo e di Israele, dopo il 1948). Nel 1915-16, infatti, il governo turco di Enver pascià, Talaat e Gemal mise in atto lo sterminio sistematico di qualcosa come 1.500.000 Armeni nell’Anatolia orientale, in Cilicia e in Siria. Un’eco di questa oscura tragedia è stata consacrata alla storia letteraria dal romanzo di Franz Werfel I quaranta giorni del Mussa Dagh.

Altre centinaia di migliaia di Armeni vennero trucidati dopo la guerra, quando non esisteva più nemmeno la copertura delle necessità di difesa nazionale, ad opera non del crollato regime dei Giovani Turchi, ma del “padre della patria” Kemal Atatürk, colui che, avendo avviato il processo di occidentalizzazione del suo Paese, è ancor oggi presentato in modo sostanzialmente positivo in quasi tutti i libri di storia occidentali, a partire dai libri di testo scolastici. A Smirne, mentre l’esercito greco era in fuga, migliaia di civili Armeni (e Greci) vennero bruciati vivi, crocifissi, impalati nel 1922. Scene simili si verificarono in Cilicia subito dopo il precipitoso reimbarco delle truppe francesi, premute dai kemalisti.

Forse è perché una parte di quel genocidio avvenne sotto gli auspici di Atatürk e del suo partito nazionalista, che la questione del riconoscimento delle responsabilità sembra essere passata in seconda linea nell’agenda delle trattative per la futura adesione della Turchia all’Unione Europea; ragioni strategiche sembrano prevalere su ogni considerazione morale, poiché Parigi val bene una messa; cioè non pare il caso di guardar troppo per il sottile, quando sono in ballo ragioni di alta politica internazionale.




L’AFRICA IN RIVOLTA.

Le prime lotte per la libertà e l’indipendenza dei popoli africani vennero combattute fuori dall’Africa. Gli schiavi deportati nel Nuovo Continente per lavorare nelle piantagioni di cotone e di canna da zucchero diedero vita, nel XVII secolo, a numerosi Stati indipendenti o quilombos, nel Darien, in Brasile e altrove. Celebre fra tutte la cosiddetta Repubblica di Palmares, governata in realtà da Zumbi, un sovrano di notevole statura politica: quando venne distrutta dai bandeirantes paulistas (cacciatori di schiavi della città di San Paolo), nel 1697, essa aveva raggiunto un alto grado di organizzazione sociale e contava una popolazione di circa 20.000 anime. Nell’isola di Haiti, gli ex schiavi negri raggiunsero definitivamente l’indipendenza al principio del XIX secolo, dopo le audaci campagne che valsero all’eroe nazionale Toussaint Louverture l’appellativo di “Napoleone nero”.

L’Africa sub-sahariana non subì l’urto massiccio del colonialismo che verso la fine del XIX secolo. Prima della Conferenza di Berlino (1884-85) erano pochi e piccoli gli insediamenti europei sul continente, ad eccezione dell’Algeria e del Sudafrica. Ma dopo il 1880 si scatenò in tutta la sua violenza la corsa all’accaparramento coloniale. Indeboliti dalla secolare emorragia della tratta, divisi e discordi tra loro, ignari della civiltà europea e delle sue astuzie, i popoli africani dapprima non offrirono quasi resistenza. Innumerevoli trattati di protettorato vennero firmati da capi indigeni, raggirati dall’offerta di doni risibili.

Fu solo verso il 1890 che gli Europei vennero a contatto con gli Stati più solidi e agguerriti dell’interno: i Francesi con il sultanato di Rabah nel Ciad, gli Inglesi con il regno mahdista del Sudan, gli Italiani con l’Impero cristiano d’Abissinia. In questa fase, un po’ tutte le colonie vennero altresì scosse da una serie di violente sollevazioni, poiché i popoli africani “sottomessi” cominciavano a reagire alle catastrofiche conseguenze socio-economiche della dominazione europea.

La rivolta degli ottentotti Nama e dei bantù Ova Herero nell’Africa Sud-occidentale tedesca rientra in questo complesso movimento storico, del quale presentiamo qui un veloce sommario cronologico.

1888-89: rivolta di Abushiri nell’Africa Orientale Tedesca.
1889-94: resistenza del re Behanzin ai Francesi nel Dahomey.
1890-98: resistenza dei Bunyoro agli Inglesi in Uganda.
1891-98: rivolta degli Hehe nell’Africa Orientale Tedesca.
1891-1920: guerriglia di Mad Mullah contro Italiani e Inglesi in Somalia.
1896:battaglia di Adua; rivolta dei Matabele e dei Mashona contro gli Inglesi in Rhodesia
1897-1900: lotta di Rabah contro i Francesi nel Ciad.
1898: distruzione del regno mahdista da parte degli Anglo-Egiziani.
1898-1904: ribellioni e guerriglia nel Madagascar contro i Francesi.
1900: rivolta degli Ashanti contro gli Inglesi nella Costa d’Oro.
1904: rivolta di Anyang contro i Tedeschi nel Camerun.
1905, 1908: rivolta dei Gusii contro gli Inglesi nel Kenya.
1905-1907: rivolta dei Maji Maji nell’Africa Orientale Tedesca.
1906: rivolta degli Zulu contro gli Inglesi nel Natal.
1909-1912: campagna francese contro il sultanato dell’Ouaddai.
1911-1917: resistenza dei Tutsi e degli Hutu contro Inglesi e Tedeschi nel Ruanda.
1913: rivolta contro i Portoghesi in varie zone dell’Angola.
1915: ribellione di Chilembwe contro gli Inglesi nel Nyasaland.



