Ci sono in Italia 5.000 piccoli borghi al di sotto dei 5.000 abitanti. Di questi, due terzi sono collocati lungo la dorsale appenninica e c'è chi ha scelto di viverci. Chi perché ci è nato, chi perché era emigrato e dopo anni è tornato a casa, chi perché ha scelto di allontanarsi da città sempre più congestionate, sovraffollate e invivibili. Questi borghi stanno scomparendo, sotto i colpi di una “modernizzazione”, di uno “sviluppo” che va in una direzione imposta e non condivisa.
A colpi successivi, governi ed enti locali li stanno spopolando, forzando la migrazione verso le squallide periferie delle grandi città. Progressivamente nel tempo, si delocalizza la scuola che c'era nel piccolo borgo, un'altra volta si chiude l'ospedale che serviva 10 o 20 di questi piccoli centri, e la carenza di servizi forza gli abitanti a migrare verso le grandi aree urbane.
E' un piano studiato a tavolino di spopolamento delle zone interne dell'Appenino, soprattutto quello centrale e meridionale, che rischia di sconvolgere la stessa geografia dell'Italia. Spostare sì, ma a quale scopo?
Anche se il mondo della politica non lo dice, appare fin troppo chiara una scientifica pianificazione di una nuova riorganizzazione del territorio della penisola. Le aree interne, secondo le intenzioni di chi ha governato e governa, trasversalmente all'arco costituzionale, vanno riusate a nuovi scopi non abitativi.
Così, dopo la Basilicata, è il turno dell'Irpinia di essere al centro di una nuova campagna di trivellazioni petrolifere nelle valli e sulle montagne. Pazienza se si va ad insistere su una zona dove si preleva acqua che va a dissetare un bacino di sei milioni di persone, il 10% degli italiani.
Contemporaneamente, dalle Marche e dall'alto Lazio fino alla stessa Irpinia, è tutto un fiorire di progetti di centrali elettriche, il più delle volte a gas, o ad incenerimento di rifiuti prodotti altrove, che vanno poi allacciate alla rete elettrica nazionale mediante elettrodotti ad alta tensione che sconvolgono il territorio, distruggono ed eliminano aree destinate all'agricoltura o all'allevamento, portano inquinamento elettromagnetico elevato in borghi medievali di 2.000 abitanti, che fino a ieri non sapevano neanche cosa fosse l'inquinamento.
Ancora, come se non bastasse, i territori diventano destinatari di progetti di smaltimento dei rifiuti delle grandi città, dalle discariche, fino alle piattaforme per far sparire dalla vista i rifiuti industriali pericolosi.
Per rendere realtà questo progetto di “modernizzazione” del Paese c'è un impedimento da superare: l'esistenza dei cittadini, visti sempre più come il peggiore ostacolo per una democrazia moderna. Pertanto, funzionale al grande progetto, è necessario forzare lo spopolamento, l'abbandono dei piccoli centri.
Certo, non si può deportare la popolazione con la forza, quindi la strategia adottata è quella di far sparire i servizi. Eliminare istruzione, sanità, uffici pubblici, negozi e centri commerciali, fabbriche e attività economiche e, quando la popolazione locale scende oltre un certo limite, viene rimosso anche il medico di base; il tutto per fare in modo che la gente decida da sé di andarsene altrove, togliendo il disturbo.
La terra e la gente dei piccoli paesi delle aree interne meridionali, dall’Irpinia al Salernitano, dalla Puglia alla Lucania, sono sotto attacco. I vecchi emigranti che erano ritornati vedono i figli e i nipoti fare le valige e abbandonare un territorio dove lo stato sociale e i servizi essenziali non sono più garantiti.
Mentre scompaiono presìdi scolastici e sanitari, piccoli tribunali e uffici postali, azzerando in pochi anni le conquiste ottenute dal dopoguerra, procede, di pari passo, l’aggressione a un territorio il cui destino sembra lo spopolamento e il degrado.
Terra, aria, acqua sono a rischio o già compromesse: discariche abusive e sversamenti diffusi, esplorazioni petrolifere in aree sismiche e ricche d’acqua, eolico selvaggio ed elettrodotti, aree di ricarica dei bacini idrici a rischio, depuratori inesistenti, emissioni fuori norma nei nuclei industriali, impianti a biomassa che successivamente diventano inceneritori e molto altro.
