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Tutto fa ritenere che se un fortuito e terribile incidente, il 13 maggio 1984, non avesse distrutto l’arsenale sovietico nel Mare del Nord, nell’agosto successivo sarebbe stata guerra fra URSS e Occidente. Guerra totale, per la sopravvivenza. Guerra in Europa. Vi raccontiamo come sarebbe andata a finire.

 

 

Ho avuto la sfortuna di partecipare e la fortuna di sopravvivere alla Terza guerra mondiale. In vent’anni, da allora, sono cambiate tante cose: molti Paesi del defunto Patto di Varsavia sono entrati a far parte dell’Unione Europea, nostri alleati di fatto e di diritto. La Confederazione russa di Stati Indipendenti si sta lentamente riprendendo dai disastri della guerra e del comunismo e i rapporti con l’Occidente sono più che amichevoli, grazie anche ai generosi termini di resa. Né dimentico come quei popoli fossero oppressi, costretti a una guerra che non volevano e, anzi, la defezione di molti reparti polacchi, ungheresi e cecoslovacchi fu decisiva per le sorti del conflitto, abbreviandolo di cruciali settimane.

Ugualmente, non posso dimenticare che il mio corso allievi ufficiali, il 112°, è stato quasi del tutto sterminato, né dimentico la spietatezza degli invasori verso la popolazione civile e verso i prigionieri: le ferite che ho disseminate tra anima e corpo sono lì a ricordarmi ogni minuto di quei quaranta incredibili giorni in cui sembrò che la nostra stessa civiltà dovesse scomparire. Mi sono sempre chiesto se tutto ciò fosse evitabile: così, prima di delineare le fasi salienti del conflitto, penso sia giusto, ancora una volta, fare memoria di come ci siamo arrivati.

Da parte pacifista si è detto che la decisione della Nato di installare i missili Cruise a Comiso (annunciata nel 1981, completata nel 1984) sia stata l’elemento scatenante. Ma va anche ricordato che tutte le manovre del Patto di Varsavia, dalla sua nascita alla sua fine, prevedevano soltanto azioni offensive e mai difensive. Con gli “euromissili” NATO il margine di superiorità militare sovietica sarebbe stato annullato.

Eppure credo che la circostanza più determinante sia stata un’altra: nel 1990 fonti russe hanno rivelato un grave incidente occorso nel maggio 1984 a Severomorsk, dove si trova l’arsenale della flotta del Mare del Nord di base a Murmansk. È difficile sottovalutare l’importanza di quell’incidente. I sovietici, in previsione dell’offensiva a Occidente, avevano provveduto allo stoccaggio di numerosi missili antiaerei e antinave in vecchi depositi usati durante la Seconda guerra mondiale, inadeguati a contenere ordigni muniti di propellenti liquidi estremamente infiammabili. Pare dunque che il 13 maggio 1984 nell’arsenale sia scoppiato un incendio e che solo l’eroismo di un gruppo di marinai abbia impedito l’esplosione di tutto l’arsenale. Quegli eroi preferirono impedire a se stessi la fuga, morendo nell’incendio ma evitando, con la chiusura delle porte stagne, che il fuoco si propagasse al deposito dei missili. Scongiurando il disastro, ma causando la Terza guerra mondiale.

È facile prevedere cosa sarebbe accaduto se l’intero arsenale fosse esploso. La Flotta del Mare del Nord sarebbe stata disarmata all’improvviso e le scorte non sarebbero state ricostituibili prima di cinque anni: proprio quel 1989 che, secondo qualche cultore di ucronia, avrebbe visto il crollo del muro di Berlino e molti altri avvenimenti mai accaduti: il trionfo di Solidarnosc in Polonia, la “rivoluzione di velluto” in Cecoslovacchia, l’esecuzione sommaria di Ceausescu in Romania, la democratizzazione dell’Est europeo, l’Europa unita dall’Atlantico agli Urali senza sparare un colpo.



I giorni sull’orlo dell’abisso.
Dopo un quarantennio di Guerra Fredda, nel 1984 si era alla stretta finale. L’offensiva del Patto di Varsavia, più volte pianificata dai vertici militari comunisti, era un’opzione sempre più probabile. «Ai raggruppamenti strategici di truppe e forze navali del Patto di Varsavia è assegnato il compito di: [...] raggiungere i confini della Francia il 13°-15° giorno dell’offensiva e, contemporaneamente, occupare i territori della Danimarca, della Repubblica Federale di Germania, dei Paesi Bassi e del Belgio; ottenere il ritiro forzato della guerra di questi Stati; [...] raggiungere il Golfo di Biscaglia e la frontiera spagnola entro il 30°-35° giorno dell’offensiva». Questa la relazione del ministro della Difesa dell’ex DDR nel 1983, in linea con la dottrina Lenin: «Nessuna istituzione nella Russia sovietica cessi mai di attribuire all’Esercito il primo posto. La storia insegna che i Governi i quali non attribuiscono alle questioni militari un’importanza primordiale, portano i loro Paesi alla rovina».