IL COLONIALISMO TEDESCO.

La Germania del XIX secolo arrivò buon’ultima sulla scena della spartizione coloniale, poiché fin verso il 1880 il cancelliere Bismarck aveva avversato ogni idea di espansione oltremare. Egli considerava sostanzialmente inutile all’economia tedesca e troppo dispendiosa l’acquisizione di colonie, nonché pericolosa per il mantenimento dei buoni rapporti con la Gran Bretagna (tutte previsioni che si sarebbero dimostrate esatte). Ma quando la spartizione dell’Africa era già quasi compiuta, gli ambienti pangermanisti – sostenuti dalla finanza e dalla marina – esercitarono delle pressioni così forti che Bismarck, assecondando i nuovi sentimenti dell’opinione pubblica, gettò frettolosamente la Germania nella corsa all’accaparramento delle ultime colonie, sancita dalla Conferenza di Berlino del 1884-85.

In Africa venne dichiarato il protettorato tedesco sull’Africa Sud-occidentale, sul Togo e sul Camerun (1884), indi sull’Africa Orientale tedesca (agosto 1885). Nell’Oceano Pacifico furono occupate la Terra dell’Imperatore Guglielmo (Kaiser Wilhelmsland) nella Nuova Guinea, e l’Arcipelago delle Bismarck (dicembre 1884), poi le Isole Marshall (1884-85); infine le Marianne, le Caroline e la Palau, acquistate dalla Spagna dopo l’esito disastroso della guerra ispano-americana, nonché le Samoa occidentali, dopo un trattato di spartizione con gli Stati Uniti d’America (1899). In Estremo Oriente, venne occupato il porto di Kiaochow, strappandolo alla sovranità del governo cinese (1898).

Tutte queste operazioni, condotte in fretta e furia nella scia di missioni religiose tedesche e di preesistenti iniziative di case commerciali (la Woermann di Amburgo era stabilita nel Camerun fin dal 1868; la Missione Renana era presente nel Sud-ovest africano fin dal 1847), furono caratterizzate da un minimo impiego di forze militari e da un’estrema arroganza diplomatica. Vi furono momenti di grave tensione con le altre potenze imperialiste, mentre i popoli indigeni, sul momento, non manifestarono serie reazioni. In particolare, la politica coloniale tedesca giunse a sfidare apertamente la Spagna (1886, azione nelle Marianne), gli Stati Uniti (nel 1902, con la crisi del Venezuela) e la Francia (nel 1905 e nel 1911, con le due crisi marocchine che per poco non affrettarono lo scoppio di un conflitto generalizzato, cui si arriverà nel luglio-agosto 1914, dopo l’eccidio di Sarajevo).

Nel governo dei popoli indigeni la Germania, che non disponeva di una tradizione amministrativa coloniale, diede prova di una singolare incomprensione delle realtà locali. I suoi funzionari, ad esempio, ritenevano che ogni tribù dovesse vivere entro confini ben precisi, e non capivano che in Africa la vita sociale è sempre stata caratterizzata, per motivi ambientali ed economici, da una estrema mobilità delle popolazioni. (“In Africa non esistono confini, nemmeno tra la vita e la morte”, scriveva il poeta Leopold Sedar Senghor, portavoce della negritudine). In particolare, nell’Africa Sud-occidentale il tentativo tedesco di avviare una macchina amministrativa efficiente, sul modello europeo, si scontrò con l’esigenza dei popoli allevatori di spostarsi liberamente attraverso la steppa, alla ricerca di nuovi pascoli. Così, verso il 1888, ebbe inizio un periodo di violente insurrezioni indigene, che si protrasse fino alla grande sollevazione degli Herero e dei Nama nel 1904-07.

Nel frattempo, l’illusione di Bismarck che le colonie potessero venire amministrate dalle stesse compagnie commerciali era stata smentita, e lo Stato tedesco aveva dovuto assumersi in prima persona il loro governo, con un notevole onere finanziario per il contribuente. L’impero coloniale tedesco, che l’opinione pubblica pangermanista aveva voluto sia per motivi di prestigio, sia come sbocco ai capitali e all’emigrazione dalla madrepatria, si rivelava al contrario un peso morto per le finanze del Reich, e una fonte di sempre nuove spese.

Nessun flusso migratorio si indirizzò verso le colonie in sostituzione di quello tradizionale verso il Brasile e verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 esse ospitavano meno di 25.000 tedeschi, comprese le forze armate, su una superficie totale di circa 2,5 milioni di kmq. e una popolazione di 15 milioni di abitanti. Solo nell’Africa Sud-occidentale si stabilì un compatto nucleo di coloni tedeschi (6.000 uomini atti alle armi nel 1914), i cui discendenti costituiscono ancora oggi, accanto a Britannici e Boeri, una delle tre componenti della popolazione bianca, e sono attaccatissimi alle loro antiche tradizioni.



