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Sebbene gli indigeni soffrano sempre più la grave mancanza di risorse dovuta al peggioramento delle condizioni del loro habitat, a voler essere obiettivi, non possono essere catalogati come poveri in quanto godono di una relativa buona qualità di vita.

 

 

Peru': gli indigeni dell'Amazzonia sono davvero poveri?

di Jose' Alvarez Alonso.

 

A causa delle proteste indigene e dei sanguinosi eventi di Bagua, oggi tutti parlano delle popolazioni indigene, del loro sviluppo e della loro vita. Chi più chi meno predica su ciò che è meglio o peggio per l’Amazzonia e per quegli indigeni che qualcuno ha definito (nella maniera più razzista ed etnocentrica) poco più che pezzenti selvaggi. I più benevoli li hanno definiti poveri misericordiosi, quasi degli accattoni degni di compassione. Sono entrambe visioni parziali ed ideologizzate (e pertanto essenzialmente false) della realtà indigena.

In queste ultime settimane ho avuto modo di partecipare come relatore al direttivo che sta lavorando al piano di sviluppo organizzato per le popolazioni indigene dell’Amazzonia nell’ambito del Grupo Nacional de diálogo istituito dal Governo e dalle organizzazioni indigene. Le lunghe ore di lavoro e i rapporti stretti con i dirigenti provenienti da ogni angolo dell’Amazzonia peruviana, oltre alle visite presso le comunità amazzoniche che ho effettuato in tutti questi anni, mi hanno dato la possibilità di percepire in parte l’idea che alcuni indigeni si son fatti su alcune delle loro problematiche, sulle loro aspirazioni di sviluppo, e sul recente conflitto che, per l’appunto, non è solo legato all’attuale Governo ma ad un modello economico, un modo di vivere ed un progresso che gli stessi indigeni sentono estraneo.

Non c’è dubbio che, considerando gli standard ed i criteri economici delle società capitaliste, le popolazioni indigene si inseriscano in quella categoria definita “di povertà” o, addirittura, in quella di “povertà estrema”, questo perché i loro introiti non superano il dollaro diario pro capite. Bisogna comunque tenere presente che questo metodo di giudizio si basa solo sulle entrate economiche e sull’accesso ai servizi considerati fondamentali nell’ottica della civiltà occidentale (acqua potabile, luce elettrica, salute e scolarizzazione).

Ciò nonostante è necessario considerare la loro realtà da un’altra prospettiva. Nell’ambiente in cui per millenni hanno vissuto, agli indigeni non è mai mancato nulla (e la luce elettrica non era necessaria in quanto si sfruttavano a pieno le ore di luce): acqua pulita a sufficienza, benessere ed educazione adeguate alla loro realtà, cibo ed altre risorse essenziali in abbondanza, un ambiente naturale e sociale accogliente ed intimo ma soprattutto libertà, un privilegio negato anche a coloro i quali, vivendo nella società occidentale, si considerano più ricchi e fortunati.

Tutto ciò non è da poco se paragonato al livello di accesso ai beni e ai servizi di un tipico “povero” di un quartiere urbano e soprattutto se paragonato alla realtà del contesto sociale ed ambientale degli indigeni. Anche se le società amazzoniche negli ultimi decenni stanno radicalmente cambiando attraverso una graduale integrazione all’economia di mercato e alla società nazionale, la crescita della popolazione e la sempre maggiore pressione sulle loro risorse naturali, possiamo affermare che è assolutamente ingiusto far rientrare gli indigeni nella categoria dei “poveri”; così come è assolutamente ingiusto definirli ignoranti poiché, in quanto a conoscenza del loro ambiente e alle capacità di gestirlo, sono autentici illuminati.



“Qualità della vita” versus “livello di vita”.

Se si esaminassero le società indigene non intermini di “livello di vita” (valutato in base all’accesso ai beni ed ai servizi occidentali) ma piuttosto in termini di “qualità di vita” e quindi in relazione agli standard che le società indigene considerano soddisfacenti ed adeguate alle necessità e alle aspirazioni che loro stessi considerano come prioritarie, dovremmo di sicuro riconoscere che in realtà sono piuttosto ricchi (almeno se paragonati ad alcune aree urbane o ad alcune zone marginali).

