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L'Orto Sociale di San Pietro a Perugia.



Di quanto terreno ha bisogno una persona per raggiungere l’autonomia alimentare? L’autosufficienza riduce la nostra impronta ecologica? Quali sono le differenze in termini di sostenibilità tra diete onnivore, vegetariane e vegane? A queste domande risponde il lavoro di ricerca di Giordano Stella che qui delinea gli elementi principali del modello di produzione alimentare da perseguire per un futuro migliore.

Chi di noi, stanco del sistema in cui viviamo, non ha immaginato almeno una volta nella vita di ritirarsi in campagna, il più lontano possibile dalla civiltà, per vivere in armonia con la natura?

Per molti anni il mio sogno è stato proprio quello di costruire un ecovillaggio autonomo a livello energetico e alimentare dove, insieme ad altre persone, poter sperimentare una vita comunitaria in armonia coi cicli naturali. Malgrado svariati tentativi le cose non sono andate così ma, nel frattempo, mi sono messo a studiare e ho sviluppato qualche strumento che potrebbe essere utile a chi vuole provare a produrre il proprio cibo.

Quanto terreno serve mediamente per l’autonomia alimentare annuale di una persona? Come progettare un insediamento finalizzato al raggiungimento dell’autonomia alimentare? Realizzare l’autonomia alimentare implica anche la riduzione dell’impatto ambientale? Queste sono state le domande alla base della mia tesi di laurea in Scienze Agrarie ed Ambientali dalla quale, insieme alcuni amici ricercatori universitari abbiamo scritto un articolo scientifico sulla rivista Ecological Indicators.

Il lavoro è consistito nello sviluppare un foglio di calcolo in grado di valutare il terreno necessario per l’autosufficienza alimentare annuale di una qualsiasi popolazione, a partire da una dieta media, equilibrata (mediterranea onnivora, secondo i criteri espressi dal C.R.E.A.) e dai fabbisogni energetici per adulti e bambini. Il tutto, considerando le rese delle produzioni biologiche e gli sprechi alimentari medi degli italiani. In seguito, durante il mio Dottorato di ricerca ho sviluppato ulteriormente il foglio di calcolo, inserendo: 4 diete medie equilibrate (onnivora, onnivora senza pesce, vegetariana e vegana), i fabbisogni energetici per fasce di sesso-età-livello di attività fisica e tutte le principali produzioni zootecniche.

Quest’ultima versione, molto più precisa, restituisce il fabbisogno necessario per ogni coltura coinvolta nelle diete medie equilibrate, diventando così di fatto uno strumento molto utile nella progettazione di insediamenti umani autosufficienti a livello alimentare. Oltre a ciò, ci ha permesso di misurare l’impatto dei differenti stili di vita alimentare.

Ma insomma quanto terreno serve per l’autonomia alimentare annuale di una persona? Secondo i miei ultimi calcoli questi sono i risultati: 4750 mq. per una dieta onnivora, 5170 mq. ha per quella onnivora senza pesce, 4680 m2 per la dieta vegetariana e 1820 mq. per una dieta vegana. Come è evidente la dieta vegana è di gran lunga la più sostenibile utilizzando poco più di un terzo del terreno necessario per l’autonomia alimentare in una dieta onnivora. Questo si spiega facilmente se si considera che carne, uova, latte e latticini, considerando gli stili di vita alimentari attuali degli italiani, impattano complessivamente per il 63,8% del terreno necessario all’autosufficienza alimentare (rispettivamente 39,4% latte e latticini, 20% carne, 4,4% uova).

 



Molto interessante è vedere la piccolissima differenza che c’è tra l’uso di suolo della dieta onnivora e quella vegetariana. Ciò è dovuto al fatto che, come abbiamo appena visto, la produzione di latte e latticini, presenti anche nella dieta vegetariana, ha un impatto molto grande in termini di utilizzo di suolo. Oltre a ciò va considerato il fatto che, per compensare la riduzione delle proteine provenienti dalla carne, nella dieta vegetariana vengono aumentati i consumi di latticini. Infine, come è risaputo, per produrre latte va prodotta necessariamente anche carne che in una dieta onnivora viene consumata ottimizzando perciò l’impatto dell’allevamento in termini di land use (uso di suolo).

Un altro dato molto interessante emerso dal nostro lavoro è che l’autonomia alimentare, prendendo in considerazione una dieta onnivora, riduce l’impronta ecologica (1) alimentare del’8% rispetto a quella media mondiale e del 47% rispetto a quella di un italiano medio. Tutto questo senza considerare la diminuzione degli impatti derivanti dall’utilizzo di un’agricoltura biologica e dalla riduzione dei trasporti delle derrate alimentari connessa alla rilocalizzazione delle produzioni. Tali risultati sono dovuti prevalentemente alla riduzione degli sprechi alimentari connessi con questa modalità di produzione e trasformazione.

Se tutti utilizzassero una dieta vegana e se rilocalizzassimo le produzioni agricole, la riduzione dell’impronta ecologica alimentare sarebbe di circa il 65% in più rispetto a quella mondiale attuale.

Da questi dati, frutto di calcoli che contengono inevitabilmente delle semplificazioni, sembra piuttosto chiaro che se vogliamo essere più sostenibili è necessario da un lato rilocalizzare le produzioni e dall’altro cambiare il nostro stile di vita alimentare riducendo il consumo di prodotti di origine animale (in particolare latte e latticini e carne). In altre parole, dovremmo trasformare il sistema di produzione e distribuzione alimentare in modo tale da diminuire l’uso di suolo, l’inquinamento, gli sprechi alimentari e i trasporti di cibo. La rilocalizzazione delle produzioni e l’educazione alimentare perciò dovrebbero essere uno dei principali obiettivi delle future politiche agricole

Ma come fare? È possibile un modello di produzione alimentare più sostenibile? A queste domande proverò a rispondervi in un prossimo articolo partendo dal concetto di Sovranità Alimentare, promosso dall’associazione internazionale di contadini “La Via Campesina”, e del modello di pianificazione partecipata delle produzioni agricole che ho proposto nella mia tesi di dottorato.

Definizione di impronta ecologica (da Wikipedia): "L’impronta ecologica è un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. L’impronta ecologica misura l’area biologicamente produttiva di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Utilizzando l’impronta ecologica è possibile stimare quanti “pianeta Terra” servirebbero per sostenere l’umanità, qualora tutti vivessero secondo un determinato stile di vita. Confrontando l’impronta di un individuo (o regione, o stato) con la quantità di terra disponibile pro-capite (cioè il rapporto tra superficie totale e popolazione mondiale) si può capire se il livello di consumi del campione è sostenibile o meno. Per calcolare l’impronta ecologica si mette in relazione la quantità di ogni bene consumato (es. grano, riso, mais, cereali, carni, frutta, verdura, radici e tuberi, legumi, idrocarburi, elettricità, acqua). con una costante di rendimento espressa in kg/ha (chilogrammi per ettaro). Il risultato è una superficie espressa con l’unità di misura “ettaro globale”.

Fonte: https://www.italiachecambia.org

 

 

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