UNA POLITICA MILITARE INCONTINENTE E IMMORALE.

Arrivata ultima sulla scena della spartizione coloniale, la Germania aveva dovuto accontentarsi di quel che era rimasto, ma le sue aspirazioni andavano ben oltre. Specialmente durante la guerra mondiale 1914-1918 la Società Coloniale, lo Stato Maggiore dell’esercito e della marina e gli ambienti dell’alta finanza elaborarono una serie di piani coloniali così smisuratamente ambiziosi, che si decise di non renderli mai di pubblico dominio. In base a questi piani, un enorme territorio dell’Africa centrale, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, avrebbe dovuto costituire un Impero tedesco, autosufficiente anche sul piano militare.

La stessa aggressività sfrenata e incontrollabile dimostrò la Germania nei confronti delle popolazioni indigene sottoposte. Celebre, ad esempio, è rimasto il discorso tenuto dall’imperatore Guglielmo II alle truppe in partenza perla guerra dei Boxers, il 27 luglio 1900, a Bremerhaven: “… non ci sarà clemenza e non verranno fatti prigionieri. Chiunque cade nelle vostre mani, cade sotto la vostra spada! Come mille anni fa gli Unni sotto il loro re Attila si sono fatti un nome che gli uomini ancora rispettano, possa ora per opera vostra il nome di ‘tedesco’ affermarsi per millenni in Cina, tanto che nessun Cinese, con gli occhi a mandorla o no, possa più osare guardare un tedesco in faccia.”

Quando ebbe inizio l’ondata delle rivolte dei popoli coloniali, il governo tedesco reagì con una brutalità straordinaria, deciso a infliggere loro una “lezione” memorabile. “L’imperialismo tedesco – ha scritto uno storico sovietico – … soffocava le insurrezioni dei popoli africani con tanta ferocia che la sua giustificazione si riduce al fatto che i suoi avversari, l’Inghilterra e la Francia avevano adottato in casi analoghi gli stessi metodi, cioè il completo sterminio fisico degli insorti. In un quarto di secolo di dominio nelle colonie africane… è riuscito a distruggere una serie di tribù tra cui, come è noto, la grande tribù degli Herero.”

È importante comprendere che non si arrivò al genocidio degli Herero in maniera improvvisa e inaspettata. I rappresentanti del potere coloniale tedesco, ogni qualvolta si trovavano in difficoltà, facevano ricorso al terrore. L’inumano ordine di sterminio emesso nel 1904 non fu che la naturale conclusione di tutto un modo di procedere verso i popoli extraeuropei. Dobbiamo pertanto riconoscere nel genocidio degli Herero il risultato di una politica militare incosciente e immorale, in cui l’autentico spirito militare – come scrisse un autore tedesco in altra circostanza – era stato ormai orribilmente deformato.



GLI HERERO: CHI ERANO.

Il popolo degli Herero, appartenente alla grande famiglia linguistica bantu, giunse nel territorio della odierna Namibia nel XVII secolo, dopo una lunghissima migrazione che ebbe origine, probabilmente, dalla regione dei Grandi Laghi. Nel Sud-ovest africano essi vennero ripetutamente a conflitto con le popolazioni boscimano-ottentotte, e specialmente con il gruppo ottentotto dei Nama, in mezzo alle quali si stabilirono, formando l’isola bantu più meridionale dell’intera regione. Il territorio da essi occupato andava dal massiccio del Kaokoveldt, che si affaccia sulla costa atlantica sino all’altezza di Capo Frio, alla regione ove sorge Windhoek. Verso nord confinavano – e confinano a tutt’oggi – col popolo degli OvAmbo, ad essi apparentato, e stanziatosi a cavallo della frontiera con l’Angola.

Gli Herero erano un popolo di allevatori, e i loro bovini, che avevano anche un valore sacrale, erano celebri in tutta l’Africa meridionale. Altrettanto celebre era la perizia dei pastori herero nel trovare sorgenti d’acqua per i loro armenti, anche in piena steppa semidesertica. I conflitti con i loro vicini, e specialmente con i Nama che abitavano immediatamente più a sud, erano originati appunto dalla necessità di assicurarsi le terre da pascolo dell’altopiano centrale (Damaraland). I Nama lavoravano il ferro e la ceramica, erano cacciatori e soprattutto allevatori di ovini e bovini. Sotto la guida del loro capo Jonker Afrikaaner, essi presero il sopravvento sugli Herero negli anni 1835-1860, li sottomisero e occuparono i pascoli della regione centrali.

A complicare le cose, vi fu, a partire dalla metà del XIX secolo, una immigrazione di altre genti ottentotte provenienti dalla Colonia del Capo, le quali volevano sottrarsi alla dominazione europea. Si trattava di gruppi anch’essi interessati all’acquisizione dei pascoli sull’altipiano centrale, che presto si imposero tanto ai Nama che ai Bastardi della regione di Rehoboth (una tribù migrata anch’essa da oltre il fiume Orange, e formata da mulatti ottentotto-asiatici; chiamati, questi ultimi, dalla Compagnia delle Indie Orientali a popolare la Provincia del Capo).