E l’Occidente? Dopo decenni di lassismo sembrava che l’Europa avesse compreso che un forte esercito convenzionale era il miglior deterrente contro l’uso di armi nucleari sul proprio territorio. Tanto più un esercito occidentale avesse saputo difendere il proprio Paese, tanto meno sarebbe stato obbligato a scegliere tra la resa e l’impiego di bombe nucleari tattiche sulle proprie città. Il riarmo americano, iniziato dal Presidente Ronald Reagan, rappresentò la svolta determinante per il ritorno a una vera efficienza delle forze armate della NATO, dalle buffetterie della fanteria alle mai realizzate “Guerre Stellari”, così che gli analisti strategici di tutto il mondo concordarono in una previsione mai smentita: nel 1985 il Patto di Varsavia non avrebbe più potuto sfruttare la propria superiorità numerica poiché questa sarebbe stata completamente annullata da una superiorità qualitativa occidentale.

Il 1985 era così il termine cui i dirigenti sovietici guardavano con sempre maggiore ansietà. Gli anni ’70, che avevano visto la bandiera dell’URSS sventolare in Mozambico, Angola, Etiopia e Afghanistan, erano miseramente finiti. Nel 1980 Solidarnosc aveva messo in ginocchio il governo comunista e solo il colpo di Stato del generale Wojciech Jaruzelski aveva evitato un’invasione dagli effetti incontrollabili. Il terrorismo tedesco e italiano erano ormai sconfitti; in Afghanistan non si riusciva a pacificare il Paese e, di conseguenza, il tentativo di arrivare a influenzare il Pakistan e di giungere ai “mari caldi” era frustrato. In America Centrale solo il Nicaragua continuava ad aderire al blocco comunista e il tentativo di costituire una base aerea nell’isola di Grenada, avvenuto nell’ottobre del 1983, era stato sventato dalle forze armate americane in modo goffo ma efficace. Il generale John Hackett aveva previsto questi sviluppi già dal 1982, in un libro sulla Terza guerra mondiale: senza Grenada, ogni fornitura da Cuba a Managua sarebbe dovuta passare per territorio neutrale, senza possibilità di manovrare liberamente. E fu ciò che avvenne: il Nicaragua sandinista rimase isolato e non poté esportare la rivoluzione in Honduras.

Eppure la sconfitta più bruciante per i dirigenti del Cremlino venne da quella guerra sottile, senza armi e senza spargimento di sangue, che veniva combattuta in tutta Europa in ogni scuola, in ogni casa, fabbrica o quartiere. L’esempio di Aleksandr Solzenicyn, Andrei Sacharov, Václav Havel, Jacek Kuron, Lech Walesa mostrava a noi tutti come la frase «Meglio rossi che morti» fosse di una diabolicità intollerabile. Havel, nel suo "Il potere dei senza potere", aveva ben delineato le prospettive di lotta: vivere nella verità o in una menzogna che continuava ad autoriprodursi. E la sua considerazione più brutale riguardava il progressivo somigliare dell’Occidente all’Est europeo: «Il grigiore e lo squallore della vita nel sistema post-totalitario non sono proprio la caricatura della vita moderna in genere e non siamo noi in realtà una specie di memento per l’Occidente, che gli svela il suo latente destino? ».

Noi italiani avevamo ricominciato a stimare il coraggio di dare la vita per un ideale durante la stagione del terrorismo, e la figura che meglio rappresentava questo impeto commovente era quella del vecchio Sandro Pertini. Partigiano, socialista, incarnò una volontà di resistenza contro la violenza e il terrore come mai un uomo politico era riuscito a fare. Tutti questi slanci e lo stesso riarmo sarebbero tuttavia stati insufficienti senza l’avvento di un uomo che doveva cambiare la Storia: Giovanni Paolo II. L’attentato di piazza S. Pietro, il 13 maggio 1981, fu la dimostrazione più chiara che quel prete era il più pericoloso nemico della strategia sovietica. Gli ideologi comunisti avevano trovato in lui l’unico avversario che potesse surclassarli in quella che James Burnham chiamava polwar, ossia «la politica come continuazione della guerra con altri mezzi», arte nella quale i detti ideologi erano stati fin qui maestri.