A dimostrazione, l’esperienza di Andrés Nuningo, indigeno Wampis, che è diventato Presidente del Consiglio Aguaruna y Huambisa e, successivamente, sindaco di Río Santiago nella Regione Amazzonica. Durante uno dei suoi viaggi a Lima ha fotografato alcune persone costrette a cercare del cibo nella spazzatura a causa dell’immensa condizione di miseria in cui versavano. Mostrando queste foto ai suoi compaesani, disse loro.”Guardate il progresso. Prima questo era un comunero”.(1) Nuningo descrive una interessante visione del progresso dal punto di vista degli indigeni sulla base di alcuni cambiamenti che la sua comunità ha sofferto:

“Nella mia terra la mattina mi svegliavo sereno. Non dovevo preoccuparmi dei vestiti perché la mia casa era isolata, circondata dalle mie chacras (2) e dalla montagna. In totale tranquillità restavo a guardare l’immensa natura del fiume Santiago mentre mia moglie accendeva il fuoco. Mi rinfrescavo nel fiume e con la canoa, alle prime luci del giorno, andavo a fare un giro per cercare qualche cunchis (3) o per catturare qualche mojarra (4). Senza preoccuparmi dell’orario rientravo a casa. Mia moglie mi accoglieva contenta; cucinava il pesce e mi serviva la mia cuñushca (5) mentre mi riscaldavo accanto al fuoco. Chiacchieravamo io, mia moglie ed i miei figli fino a quando la conversazione terminava. Poi lei andava alla chacra ed io mi dirigevo verso il monte insieme al mio figlio maschio. Camminando su per il monte, descrivevo a mio figlio la natura, la nostra storia, in base alla mia esperienza e secondo gli insegnamenti dei nostri antenati. Cacciavamo e tornavamo contenti con la nostra cacciagione. Mia moglie mi accoglieva felice, appena lavata e pettinata, con il suo tarache (6) nuovo. Mangiavamo fino a sazietà. Se ne avevo voglia riposavo, altrimenti facevo visita ai miei vicini o mi occupavo dei miei lavori di artigianato; poi arrivava il resto della famiglia e bevevamo masato, ci raccontavamo storie e se la cosa prendeva la giusta piega, finivamo per ballare per tutta la notte. Adesso con il progresso le cose sono cambiate. La mattina si lavora. Lavoriamo nelle coltivazioni di riso fino a tardi e torniamo a casa a mani vuote. Mia moglie è di umore tremendo; A malapena prepara un piatto di yucca con sale. Quasi non comunichiamo. Mio figlio va a scuola dove gli insegnano cose di Lima. Dopo la raccolta racimolare una miseria diventa una vera e propria lotta. Va tutto ai trasportatori e ai commercianti. A casa a mala pena riesco a portare qualche scatoletta di tonno, dei fideos (7) e quel che è peggio è che con questo tipo di agricoltura la terra comunale si sta esaurendo e presto non ne resterà nulla. Già vedo tutti i miei compaesani frugare nelle discariche di Lima”.

A qualcuno risulterà familiare questo modello di sviluppo delle monocolture e gli affari che certi progressisti vogliono potenziare nella selva per portare il progresso alle popolazioni indigene arretrate… Con l’aggravante, però, che il loro modello coinvolge i grandi investitori, cosa che porterà gli indigeni (che oggi sono liberi) a lavorare come braccianti. Questo “sviluppo” è esattamente quello che gli indigeni hanno cercato di contestare con le loro clamorose proteste degli scorsi mesi.



Questione di punti di vista.

So che qualcuno tirerà fuori la canzone del “se credi che vivano così bene, perché non vai a vivere con loro”. La verità è che ho vissuto cinque anni tra gli indigeni, nei pressi dei fiumi Tigre e Corrientes, non lontano dal confine con l’Ecuador e negli ultimi vent’anni ho avuto occasione di convivere con loro per brevi periodi e di visitare centinaia di comunità indigene dell’Amazzonia e della zona costiera. Ammetto di non essere riuscito ad abituarmi alla vita nella foresta perché in quanto figlio della società occidentale non possono non mancarmi certe comodità a cui uno è abituato, che sia bambino o adulto: luce elettrica, acqua corrente, frigorifero, internet, certi piaceri alimentari….Così come ai miei amici indigeni manca il loro masato, il loro inguiri (8) e il pango (9) quando vengono a Lima e, ovviamente, il verde intenso e la pace della selva (me lo hanno fatto notare in molti).

Ciò che a una persona di città sembrerebbe insopportabile e incredibilmente scomodo non lo è per chi invece è abituato a conviverci: doversi fare il bagno e lavare gli indumenti al fiume tutti i giorni, raccogliere l’acqua dal ruscello per cucinare, svegliarsi all’alba per approfittare della luce del giorno, fare i bisogni sul monte e uccidere zanzare e tafani ogni momento può sembrare difficoltoso per una persona di città ma non lo è affatto per chi vive così da sempre. Piuttosto sarebbe insopportabile per un indigeno dover passare tutti i giorni due o tre ore in un’ automobile, nel chiasso, sopportare gli stati d’animo di gente estranea respirando aria inquinata; o lavorare otto ore di fila con una capo che ti grida contro svolgendo una attività monotona ed alienante…