Jonker Afrikaaner morì nel 1861 e il nuovo capo dei Nama, Hendrik Witbooi, non riuscì ad impedire che gli Herero cogliessero il momento favorevole per insorgere e liberarsi dalla sudditanza in cui erano caduti. Seguì un periodo di lotte fra i due popoli che durò fino al 1870, e poi ancora dal 1880 al 1892: lotte molto sanguinose poiché erano combattute con armi da fuoco, acquistate dai commercianti bianchi. In questa fase gli Herero avevano trovato un capo prestigioso nella persona di Tjamuha Maharero e poi di suo figlio, Samuel Maharero. Fu allora che si diedero un’organizzazione politica fortemente centralizzata, mentre prima vivevano raggruppati in entità minori.

Fino a quel momento, solo un piccolo numero di Europei – missionari e contrabbandieri – si era stabilito nell’Africa sudoccidentale. Nel 1878 gli Inglesi del Capo avevano occupato la Baia della Balena, con la tiepida autorizzazione del governo di Londra. L’insediamento nella baia di Angra Pequeña di un commerciante di Brema, F. A. E. Lüderitz, che l’acquistò da un capo indigeno insieme alla regione circostante (primavera 1883), offrì al cancelliere Bismarck l’occasione di agire. Egli dichiarò, il 24 aprile 1884, che il Governo tedesco assumeva direttamente la protezione delle aziende di Lüderitz, e nell’agosto-settembre, con due successivi proclami, dichiarò il protettorato germanico sull’intera regione posta tra i fiumi Orange, a nord (che segnava il confine con l’Angola portoghese), e Cunene, a sud (che segnava il confine con la britannica Colonia del Capo).



LA DOMINAZIONE TEDESCA.

La Germania aveva ottenuto il riconoscimento internazionale del suo protettorato, pur non avendo occupato effettivamente il territorio in questione. Tuttavia, la penetrazione tedesca dalla costa verso l’interno progredì rapidamente, grazie anche alla rivalità che divideva le popolazioni indigene, i cui capi vennero indotti a firmare separatamente dei trattati di sottomissione. Per questi avvenimenti noi possediamo non solo la documentazione dei colonialisti bianchi ma anche, caso pressoché unico, una fonte africana di primissima mano: il diario di Hendrik Witbooi. Poichè a quell’epoca gli Herero si trovavano in difficoltà nella lotta contro i Nama, loro tradizionali avversari, il loro capo accettò senza resistenze il protettorato tedesco, nel 1885. Il loro gruppo, a quel tempo, era composto di circa 85.000 individui, mentre una stima del 1966 ne calcolerà non più di 40.000.

Subito dopo, ebbe inizio la tragedia. Una schiera di coloni tedeschi si affacciò sull’altopiano centrale ove fu costruita Windhoek, la capitale, a 1.680 metri d’altitudine, in perfetto stile architettonico bavarese. Con l’aiuto del governo coloniale, e nonostante le proteste di alcuni missionari, essi espropriarono a ritmo febbrile sia le terre che le mandrie di bestiame degli Africani. Le basi economiche della società indigena vennero distrutte e agli Herero – come del resto ai Nama – non restò altro da fare che passare al servizio dei proprietari terrieri bianchi, dei commercianti, dell’esercito d’occupazione (come scouts, perché in questa colonia il Reich non si fidava ad arruolarli come truppe di linea), e delle missioni.

Una epidemia di peste bovina, scoppiata nel 1897, peggiorò ulteriormente la situazione , falcidiando gli armenti ancora in possesso degli indigeni e riducendo questi ultimi alla disperazione. Né essi potevano ripiegare, come altre volte in passato, sulla tradizionale agricoltura di sussistenza, poiché tutte le terre fertili erano state occupate dai coloni tedeschi. Non rimaneva loro che l’alternativa di soccombere lentamente o ribellarsi finché ne avevano la forza: ed essi scelsero la seconda.

La storia dell’Africa Sud-occidentale tedesca è una storia scritta col sangue, intessuta di lotte quasi continue. La brutalità e l’incompetenza dei funzionari governativi erano tali, che praticamente tutte le tribù indigene finirono per sollevarsi. Perfino la tradizionale ostilità fra gli Herero ed i Nama venne meno, e i due popoli furono indotti a coalizzarsi contro l’intollerabile dominazione tedesca.

Il segnale della rivolta venne dato dagli ottentotti Nama, il cui capo Witbooi, sconfitto, dovette sottomettersi e si ridusse a collaborare, sia pure per pochi anni, con i Tedeschi. Due anni dopo, nel 1896, insorsero gli Herero; repressi, fu la volta dei Nama e degli Herero coalizzati.

Questa prima azione comune dei due popoli venne rapidamente soffocata nel 1900 dai Tedeschi, i quali soltanto in questa colonia si servivano esclusivamente di truppe europee (soprattutto cavalleria e speciali reparti cammellati), segno questo evidente di quanto impopolare fosse il loro governo fra tutti i nativi. Fu quindi la volta dei Bondei (Bondelswart), il cui tentativo insurrezionale venne schiacciato nel 1903-04. Basterebbe questo elenco di insurrezioni contro il regime coloniale, per dimostrare come esso venisse giudicato un pericolo mortale da tutte le popolazioni indigene.