All’inizio del 1984, il 9 febbraio, in URSS si spegneva Yuri Andropov e gli succedeva Kostantin Cernenko, settantaduenne privo di personalità e ancor più di salute fisica. Coloro che dirigevano la politica sovietica erano altri personaggi, ben più capaci e potenti: il maresciallo Nikolai Ogarkov, ministro della Difesa, o Andrej Gromiko, abilissimo ministro degli Esteri, capace di mettere in scacco qualsiasi delegazione diplomatica occidentale. Sui rapporti tra URSS e Stati Uniti era ormai calato il gelo più mortale. Ogni trattativa si era interrotta sulla questione dei cosiddetti “euromissili”, vettori tattici che avrebbero messo in grado la NATO di colpire obiettivi strategici del Patto con grande precisione. L’unica risposta che venne dal Cremlino fu la decisione di non far partecipare rappresentanze del blocco comunista alle Olimpiadi di Los Angeles. Era un gesto molto forte e che non venne sottovalutato. L’aggressività verbale sovietica divenne crescente fino a raggiungere, in luglio, toni di vera offensiva ideologica, preparatoria di un’iniziativa militare di portata incalcolabile. L’oggetto di questa offensiva era, in particolare, la questione della fedeltà dei Partiti Comunisti occidentali alle iniziative sovietiche. Molti si insospettirono di fronte a un tentativo così manifesto di rinsaldare schieramenti ideologici che l’“eurocomunismo” di un Enrico Berlinguer, per quanto fallito miseramente, aveva però contribuito a far saltare, almeno a livello culturale. Quando, a metà luglio, si fece inevitabile lo scontro armato tra i blocchi, si radicalizzò la frattura tra quanti, nel PCI, non intendevano abbandonare la fedeltà al comunismo sovietico e quanti, in numero sempre maggiore per quanto minoritario, ritenevano che la linea tracciata da Antonio Gramsci verso una conquista culturale e politica del potere fosse da preferire alla lotta armata. La morte di Berlinguer, il 7 giugno 1984, durante un comizio per le elezioni europee, provocò commozione in tutta Italia e rafforzò quanti ritenevano preferibile lo “strappo” a un tradimento del loro Paese.

Il 28 luglio si aprirono le Olimpiadi di Los Angeles, in un clima di gelido terrore. Il mondo era sull’orlo dell’incubo più spaventoso della storia umana: l’annientamento nucleare. Proprio in quel periodo stavano per terminare le più grandi esercitazioni mai eseguite dal Patto di Varsavia. Tutte le divisioni di prima linea erano al confine con l’Europa occidentale, mentre notizie certe riferivano di un’imponente mobilitazione delle forze di seconda e di terza schiera.

Martedì 31 luglio era il giorno di sant’Ignazio di Loyola, un guerriero che aveva saputo trovare la pace. Giovanni Paolo II, avendo saputo da fonti sicure dell’imminente attacco delle forze armate comuniste, dopo una notte trascorsa in preghiera indirizzò un messaggio urbi et orbi che suonò come una mobilitazione generale. «Solo la verità – disse il pontefice – è la forza della pace»; senza verità non c’è giustizia, e di fronte a un’aggressione ingiusta di un potere totalitario non può esservi resa. Il mondo era in pericolo, la Chiesa era in pericolo e non restava che opporsi a quella palese sopraffazione, anche con le armi. L’invito era rivolto ai soldati di tutto il mondo; a quelli che, come me, l’8 aprile di quell’anno avevano partecipato alla grande udienza in piazza S. Pietro per l’Anno Santo straordinario. Anche i giovani che militavano nelle forze del Patto di Varsavia erano chiamati a vivere nella verità, in special modo i soldati polacchi, i cui padri si erano sacrificati per liberare l’Europa dalla tirannia nazista.

Il proclama trovò eco nelle dichiarazioni di molti capi di Stato occidentali. Per i toni particolarmente accesi si distinsero Reagan e Pertini, per quanto le loro personalità fossero distanti. Il presidente americano richiamò i suoi compatrioti alla missione di libertà che già altre due volte, in quel secolo, li aveva portati a combattere in Europa. Il presidente italiano non esitò a ricordare una Resistenza che mai come allora apparve piena di senso e di esempio per le giovani generazioni, tacciando di tradimento quanti si preparavano ad appoggiare il nemico e ridestando nella nazione un sentimento patriottico quale non si conosceva dalla Grande Guerra.



