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A volte il passato ritorna, e le dinamiche che hanno dato corpo agli eventi, con le loro conseguenze, non è detto che non si ripropongano con diversi attori. Torniamo al 1984, senza trascurare la tendenza politica italiana che, volta alle questioni “di cortile”, sottovaluta le dinamiche internazionali. Malgrado l’incandescenza della Guerra Fredda, si rammenta il rock di Springsteen con il suo “Born in the USA”, 1984 di Orwell o magari, sulla spinta emotiva, il decesso di Enrico Berlinguer... E poi? Poco, la geopolitica era ancora di là dal risvegliare attenzioni; eppure la storia andava avanti, che si fosse o meno in grado di comprenderne le correlazioni fondamentali. Già dal 1982 si stavano creando tutti i presupposti per la deflagrazione di un conflitto mondiale, in un momento in cui il bipolarismo Est Ovest stava raggiungendo i suoi punti di massimo attrito. L’ascesa al potere dell’ex Direttore del KGB Jiurij Andropov si inquadra in un accresciuto antagonismo con gli USA che, trovato in Reagan un interprete quanto mai congeniale in quanto ad abrasività, reitera sfide di particolare complessità: un antidiplomatico opposto ad una corte granitica ed erede di una tradizione rivoluzionaria burocratizzatasi con il tempo, ma non per questo meno potente e timorosa di sviluppi esterni ai canoni consolidati. Il periodo post Brezhnev è segnato da un’intensa attività di intelligence, tesa a monitorare lo stato dei preparativi di un attacco NATO dato per scontato; inconsapevolmente abbiamo vissuto un momento storico caratterizzato da grossolani errori di valutazione tecnica (errate conferme satellitari di lanci balistici intercontinentali ed abbattimento di aerei di linea), e proiezioni di potenza americane (invasione di Grenada). La morte di Andropov consacra al potere Konstantin Chernenko, scevro dai timori patologici del predecessore, ma non per questo non in difficoltà verso una leadership volitiva, spregiudicata ed in grado di assicurare continuità politica. Perché allora i russi, forti di un’indiscussa superiorità convenzionale, non hanno attaccato l’Europa Occidentale avvalendosi anche dei mezzi nucleari in loro possesso? Luttwack non ha mai azzardato ipotesi concrete, propendendo per un bluff; più di un analista, invece, ha dato credito all’ipotesi di un repentino cambiamento dei rapporti di forza, conseguente all’incidente occorso nella Base di Severomorsk nella Penisola di Kola, dove l’esplosione di un deposito missilistico, nel maggio del 1984, privò la Flotta Sovietica del Nord, la più potente tra quelle d’altura, dei mezzi bellici necessari. Quel che è certo, è che le esercitazioni classificate russe si susseguirono senza soluzione di continuità fino al settembre 1984, e che esisteva già una pianificazione indirizzata ad un uso massivo di armi nucleari tattiche in grado di far raggiungere, a 14 giorni dall’inizio dell’attacco, le sponde atlantiche salvo un imprevisto: l’incidente accaduto nella Penisola di Kola, un lembo di territorio strategico e soprattutto volto su un mare non ristretto. Paradossalmente, nella base potenzialmente più sicura, il 13 maggio 1984 dopo le tradizionali manovre di primavera, esplode il deposito munizioni di Okolnaya, la più grande polveriera della Flotta del Nord, a poche centinaia di metri dalle banchine. La fuga dal centro abitato verso Murmansk è immediata, mentre un fungo altissimo di polveri sovrasta la zona. Cause e notizie mancano: la censura bloccò ogni possibile canale, ma quel che non poté arginare furono le conseguenze: un’irreparabile perdita di dotazioni, di uomini e molto probabilmente di mezzi navali anche se non nucleari, che compromisero per almeno due anni le potenzialità strategiche indispensabili per sferrare un attacco contro l’Ovest; game over, fine anticipata di quell’ultima appendice così pericolosa di Guerra Fredda, tanto che una fonte del Pentagono potè dichiarare al Washington Post che "la flotta artica sovietica si troverebbe nei guai in caso di scontro con la marina americana", ed il portavoce di Jane’s potè asserire che ''The destruction represents the greatest disaster to occur in the Soviet Navy since World War II”. Una prima considerazione: quanti sono stati gli incidenti (noti) che hanno interessato l’Unione Sovietica prima e la Russia poi? Molti, e gravi. Sempre nel 1984 esplode un’astronave in rampa di lancio uccidendo 3 cosmonauti; nel 1979 un’epidemia di carbonchio si sviluppa nella regione di Sverdlosk, tanto da far ipotizzare un’esplosione in una fabbrica di armi biologiche; nel 2000 affonda il Kursk; poche settimane fa il sottomarino spia Losharik ha un’avaria tale da causare la morte di 14 uomini dell’equipaggio. Se i depositi delle testate nucleari di Severomorsk fossero stati investiti, ci sarebbe ancora una civiltà occidentale ora? Quanto conta ancora Severomorsk? La Penisola di Kola rimane un trampolino di lancio verso ovest e verso nord, e riacquista valore nel 2007, quando due battelli russi depongono la bandiera della Federazione nel Mar Glaciale Artico a 4.200 mt. di profondità per segnare un chiaro possesso, alla luce di una presenza riaffermata nel Caucaso ed in Asia Centrale, di una mutuamente interessata apertura verso la Cina, di un contenuto sfaldamento del vecchio cortile di casa, di una rinnovata spinta continentale verso l’Artico avversata però dal nemico di sempre: la NATO. Senza saperlo, in molti hanno inghiottito la pillola azzurra per risvegliarsi il giorno seguente per credere a ciò che avrebbero preferito di più. Noi vi proponiamo la pillola rossa, poco rassicurante ed impolitica.