L’illusione che la Germania avrebbe saputo “pacificare” il territorio, facendo cessare le lotte tribali e aprendolo ai supposti benefici della “civiltà” (“The white man’s burden”, ossia il fardello dell’uomo bianco, scriveva il poeta inglese Rudyard Kipling), era stata tragicamente smentita dai fatti. Tuttavia le autorità coloniali non seppero far tesoro di queste sanguinose esperienze e proseguirono nella loro opera di sistematica espropriazione delle terre e delle mandrie degli Africani. Gli avvenimenti del 1904, pertanto, non si può dire che giungessero imprevedibili; al contrario, il rifiuto del governo tedesco di prendere in considerazione le cause economiche dello scontento, fu direttamente all’origine del nuovo scoppio di violenza e della conseguente, drammatica repressione.



LA GRANDE INSURREZIONE DEL 1904.

Il malcontento e l’esasperazione degli Herero erano giunti al grado più acuto nel corso del 1903. A coronamento di una lunga serie di soprusi e inutili atti di violenza, i Tedeschi avevano abbattuto gli “alberi sacri” del cimitero herero di Okahandja, per costruire al posto di quest’ultimo una fattoria di coloni. Oramai gli Herero, popolo fiero e bellicoso, non aspettavano altro che un’occasione favorevole per insorgere contro gli odiati dominatori. E l’occasione, finalmente, venne.

In quell’anno la tribù ottentotta dei Bondei, stanziata nel mezzogiorno della colonia, in prossimità del fiume Orange, si era ribellata violentemente ai Tedeschi. Il governatore Theodor Leutwein – che era un militare, tenente colonnello dell’esercito – avviò prontamente il grosso delle forze di cui disponeva in quella direzione. Le truppe tedesche debellarono nel sangue la resistenza dei Bondei, ma per poter fare ciò commisero l’imprudenza di sguarnire eccessivamente la regione centro-settentrionale. Ai primi del nuovo anno, la loro presenza militare a nord di Windhoek apparve così tenue e indebolita, che gli Herero compresero esser quella un’occasione forse irripetibile per attaccarli.

Il 14 gennaio 1904 essi insorsero per la terza volta, con un furore che colse impreparati i loro dominatori. Centoventitrè tedeschi, fra soldati, commercianti e coloni, si lasciarono sorprendere e uccidere dagli indigeni; donne e bambini, però, non vennero toccati. A Waterberg un intero presidio militare venne annientato. Fatto degno di nota, né i pochi coloni britannici né quelli di origine boera subirono molestie da parte degli insorti: l’odio di questi ultimi era diretto unicamente contro i cittadini del Reich germanico. La linea ferroviaria d’interesse strategico, che le autorità coloniali avevano fatto costruire tra Windhoek e Swakopmund (il porto principale della sezione costiera centrale, poco a nord della Baia della Balena), venne distrutta in parecchi punti. Di conseguenza, le comunicazioni fra la colonia e il mondo esterno vennero temporaneamente interrotte, e per alcuni mesi Samuel Maharero assunse il controllo de facto di vaste regioni centro-settentrionali.

In questa prima fase della guerra, l’esercito tedesco presente nella colonia era stato ripetutamente battuto in campo aperto e, infine, praticamente accerchiato dagli insorti a Oviumbo, di dove aveva potuto sganciarsi e battere in ritirata solo con estrema difficoltà. Il governatore Leutwein dovette mettersi completamente sulla difensiva nella zona attorno a Windhoek, limitandosi ad aspettare l’arrivo dei rinforzi dalla madrepatria. Nondimeno egli trascorse delle settimane drammatiche: quasi tutta la regione a nord della capitale era di fatto perduta per i Tedeschi, e i loro coloni – deposta l’usuale arroganza – vivevano nel terrore. Fu solo il volontario ripiegamento degli Herero sul massiccio montuoso del Waterberg (a sud-est dell’area paludosa dell’Etosha Pan) che rimosse la minaccia gravante sulla stessa capitale.

Se i Nama di Witbooi avessero colto il momento favorevole per insorgere a loro volta, ai Tedeschi sarebbe stato assestato un colpo decisivo. Ma l’azione fra i due popoli non era stata ben concertata, o forse pesarono negativamente le antiche inimicizie tribali, col loro retaggio di rancori e diffidenze reciproche. Al governo coloniale venne lasciato il tempo di riorganizzarsi, di far affluire rinforzi e, poi, di passare alla controffensiva. Solo quando gli Herero erano già stati decimati, gli Ottentotti presero le armi a loro volta: così i Tedeschi poterono affrontare i due popoli separatamente, e sconfiggerli in maniera definitiva.

Nel corso della primavera e dell’estate furono fatte affluire numerose truppe dalla Germania, in vista di una vasta operazione repressiva, per un totale di circa 20.000 uomini, dotati di molta artiglieria da campagna. I rinforzi sbarcarono nella colonia fra l’11 giugno e il 20 luglio. Il comando venne affidato a un militare che di repressioni se ne intendeva, avendo in precedenza schiacciato spietatamente la rivolta degli Hehe nelle regioni centrali del Tanganica (1891-98), e avendo partecipato alla durissima campagna contro i Boxers in Cina, nel 1900. Era il generale di fanteria Lothar von Trotha, un prussiano dal pugno di ferro, nato a Magdeburgo il 3 luglio 1848 e che aveva, dunque, all’epoca soli cinquantacinque anni, un’età relativamente giovane per un grado così elevato.