Da qualche tempo, gli abitanti di questi piccoli centri, soprattutto in Campania, hanno iniziato a dialogare tra di loro, da Torrita Tiberina a Castelvetere sul Calore, dando vita ad un “forum ambientale” dell'Appennino ( http://www.forumambientale.org ), dove mettono in comune le proprie esperienze e assieme concertano iniziative di resistenza.
E' un movimento in crescita: ad ogni incontro il numero di partecipanti aumenta. Non per coscienza politica o ambientale, quella magari verrà dopo, ma per paura. Paura delle grandi aziende che gli rubano la terra e mettono centrali, inceneritori, impianti a biomassa che poi diventano chissà cosa.
Paura di cosa c’è nell’acqua che bevono e fanno bere ai loro figli, delle microdiscariche vicino casa e dell’amianto che altri vanno a scaricare, paura degli elettrodotti che passeranno, di quelli che già ci sono e di tanto altro ancora.
Da questa paura, che si trasforma in partecipazione, sta nascendo un centro studi, una serie di iniziative sia di pressione politica, a tutti i livelli, sia di informazione verso la popolazione. L'obiettivo dichiarato è quello di spingere verso una revisione delle politiche territoriali, per rendere l'Appennino territorio di una nuova forma di sviluppo: dalla piccola agricoltura, al ripristino delle forme di allevamento, fino al turismo paesaggistico, il tutto condito dal recupero dei vecchi borghi storici e del riabitarli.
Un movimento dal basso di cui seguire progressi ed evoluzioni. Una speranza, per la bellezza dell'Appennino, la cui unica possibilità di resistere sta nel passare dalla rassegnazione alla consapevolezza e poi all’azione politica.
di Alessandro Iacuelli
Fonte: http://www.altrenotizie.org
È una buona stima, conferma il sindaco di Belluno Jacopo Massaro, quella che individua attorno al milione, il numero delle persone che dalla seconda metà del ‘900 ad oggi, hanno abbandonato la montagna. Se in passato vivere ad alta quota aumentava le probabilità di salvarsi dalla devastazione dei barbari, oggi, per sopravvivere, per libera scelta, o per mancanza di essa, si lascia la montagna per andare in città. Lo spopolamento delle aree montane in Italia è un serio problema che ha ridotto alcuni sindaci esasperati ad inventarsi di tutto pur di convincere la gente a tornare. L’anno scorso, fece notizia la decisione del primo cittadino di Borgomezzavalle di mettere in vendita ad 1 euro alcune case del piccolo borgo piemontese che rischiava di diventare un luogo fantasma.
Cause ed effetti.
Nel nostro paese le aree alpine e appenniniche si abbandonando per una combinazione di fattori. Tra questi ci sono la mancanza servizi, l’inospitalità del clima e soprattutto dei costi di vita insostenibili a fronte della poca redditività del lavoro. Le principali attività montane, l’agricoltura, l’allevamento e l’artigianato, hanno subito la concorrenza feroce della globalizzazione trovandosi impreparate a competere con i prezzi bassi offerti in pianura, dove spesso, si produce e si alleva in maniera intensiva. Questa concorrenza ha causato un graduale impoverimento se non abbandono totale di molte attività con molteplici conseguenze sul territorio. Abbandonando le terre, diminuisce la biodiversità, si dimenticano tradizioni e si fanno scomparire le piccole comunità di terre alte. Le terre abbandonate inoltre, permettono l’avanzamento rapido ed inesorabile del bosco, che non solo rende i terreni improduttivi, ma li espone anche al rischio di dissesto idrogeologico.
Il caso di Belluno.