Giorni di un futuro passato.
Un’analisi geopolitica non può prescindere dal tarare tutti i possibili aspetti, impresa non agevole con il Cremlino; la domanda è semplice: quanto è forte ora l’Orso Russo? Quali sono i criteri che determinano il suo potere? Quali sono le sue aree di forza? La letteratura anglosassone propone il concetto di powermetric di Miroslaw Sulek, una scienza applicata che tara il potere degli attori nella modellazione e previsione delle relazioni tra Stati, una versione della sempre valida Teoria dei Giochi, che attribuisce una posizione dello Stato nel contesto internazionale in funzione dei fattori di potenza e debolezza. Il Teatro Artico si presta al gioco: copre un’area estesa, ed è sotto il controllo del NJSC che garantisce sia le capacità di attacco nucleare, sia la difesa che il controllo delle nascenti linee navali di comunicazione, nonché una mobilità strategica atta a coprire le carenze della difesa aerea in una zona così vasta. La Marina Russa al momento riconosce un rischio contenuto di un conflitto globale anche nucleare, ma è conscia di un innalzamento della rilevanza del potere militare in ambito internazionale, aspetto che l’ha indotta sia a conservare una parità nucleare strategica con gli americani data la perdurante asimmetria militare convenzionale, sia a reiterare la strategia della dissuasione. In sintesi, poco è cambiato, ed anzi l’Artico ha ulteriormente aumentato la sua importanza, dati la ricchezza dei fondali, il passaggio mercantile, la presenza di numerosi cavi di comunicazione sottomarini, nonché la potenziale apertura di nuove vie di comunicazione marittima; dopo il Baltico, anche il tratto centrale di mare che divide i due bacini Atlantico e ed Artico si è andato popolando di unità russe; dalle nebbie della Guerra Fredda è tornato ad affacciarsi il Giuk Gap, il collo di bottiglia tra Groenlandia, Islanda (chiave geografica del sistema) e Regno Unito che descrive lo spazio geopolitico da mantenere nel possesso strategico di Londra e Washington per impedire l’accesso all’Atlantico settentrionale ad altri possibili egemoni altrimenti in grado di interrompere qualsiasi flusso logistico tra gli USA e l’Europa, ed il punto vulnerabile costituito dall’arcipelago norvegese delle Svalbard, possibile oggetto delle mire russe, tese a testare coesione e solidarietà atlantiche. Ma quanto è reale la resurrezione militare russa alla luce della geostrategia americana che, ricostituendo nel 2017 il comando destinato alla protezione delle linee tra Stati Uniti ed Europa, punta ad una narrazione da guerra fredda che potrebbe sviare da analisi più puntuali? Intanto Severomorsk, la fenice della Penisola di Kola, risorge ancora una volta in termini operativi, data la comprovata recrudescenza sia dell’attività aerea che subacquea e nucleare russa in zone da sempre sotto controllo occidentale; del resto la Morskaja Doktrina non esprime altro che il tentativo di assicurarsi l’accesso all’Atlantico attraverso l’Artico, considerato quale naturale propaggine nazionale, senza dimenticare tuttavia sia la propensione verso le più calde acque del Mediterraneo, sia uno stato d’efficienza operativa che non può che risentire delle disponibilità finanziarie che impongono il ricorso sovietico al sistema d’arma asimmetrico per eccellenza, il sottomarino, soprattutto a propulsione e ad armamento nucleari. Kola è dunque il bastione boreale per eccellenza, e Severomorsk il suo punto nodale che ancora adesso si protende verso l‘artico proteggendo nel contempo l’ingresso al Mar Bianco, porta d’ingresso all’heartland russo. In sintesi, Kola è ancora strumento di proiezione di potenza da cui avrebbe inizio qualsiasi evento bellico, secondo una linea che, partendo dall’Artico, arriva fino in Siria. La strategia russa è chiara e si rifà a vecchi stilemi: controllo del Mar di Barents, interdizione del Mar di Norvegia, disturbo nell’Atlantico. Il passato, con altri attori, si ripete.



La tana del bianconiglio?
I progetti russi di realizzazione di una rotta marittima del nord che sfrutti il passaggio a nord est fino al Pacifico con adeguate infrastrutture agevolate dall’aumento termico globale, se da un lato portano a pensare ad una sorta di innovativa e redditizia via della seta di cui beneficerebbe anche la Cina, dall’altro devono considerare anche aspetti economici da affrontare impopolarmente, cosa che lo stesso Lavrov, ministro degli esteri, sa perfettamente. Severomorsk e la Flotta del Nord, scampate ad un olocausto nucleare nel 1984, si ritroverebbero quindi al centro di disegni che, potenziando gli aspetti più strettamente militari, andrebbero ad incidere sul più ampio contesto economico nazionale. La visione strategica attuale ricalcherebbe quella sovietica, dove prevarrebbe la valutazione dei fattori contingenti asimmetrici e concreti; chiusi ad ovest e costretti ad ovviare alle carenze dovute alle sanzioni, i russi già ora spingono per una maggiore integrazione verso est, sconfessando chi interpreta la strategia solo in termini militari e non olistici. Piccola nota per il nostro Paese; sottolineare l’incompiutezza di una linea d’azione che coinvolge il nostro interesse Mediterraneo, ancorché allargato, non può prescindere da valutazioni che riguardano gli interessi generali dell’Alleanza. Dovremmo forse dimostrare di esserne capaci.

Fonte: http://www.difesaonline.it

 

 

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