A qualcuno potrebbe risultare assurdo che ci sia gente che preferisca vivere così nella selva. Certo, gli indigeni aspirano ad avere certe comodità e qualche beneficio dal progresso (come luce elettrica, televisione, acqua potabile), ma non credo che li pretendano a tutti i costi e non credo nemmeno che vogliano quel finto progresso del consumismo facile della società neoliberale; la maggior parte di loro ama la propria libertà, la propria vita, coerenti con la loro visione del mondo, come si usa dire adesso, e non sarebbero disposti a rinunciare a niente di tutto questo per avere ciò che invece altri considerano, a differenza loro, comodità fondamentali.

In un recente articolo uscito su El Comercio, lo scrittorucolo-analista Vargas Llosa sembra avere esattamente questa visione di uomo di città per il quale risulta incomprensibile che questa gente preferisca continuare a mangiare pesce arrostito o pacacunga (10) nelle loro case rurali prive di luce invece del pollo d’allevamento o delle sardine magari in una città o in una zona di braccianti nei pressi di qualche miniera o qualche piantagione. Non ho dubbi che molti di questi indigeni, per i quali qualcuno forse prova una certa compassione perché vestiti con sgualciti abiti occidentali, vivano una vita familiare e personale più appagante ed equilibrata e che quindi siano più felici di chi invece si considera superiore nella sua misera vita piccolo borghese; gente molto spesso avvolta nella più tremenda solitudine e nella più tremenda misera spirituale causata dall’individualismo competitivo della società occidentale in cui l’altro non è più un “fratello” ma un nemico: homo hominis lupus.

È morto o è rimasto ferito qualche tuo familiare a Bagua? Ho chiesto a Never, un amico Awajún alcuni giorni dopo lo scontro con la polizia. “Sì, nel nostro paese siamo tutti un’unica famiglia, siamo fratelli”, mi ha risposto addolorato. Questo senso di fratellanza, di appartenenza ad un gruppo che lo accoglie, che lo apprezza per quello che è, è l’elemento essenziale della vita dell’essere umano ed è una delle più grandi mancanze delle città disumanizzate dei tempi moderni.

Il basso tasso, tra gli indigeni, delle malattie moderne come lo stress, la depressione e l’angoscia (particolarmente comuni nelle società sviluppate) è la prova di ciò che fino adesso è stato detto.

Come diceva un dirigente durante una delle riunioni dell’Ente Nazionale per le Popolazioni Indigene, chi non mangia tagliatelle e non beve coca cola non vuol dire che viva in miseria. In termini prettamente umani di appagamento delle necessità non solo materiali ma anche spirituali, sociali ed emozionali, penso che le popolazioni indigene dell’Amazzonia stiano, nel complesso, molto meglio delle tante persone che vivono tormentate dalle piaghe familiari e sociali tipiche dell’emarginazione, dello sradicamento e del vivere in quelli che sono veri e propri tuguri delle periferie delle città.

Se le popolazioni indigene riuscissero a vincere i problemi di denutrizione (dovuta in buona parte al sovra sfruttamento delle risorse faunistiche e pescherecce), a superare la mancanza di entrate economiche per acquistare alcuni beni occidentali e se riuscissero a gestire e a dare valore aggiunto alle risorse che ancora abbondano nei loro territori, sono sicuro che potrebbero raggiungere una forma di sviluppo umano più integrale, armonica e sostenibile (dal punto di vista ambientale, sociale ed economico), esattamente ciò che le società urbane continuano a non voler considerare. Per il momento le popolazioni indigene restano i depositari ed i guardiani di buona parte del ricchissimo tesoro della selva amazzonica e, se il mondo fosse un luogo giusto e corretto, sarebbero generosamente compensati per i servizi ambientali che prestano quei boschi che gli stessi indigeni curano da millenni e che conservano tesori genetici inestimabili per l’intera umanità.



Ricchi senza ricchezza.

Il ricercatore inglese Alfred R. Wallace, famoso per essere stato co-scopritore con Darwin della teoria dell’evoluzione, a metà del XIX secolo, visitò l’Amazzonia brasiliana. In una delle sue opere mise a confronto gli indigeni Maniva della zona dell’Alto Orinoco (indigeni che ancora vivevano in armonia con il loro ambiente prima dell’arrivo delle terribili ondate delle attività estrattive e della corruzione portata dagli emigranti europei) con la società inglese in piena epoca vittoriana, colma di pregiudizi e rigide norme di convivenza.