Particolare significativo, la campagna contro gli Hehe del Tanganica era stata da lui “brillantemente” conclusa con l’invio in Germania della testa mozza del capo africano ribelle, Mkwawa (è vero che una barbarie analoga fu commessa, dopo la battaglia di Omdurman contro i Dervisci del Sudan, dall’inglese lord Kitchener, che aveva spedito a Londra la testa del Mahdi, dopo aver fatto profanare il suo sepolcro, nel 1898). Al fianco di von Trotha troviamo, nell’Africa Sud-occidentale tedesca, un giovane ufficiale trentaquattrenne di belle speranze, Paul von Lettow-Vorbeck, che nel 1906 verrà ferito gravemente a un occhio e rimpatriato in Germania, mentre nel 1914-18 sarebbe divenuto famoso per la sua abile difesa dell’Africa Orientale Tedesca contro le truppe dell’Intesa.

Il piano di von Trotha consisteva nell’accerchiamento degli Herero, da effettuarsi con gli ottimi squadroni di cavalleria di cui disponeva, al fine di catturare l’intero gruppo. Esso era favorito dalla natura aperta e semidesertica della regione, che non si prestava assolutamente ad operazioni di guerriglia da parte degli insorti; e lo fu ancor di più dall’incauto concentramento degli Herero vicino ai pozzi del fiume Hamakari, imposto dalla necessità di disporre di acqua fresca per quella massa di persone.

Gli indigeni erano appesantiti dalla presenza non solo delle donne e dei bambini, ma anche dalle mandrie di bovini, che costituivano la loro indispensabile fonte di vettovagliamento: e fu allora che i Tedeschi colsero l’opportunità di attaccarli sulle ali (agosto 1904).

Si ingaggiò un’aspra battaglia; nonostante l’enorme sproporzione esistente in fatto di armamento, gli Herero riuscirono sostanzialmente a far fallire gli ambiziosi piani dell’avversario e, pur subendo perdite pesantissime, ad aprirsi un varco in direzione est, vanificando la manovra avvolgente. Subito i Tedeschi si lanciarono all’inseguimento (13 agosto), impiegando largamente i fucili a ripetizione “Krupp” e le mitragliatrici “Maxim”.

La ritirata degli Herero finì per trasformarsi in un terribile olocausto. Premuti dalla cavalleria tedesca che li braccava senza pietà, esaurite le munizioni, tormentati dalla sete e dal sole implacabile, molti di loro trovarono la morte nel deserto dell’Omaheke, a est delle paludi dell’Etosha (settembre-ottobre).

Solo una piccola parte di essi, col loro capo Samuel Maharero, riuscirono a mettersi in salvo, attraversando la frontiera col Bechuanaland britannico (l’odierno Botswana). E lì furono costretti a rimanere per sempre; pur trattandosi del Deserto del Kalahari, ossia di una delle regioni più aride e desolate dell’intero continente: il terrore tedesco era stato tale che essi non tornarono più indietro, e ancor oggi i loro discendenti vivono là rifugiati.



LA “SOLUZIONE FINALE” DEL PROBLEMA HERERO.

L’insurrezione degli Herero aveva imposto alti costi alla Germania, sia in termini umani che finanziari, ma soprattutto aveva nuociuto alla sua reputazione. Il prestigio del militarismo tedesco era stato scosso tanto agli occhi dell’opinione pubblica europea, quanto al cospetto delle altre popolazioni sottoposte al suo dominio coloniale. Per sette mesi gli Herero erano rimasti virtualmente padroni di una vasta sezione della colonia e avevano vanificato i progetti tedeschi di governare sfruttando le rivalità tribali e manovrando come burattini i capi locali. Appiedati e male armati, avevano tenuto testa valorosamente al più agguerrito esercito del mondo, e, sul piano internazionale, si erano accattivati le simpatie della massima potenza coloniale: la Gran Bretagna. In una parola, essi avevano infranto il mito della assoluta superiorità tecnico-militare dei bianchi e, più in particolare, quello della invincibilità dell’esercito tedesco. Tutto questo era stato fatto da una popolazione africana la cui civiltà materiale appariva agli Europei come molto primitiva, anche se perfino Guglielmo II aveva avuto a riconoscere, in altri tempi, che essa pure “aveva in tutto un cuore sensibile ai sentimenti dell’onore.”