La battaglia per l’Europa.
Il 5 agosto era una domenica. Ma la circostanza non prese di sorpresa i comandi NATO, ormai preparati allo scontro. Su un fronte che andava da Capo Nord a Istanbul divamparono combattimenti di una violenza apocalittica. I nuovi sistemi d’arma rivelarono tutta la loro letalità: una perfezione e una potenza impressionanti, soprattutto quelli destinati a eliminare carri, aerei, navi, tutto ciò che fosse particolarmente costoso e complesso. Una volta, forse, era possibile al soldato salvarsi con la fuga, ora non più. Il dato più terrificante è quello relativo alla battaglia del Mediterraneo: i russi e i loro alleati libici e siriani impressero alla lotta un ritmo frenetico. Chi sparava per primo era destinato a sopravvivere, eliminando l’avversario. I sovietici sopperirono alla loro inferiorità navale con massicci attacchi di Tu 26 provenienti dalle basi del Mar Nero. Solo nelle prime quarantott’ore di guerra la Task Force che proteggeva la portaerei Nimitz venne completamente distrutta e pari sorte toccò alla maggior parte della flotta italiana. L’ammiraglia Vittorio Veneto, le fregate Euro, Grecale, Lupo, Perseo e Impavido furono colate a picco, mentre i nostri sommergibili a motore diesel annaspavano contro i potenti sottomarini nucleari sovietici. I nostri G-91 riuscirono ad affondare la portaerei Minsk e altre navi da battaglia venivano colate a picco dalla nostra flotta. Ciò nonostante la marina e l’aviazione sovietica avevano vinto la battaglia del Mediterraneo, eliminando la VI flotta americana e quella italiana. Quella francese, che operava nel Tirreno, riuscì a contenere i danni. Anche le perdite russe furono altissime, ma quando la flotta del Mar Nero varcò il Bosforo, un mese più tardi, non trovò avversari.

Sul fianco settentrionale della NATO si combatteva un’altra battaglia, ancor più decisiva. L’attacco sovietico alla Norvegia aveva come obbiettivo finale l’interruzione delle comunicazioni attraverso l’Atlantico. Qualora, infatti, i russi si fossero impadroniti delle basi aeree e navali da Narvik a Capo Nord, la Flotta del Mare del Nord avrebbe potuto operare indisturbata sui traffici alleati che sarebbero stati colpiti anche dall’aviazione sovietica. Era quindi vitale per l’Alto Comando Alleato impedire che le forze del Patto occupassero la Norvegia centrale e meridionale. Eppure qualsiasi sforzo sarebbe stato vano se Finlandia e Svezia si fossero arrese senza combattere e avessero permesso il transito della 54a divisione meccanizzata. Fu la Finlandia, imprevedibilmente, a combattere per prima, attaccando con grande decisione le colonne sovietiche. A Rovaniemi e a Sodankila, la 54a divisione sovietica subì perdite insostenibili che la eliminarono come forza combattente, pur avendo raggiunto gli obbiettivi previsti. In Norvegia lanci di paracadutisti e sbarchi di fanti di marina permisero ai russi di conquistare Banak, Bardufoss, Andoya e Kirkenes: conquiste che sarebbero divenute definitive solo se la 76a divisione sovietica fosse riuscita a ricongiungersi con le forze d’assalto, il che non avvenne.

Fu proprio nei primi giorni di guerra che si compì la tragica epopea del battaglione alpini Susa. Incorporato da anni nella Forza Alleata Mobile insieme a commandos olandesi e paracadutisti britannici, aveva sempre mantenuto altissimo il proprio addestramento, raggiungendo un’efficacia almeno pari a quella dei più quotati colleghi stranieri. Il contrattacco alleato vide il battaglione protagonista dell’assalto a Bardufoss e dell’annientamento dei parà sovietici del Distretto di Leningrado, nonché della controffensiva che doveva bloccare in modo definitivo l’avanzata russa all’altezza di Tromso. Fu qui che, nel corso di un eroico attacco frontale condotto assieme agli olandesi, il battaglione fu annientato: il sacrificio del Susa permise però ai parà inglesi del leggendario 2° battaglione di aggirare con gli elicotteri le posizioni russe e di imbottigliare, annientandola, buona parte della 76a divisione. Era il 15 agosto e anche la Svezia aveva deciso di resistere: le sue forze armate, notevolmente superiori a quelle finlandesi, fecero scempio dei russi e, per la fine del mese, le forze alleate avevano riguadagnato tutto il terreno perduto. La Flotta del Mare del Nord non poté operare liberamente, tartassata dall’aviazione alleata, e la rotta dell’Atlantico fu così mantenuta libera. Come nelle due guerre mondiali precedenti, la battaglia dei convogli doveva rivelarsi decisiva per l’esito della grande battaglia che si combatteva nel continente europeo.