«I giovani scappano soprattutto perché mancano adeguate opportunità di formazione e servizi» – ci spiega il sindaco di Belluno Massaro. «Le occasioni di divertimento e socialità diminuiscono perché non ci sono trasporti adeguati. Oggi i giovani sono più green, vogliono spostarsi con l’autobus, peccato che per noi sia insostenibile coprire il costo di un mezzo che trasporta sì e no due persone da una frazione all’altra. Quando spostarsi diventa complicato, e non hai alternative all’uso dell’auto, non sei certo incoraggiato a restare in montagna.» Viene logico pensare che più se ne vanno, più si priva la comunità di linfa vitale, di nuove imprese, attività commerciarli, cultura e in generale di un tessuto sociale che può impoverirsi fino a scomparire del tutto. Come arrestare dunque il circolo vizioso? Nel caso di Belluno si sta agendo su tre fronti che negli ultimi anni hanno tamponato l’emorragia verso la pianura. «Stiamo lavorando sul mantenimento della tassazione bassa per le imprese in modo tale da incentivarle a restare sul territorio creando nuovi posti di lavoro. I risultati raggiunti fino ad ora sono buoni e Belluno è diventata la terza città italiana con minore pressione fiscale. Il secondo punto è il turismo, settore fondamentale sul quale investire, mentre il terzo è la formazione. Stiamo lavorando assieme a Confindustria per portare entro quest’anno in uno dei nostri palazzi storici a Belluno, alcuni Master universitari della Luiss di Roma, e delle università di Venezia e Padova.»
Anche chi rimane può fare molto.
Se lungo un binario si muove la politica, in parallelo anche chi in montagna già ci vive, ed ha a cuore la sopravvivenza della comunità, ci mette del proprio. È il caso del gruppo di azione locale Belluno Alpina, che attraverso il progetto “Ronce 2020”, intende portare avanti una serie di azioni per contrastare lo spopolamento riportando al centro l’agricoltura e i valori del suo protagonista, “l’uomo dolomitico”, come lo ha definito il portavoce del gruppo Jimmy Dal Farra . Il progetto prevede anche il riordino dei percorsi naturalistici, la riqualificazione di edifici abbandonati e l’organizzazione di grandi eventi, su tutti, il Giro d’Italia. A mettersi in azione sono gli stessi cittadini, quelli rimasti, che con buona volontà, si attrezzano per creare dei servizi di trasporto di generi alimentari alle persone più anziane che hanno difficoltà a spostarsi, oppure si impegnano a sfalciare i prati e tenere pulito il bosco. Al comune viene chiesto di supportare queste azioni con risorse che spesso sono insufficienti.
Poche risorse e poca autonomia.
«Noi sappiamo molto bene di cosa abbiamo bisogno, il problema sono le competenze e le risorse che rimangono bloccate a Roma o in mano alla Regione che non si è dimostrata disponibile a concederle quando le abbiamo richieste» – puntualizza il sindaco Massaro. «Bisogna tenere a mente che in montagna tutto costa di più. Una strada costruita qui costa 12 volte in più di una strada di pianura. E come accade nel caso della sanità, dovendo garantire determinati standard, il problema dello spopolamento, fa aumentare i costi che lievitano di anno in anno perché devono essere ripartiti su una popolazione sempre minore. Abbiamo bisogno di più aiuti in questo senso per evitare altri casi come Sappada, un comune esasperato dalle difficoltà che ha ottenuto il passaggio al Friuli Venezia Giulia.» Quando faccio notare come suoni paradossale che una regione come il Veneto, così desiderosa di autonomia, a casa propria, non sia disponibile a concederne a territori con necessità specifiche, Massaro rivela il suo punto di vista sulla questione che sta tanto a cuore a Zaia e ai veneti che hanno votato sì al referendum consultivo del 2017. «Io non sono contrario all’autonomia, a patto che non diventi il trasferimento della complessità burocratica di un ministero, ad un ente regionale che soffre già di una burocrazia farraginosa. Sono favore al decentramento se è funzionale nel dare una mano ai comuni che sono la spina dorsale dell’Italia.»
Fonte: https://www.2duerighe.com
L’abbandono delle montagne implica gravi conseguenze ambientali, sociali ed economiche. In Italia lo spopolamento delle Alpi è iniziato verso la fine del XIX secolo.
La discesa dalle montagne è sempre stata fortemente connessa all’evoluzione economica delle pianure limitrofe. L’allevamento in un territorio pianeggiante permette lo smercio immediato dei prodotti, mentre per l’agricoltura non vale solo il discorso della vendita diretta, ma anche l’utilizzo di macchinari per agevolare le produzioni. Solo nell’ultimo trentennio, la popolazione rurale della principale catena montuosa della penisola si è ridotta del 40% e metà delle aziende nate negli anni ’80 ha chiuso i battenti.