Era quindi necessario – secondo la logica del colonialismo in generale, e di quello tedesco in particolare – “lavare” l’onta e infliggere agli insorti una lezione draconiana. I Francesi nel Dahomey, dopo la battaglia di Kotonou che aveva posto fine all’indipendenza di quel regno, nel 1892, avevano proceduto alla decapitazione sul campo di tutti i prigionieri. I Belgi, dal canto loro, avevano adottato metodi di coercizione così barbari verso gli indigeni del Congo addetti alle piantagioni europee, da provocare la morte di un numero incalcolabile di persone nello “Stato Libero” di Leopoldo II. “Se un giovane africano non accontentava i suoi padroni, una mano o un piede, e talvolta tutti e due, gli venivano tagliati… Per dimostrare la loro diligenza in questo campo, i sorveglianti portavano ai loro superiori ceste piene di mani.” La storia coloniale del XIX secolo, specialmente in Africa, è intessuta di simili atrocità; eppure ciò che misero in opera i Tedeschi nell’Africa Sud-occidentale, nel 1904, sorpassa tutti quegli orrori.

Qui noi assistiamo veramente, e per la prima volta nella storia moderna, a un sistematico piano di genocidio, lucidamente concepito e freddamente portato avanti sin quasi alla distruzione totale e definitiva di un popolo. E la cosa più grave è che le istruzioni per il genocidio vennero impartite quando già la campagna militare tedesca aveva spezzato la forza degli Herero, e la loro diligente applicazione continuò per mesi e mesi, accanendosi contro poveri gruppi di sbandati, donne e bambini compresi, che non erano certo in grado di costituire una minaccia per nessuno. Non c’era alcuna necessità militare che potesse, sia pur debolmente, giustificare un tale modo di procedere: infatti i capi indigeni avevano già domandato, ma invano, di potersi arrendere e deporre le armi. I loro parlamentari erano stati presi a fucilate ancor prima della decisiva battaglia del Waterberg. Dopo lo scontro sul fiume Hamakari, i soldati tedeschi ricevettero l’ordine di sparare a vista contro qualunque indigeno, e pertanto non si ebbero più vere e proprie azioni di guerra, ma piuttosto un assassinio sistematico della popolazione.

L’ordine di sterminio (Vernichtungsbefehl) venne emesso personalmente dal generale von Trotha, il 2 0ttobre 1914, con lo scopo dichiarato di cancellare ogni segno della presenza herero all’interno della colonia. Se questo popolo è riuscito a sopravvivere, sia pure decimato, fino ai nostri giorni, è perché alcune migliaia di Herero avevano trovato rifugio – come si disse – nel protettorato britannico del Bechuanaland, ed essi furono ben presto imitati da tutti i loro compagni rimasti indietro, che furono in grado di farlo.

Ecco come suonava il Vernichtungsbefhel diramato dall’alto comando tedesco agli Herero che, dopo la battaglia presso l’Hamakari, si trovavano ancora dentro i confini dell’Africa Sud-occidentale: “All’interno del territorio tedesco si sparerà contro tutti gli uomini della tribù degli Herero, armati o disarmati, con o senza bestiame. Nel territorio non verranno accolti nemmeno donne e bambini: essi verranno ricondotti al loro popolo, o fucilati. Questa è la parola rivolta agli Herero da me, il grande generale del potente imperatore di Germania.”

Tale malvagio ordine decretato da von Trotha poteva sembrare che lasciasse un’ultima speranza di salvezza agli indigeni, ma in realtà equivaleva a una sentenza di morte: abbandonare il territorio tedesco significava affrontare una marcia spaventosa attraverso il Deserto del Kalahari, che ben pochi – e tanto meno i più deboli: donne e bambini – avrebbero potuto sopportare. Di fatto, molti furono gli Herero che morirono di sete mentre cercavano di raggiungere una impossibile salvezza al di là della frontiera.



UN NAZISMO “ANTE LITTERAM”.

I Tedeschi non arrivarono a un tale passo per caso; il loro non fu un “normale” incidente di percorso coloniale, come accadde ad altre potenze imperialiste (ivi compresa l’Italia, per opera di uomini come Badoglio o Graziani). I semi di una violenza razziale spietata e sistematica sono rintracciabili molto addietro nella loro storia. Già nel XIV secolo le campagne di annientamento condotte contro Prussiani (popolo oggi scomparso), Lituani, Baltici e Polacchi dai Cavalieri Teutonici consentono di classificare questi ultimi- secondo l’espressione di un autore francese contemporaneo - come “le S.S. del Medioevo”. Più specificamente, nella cultura tedesca del XIX secolo si trovano fedelmente anticipati tutti i motivi razzisti e bellicisti, le cui conseguenze hanno macchiato il nome della Germania nel secolo successivo. Non aveva il filosofo Fichte auspicato l’espulsione degli Ebrei, e scritto che “dare loro dei diritti civili è possibile a una sola condizione: tagliar loro la testa in una sola notte e darne loro un’altra che non contenga una sola idea giudaica”? Ed Hegel, il massimo filosofo dell’Idealismo, non aveva forse teorizzato l’assoluta "eticità della guerra", e affermato che “L’Africano è un uomo allo stato grezzo”? Che presso gli Africani “i sentimenti etici sono di estrema debolezza, o, per meglio dire, non esistono affatto”; e che “la loro sfrenatezza non è suscettibile di alcuno sviluppo o educazione?”