"C’è un popolo indio. Qui ho abitato per un periodo, unico uomo bianco tra, chissà, duecento anime. Vivono una vita allegra e pacifica. Questi uomini semiselvaggi, belli, di pelle rossa e capelli neri, guidati dai figli di Castiglia la Vecchia (si riferisce ai missionari spagnoli) mantengono pulito il villaggio e le loro case. Che piacere è contemplare questi giovanii nudi! Gli arti ben formati, la pelle rossastra,liscia e luminosa. Tutti i movimenti pieni di grazie e salute. Che piacere quando li osservo correre, gridare, saltare, nuotare e pescare in corrente. E poi tutti con il capo scoperto sotto il sole di mezzogiorno, strisciare in agguato con arco e cerbottana per cacciare piccoli uccelli o veloci e scivolosi pesci. ... Ed è così che questa gente vive la sua semplice vita. Sono una razza pacifica, pochi crimini gravi. Si conoscono tra loro, non rubano né uccidono e tutte le complicate sgarbatezze dell’uomo detto civilizzato, qui sono sconosciute (…). Le miserie, le pene e le necessità, la povertà, i crimini, le delusioni, l’intensa agonia mentale, conducono alcuni uomini all’autodistruzione ed altri ad annientare la propria vita nella cella di un manicomio. Le mille condanne sulle nostre vite causate dall’oro, la lunga lotta mortale per i mezzi di sussistenza…..Tutto questo il selvaggio né lo conosce né lo patisce (…). Mi domando: non ci sono prigionieri nelle nostre popolose città sparsi per i nostri fertili campi?. Non esistono migliaia di uomini che vivono una vita, nel corpo e nella mente, inferiore rispetto a quella degli indios rossastri di questa selva che non ha direzione alcuna? Una vita inferiore, all’insegna dell’ansiosa ricerca dell’oro, una vita il cui pensiero fisso da mattina a sera e da sera a mattina, è come riuscire a trovarne di più. Cosa ne sanno questi uomini di piacere intellettuale? Provano un unico e solo piacere: quello della ricerca dell’oro."

E alla fine il saggio Wallace conclude: “Prima di vivere come uno di loro, preferisco essere indio qui e vivere felice pescando, cacciando e remando in canoa. Vedere crescere i miei figli come giovani cerbiatti, sani fisicamente e sereni mentalmente. Ricco senza ricchezza e felice senza oro!”

. * José Álvarez Alonso è Master in Scienze , Biologo di professione e Ricercatore dell’Istituto di Ricerca dell’Amazzonia Peruviana (IIAP)

Fonte estera: http://blog.pucp.edu.pe
20.07.2009

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da SILVIA DAMMACCO

Fonte italiana: https://comedonchisciotte.org



NOTE.

(1) È il termine indicato dalla legge per identificare il soggetto giuridico, facente parte di una comunità agraria, che ha diritto alle terre a lui assegnate e che gode dei beni di uso comune.
(2) Case rurali, orti familiari dove vengono praticate colture diverse.
(3) El Cunchimama (Zúngaro zungao). È il “bagre” più robusto dell’Amazzonia. Il Bagre è una specie di pesce gatto, di pelle liscia, poche lische, squisitissimo in qualsiasi maniera, armato di tre spine velenose, una sulla pinna dorsale e le alte due sulle pinne ventrali-laterali. Punture di queste spine possono provocare dolore per ore e ore. Per questo i pescatori locali, per prima cosa troncano le spine prima ancora di afferrare il pesce con le mani.
(4) Nei paesi dell'America Latina “mojarra” viene comunemente indicato come nome per varie specie della famiglia Cichlidae. La famiglia Cichlidae comprende oltre 1700 specie di pesci d'acqua dolce. È tra le più conosciute al mondo, annoverando specie commestibili e altre apprezzate dagli acquariofili, sia per le colorazioni e le forme, talune davvero interessanti, sia e soprattutto per il comportamento: i Ciclidi sono infatti considerati pesci particolarmente intelligenti.
(5) Masato cotto con un frutto piccante. Il masato è una bevanda elaborata a base di yuca, riso, mais o ananas La sua preparazione consiste nel lasciare fermentare in una pentola acqua, panela e yuca per un tempo approssimativo di 8 giorni, finché la miscela crea una schiuma. Si possono aggiungere anche chiodi di garofano e cannella.
(6) Tessuto di cotone utilizzato per coprirsi.
(7) Pasta simile ai vermicelli, piccoli spaghettini.
(8) Piatto che si ottiene sobbollendo una particolare varietà di banana ( el plátano bellaco).
(9) Piatto a base di pesce secco, yucca e banane verdi, tipico delle zone rurali dell’Amazzonia che si consuma alla fine di estenuanti giornate di lavoro.
(10) Termine della lingua dell’antico Perù che indica una specie di tacchino delle montagne.

 


 

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