Lo spopolamento montano è la conseguenza del passaggio da un’economia di sussistenza a quella di mercato. La prima era caratterizzata dalla chiusura delle comunità in piccoli nuclei che vivevano quasi esclusivamente grazie all’autosostentamento; la seconda invece è fondata sull’avvicinamento di mercati vicini e non, sulla rapidità della circolazione delle merci e dall’espansione dei consumi. La realtà montanara è stata così derubata della maggior parte dei suoi abitanti, delle proprie tradizioni, di tutti quei meccanismi sociali e lavorativi che la tenevano in vita.
Parliamo di un ambiente che non può autoregolarsi. La presenza dell’uomo, delle sue attività e degli animali mantengono in vita un sistema fatto di equilibri delicati. La montagna necessità di cure costanti per mantenersi al meglio. Pastori e greggi mantengono vivi i prati falciandoli, sottoboschi curati che diminuiscono la frequenza degli incendi estivi, animali che concimano il terreno evitando che s’indebolisca…
Forse la chiave del problema sta nella scelta delle politiche di finanziamento per la tutela dell’ambiente. Spesso i budget destinati ai fondi sono pochi, mal distribuiti, e non seguiti con la sufficiente attenzione una volta erogati. Bisogna stimolare le azioni delle amministrazioni centrali e regionali, degli enti pubblici e anche delle politiche comunitarie, indirizzando tutti gli sforzi alla conservazione delle proprie risorse, prevedendo nuovi piani di sviluppo rurale per la tutela della biodiversità, della tradizione e del territorio.
Lo sviluppo nelle varie regioni è avvenuto a macchia di leopardo. Da un versante all’altro della stessa montagna la situazione può essere completamente diversa. Questo implica che le norme di valorizzazione del territorio non possono essere standardizzate, perché ogni zona ha i suoi punti di forza e lacune, specifiche tecniche e caratteristiche che devono essere analizzate e valorizzate singolarmente.
Anche i progetti formativi per la preparazione di adeguate figure manageriali e settoriali devono affinarsi per creare modelli che coniughino sviluppo e conservazione. L’approccio deve essere mentalmente legato alle tradizioni ma in un’ottica proiettata a un futuro ecosostenibile, attento e rispettoso. Queste figure dovrebbero avere il ruolo di guide nella realtà montanara per far comprendere agli abitanti le possibilità del proprio territorio, a cogliere il valore economico della cosa per migliorare così anche la qualità della vita, indirizzandoli nelle scelte più idonee.
Le Alpi costituiscono uno straordinario polmone ambientale e una importante fucina culturale per tutto il continente. La posizione centrale e la conformazione fisica del territorio sono state alla base dello sviluppo di un’incredibile varietà, generando saperi, prodotti, coltivazioni particolari, dialetti e tradizioni uniche.
Per valorizzare un territorio basta ripartire da qui, dalla vera essenza che caratterizza una zona. Queste sono le chiavi per riqualificare e risanare l’economia, in montagna come in qualsiasi altro ambiente.
Per esempio, Slow Food ha esaminato l’impatto ambientale, economico e sociale dei Presìdi delle montagne europee per capire se questo modello di conservazione possa riuscire a trovare nuove strade e opportunità in ambienti complessi apparentemente destinati all’abbandono. Abbiamo ricostruito la storia e l’evoluzione dall’anno di nascita di trentadue Presìdi a oggi. Queste piccole realtà hanno preservato formaggi, salumi e trasmesso pratiche antiche che altrimenti sarebbero andate perdute.
Lo studio ha fatto emergere quanti giovani rivalutano mestieri umili e antichi, giovani con voglia di riscatto, per se stessi e per la propria terra. Il legame al territorio e la forza dell’unione possono aiutare a superare anche le crisi più difficili. I dati parlano chiaro: nel 2012 le destinazioni montanare sono sempre di più meta di turisti (+29%), soprattutto stranieri (+13,9%). La territorialità è lo strumento per uscire dalla secca della crisi.
Nel momento in cui si ha la fortuna di avere tra le mani un territorio meraviglioso, vario e caratteristico come il nostro, abbandonare il suo folclore, le sue tradizioni, i profumi, sapori e storie sarebbe una mancanza di rispetto per le generazioni future.
Dell’argomento si parlerà al Salone durante la conferenza: "L’agricoltura familiare a protezione delle montagne".
Noemi Reina
Fonte: http://www.salonedelgusto.com