Tuttavia, è nell’età guglielmina (1888-1918) che la società tedesca viene incubando e alimentando i germi di una progressiva intolleranza politica e razziale. Mentre i miti pangermanisti ricevono nuova linfa da storici come Lambrecht, da geografi come Ratzel, da artisti come Wagner, da filosofi come Meinecke (e non, come la vulgata vorrebbe far credere, da Friedrich Nietzsche, che anzi ebbe sempre parole sprezzanti nei confronti del nazionalismo tedesco), al Reichstag è rappresentato un partito antisemita – si chiama proprio così -, che passa dai 5 modesti seggi del 1890, ai 16 del 1893 ed ai 21 del 1907. A questo clima complessivo di violenza culturale bisogna sommare gli effetti di una educazione militaresca che, troppo spesso, ottunde le coscienze ed impedisce il maturare di un senso di responsabilità individuale.

Non è forse vero che si rifugiavano dietro la disciplina militare e un cieco ossequio per l’autorità statale, quei soldati tedeschi che nel 1904 applicarono l’ordine di von Trotha, così come nel 1939-45 quelli che eseguirono le criminali direttive antisemite e antislave? Quelli che in più di mezza Europa, dalle Fosse Ardeatine, a Marzabotto, a Oradour, a Lidice si macchiarono di atrocità contro le popolazioni inermi, nel corso delle repressioni contro le formazioni partigiane?

Vi sono, tuttavia, degli storici occidentali i quali hanno tentato in ogni modo di minimizzare i fatti atroci dell’Africa Sud-occidentale. L’inglese D.K. Fieldhouse, ad esempio, ammette che “nocque alla fama della Germania il tentativo di scacciare gli Herero dalle loro terre e di sterminarli”. Però poi subito aggiunge: “Ma bisogna vedere questi orrori nelle giuste proporzioni. La Germania non aveva né esperti amministratori delle colonie né soldati”. E conclude: “La verità è che la Germania come potenza coloniale non fu peggiore delle altre prima del 1914… Il pretesto con cui fu privata delle sue colonie era infondato.”

di Francesco Lamendola

Fonte: da ARIANNA EDITRICE del 20 agosto 2007

Link: http://www.ariannaeditrice.it

 

 

 

L’Associazione per i Popoli Minacciati (APM) ha chiesto al Governo tedesco di pronunciare le proprie scuse per la ricorrenza dei 100 anni del genocidio contro gli Herero in Namibia iniziato dalle truppe imperiali tedesche, le Schutztruppe, nella ex-colonia tedesca nell’Africa del Sud-Ovest. Berlino non può continuare ad utilizzare le richieste di risarcimento degli Herero pendenti negli Stati Uniti, per le quali non si intravede nessuna possibilità di successo, come scuse a basso costo per sottrarsi al riconoscimento di questi crimini; così scrive l’APM in una lettera al Cancelliere Schröder e al Ministro degli Esteri Fischer. Proprio in questo anno del centenario del genocidio, il Governo tedesco potrebbe impegnarsi affinché popolazioni particolarmente svantaggiate come gli Herero, i Nama e i San (Boscimani), possano trarre beneficio dalla riforma agraria in Namibia.

In occasione della ricorrenza annuale l’APM ha pubblicato un nuovo rapporto sul genocidio degli Herero e dei Nama. La rivolta degli Herero era scoppiata il 12 gennaio 1904 nell’allora colonia tedesca dell’Africa del Sud-Ovest. La lotta per la sopravvivenza di questi popoli nomadi che si opposero alla privazione dei propri diritti e alla progressiva perdita della propria terra a favore dei coloni tedeschi, diede inizio al primo genocidio commesso dalle truppe tedesche. Circa 65.000 Herero e 10.000 Nama furono vittime del genocidio.

L’APM considera il crimine di genocidio come tale, in quanto le truppe imperiali eseguirono gli ordini di annientamento del proprio Generale luogotenente Lothar von Trotha; dopo aver sedato la rivolta nel sangue spinsero gli Herero nel deserto di Omaheke in totale assenza di acqua, tagliandoli fuori dal mondo. Migliaia di donne, uomini e bambini morirono di sete oppure “vennero risparmiati dalle proprie sofferenze” dai soldati. Dopo che i coloni tedeschi chiesero di sterminare con gli Herero allo stesso modo anche i Nama, anche questi insorsero e rimasero vittime della politica della “terra bruciata” del regime coloniale.

Al contrario della Chiesa, che ha dato un importante contributo alla rielaborazione delle proprie responsabilità nella politica coloniale tedesca e nel genocidio, il Governo federale tedesco nonostante i ripetuti appelli anche della nostra organizzazione non ha ancora riconosciuto le proprie responsabilità: tanto più importante sarebbe un tale gesto di riconciliazione per evitare una possibile escalation dei conflitti per la riforma agraria in Namibia, sull’esempio di quanto successo già in Zimbabwe. La Germania è per importanza il secondo paese contributore della Namibia. Ma tra gli Herero e i Nama, che oggi con 122.000 e circa 61.000 persone rappresentano insieme il 10,6% dell’intera popolazione, sono migliaia i senza terra che attendono un sostegno. Per questo sarebbe estremamente importante che proprio Berlino sostenga oltremodo la riforma agraria.

Bolzano, Göttingen, 7 gennaio 2004

Associazione Popoli Minacciati del 7 gennaio 2014

Link: http://www.gfbv.it

 

 

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