Quando fui mandato al fronte con il comando brigata della Legnano, non potevo sapere tutto questo. È innegabile che tutti temevamo ciò che ci attendeva, dal comandante, generale Puccio, all’ultimo najone. Il nostro esercito, così vituperato e sfottuto, avrebbe retto all’urto delle divisioni sovietiche? Le notizie che arrivavano erano sconvolgenti, anche se prevedibili. Tutta la linea avanzata di difesa della NATO in Germania era stata travolta. Berlino era caduta in mano polacca, già alla sera del 6 agosto, Vienna e Linz si erano arrese. Non passava giorno senza che ci fosse la notizia di qualche grave disastro. Le armate sovietiche dilagavano in Slovenia e Croazia e già il 10 agosto Zagabria era isolata. L’esercito romeno intraprendeva una sistematica distruzione delle forze jugoslave schierate lungo il Danubio e il 9 arrivava ai sobborghi di Belgrado. L’esercito italiano non si mosse per aiutare gli sloveni: troppo alto era il rischio di vedersi distruggere il più e il meglio delle nostre forze con il risultato di sguarnire le difese della “soglia di Gorizia”. La nostra aviazione, al contrario, si batté con abnegazione, subendo perdite tremende soprattutto fra i Tornado. Gli unici che presero l’iniziativa sul proprio fronte furono i turchi, che impegnarono l’esercito bulgaro in una lotta all’ultimo sangue, infliggendo e subendo perdite spaventose. In Germania le forze sovietiche sembravano senza opposizione: Kassel, Norimberga, Regensburg venivano occupate tra l’8 e il 9 agosto; Copenaghen, Amburgo e Monaco erano isolate e assediate.



Caduta di Istanbul, battaglia del Carso
Forse la svolta della guerra avvenne allora. Si era sempre pensato che i russi avrebbero evitato le grandi città e si sarebbero addentrati in profondità con alcune divisioni scelte, concentrate in gruppi operativi di manovra agili e potenti. Mossa che avrebbe disarticolato il fronte alleato, impedendo l’afflusso di rinforzi, annientando i depositi della riserva, conquistando città sguarnite di difensori. Se non fu così fu per merito delle forze alleate che, appoggiate alle grandi città come capisaldi, costituirono un fronte così continuo da non permettere alcuno sfondamento, obbligando le forze comuniste a una guerra di logoramento. La pianura era molto più impervia di quanto si era pensato, a causa della elevata urbanizzazione. L’impeto sovietico fu, in tal modo, frenato e le forze americane procedettero a una serie di terribili contrattacchi contro le forze polacche e cecoslovacche, infliggendo perdite così pesanti da provocarne l’uscita dal conflitto. Francoforte e Dortmund furono perdute e riconquistate mentre tutto il fronte centrale diventava un immenso tritacarne.

Il 18 agosto Belgrado si arrendeva e quanto restava dell’esercito jugoslavo si trincerava nel ridotto di Sarajevo. Il conflitto si allargava all’Albania, che attaccava la Grecia al passo di Klisoura mentre la Forza Alleata Mobile del Fronte Sud, costituita da parà e cavalleria francesi e dal battaglione S. Marco, sbarcava nell’Ellesponto e a Istanbul. Dal 15 al 30 agosto la capitale turca e Uskudar, sulla riva asiatica, furono teatro di pesantissimi combattimenti casa per casa. Sembrava che le forze russe non riuscissero a prevalere finché non furono impiegati i gas in quantità altamente concentrate e letali. I morti tra la popolazione civile furono decine di migliaia, ma, per i generali sovietici, non c’era altro modo per costringere i turchi alla resa e permettere alla Flotta del Mar Nero di entrare nel Mediterraneo. Uskudar si arrese, ma i parà della Legione Straniera continuarono a resistere fino al 12 settembre. Il battaglione S. Marco venne letteralmente stritolato a Gallipoli, dove aveva tentato l’estrema resistenza insieme ai resti dell’esercito greco. La flotta del Mar Nero era già riuscita a filtrare attraverso i Dardanelli e il Bosforo e aveva potuto far piazza pulita delle marine avversarie, appoggiando operazioni di sbarco lunga la costa adriatica italiana, allo scopo di spezzare un’imprevista e accanita resistenza.

Per il nostro esercito il momento della verità venne il 14 agosto. Mentre divisioni russe e ungheresi attaccavano Trieste e Gorizia, forze aeromobili sovietiche attraversavano l’Adriatico e attaccavano alle spalle il V° Corpo d’armata. Aerei inglesi e americani si prodigarono senza risparmio per frenare l’attacco russo, ma fu senza dubbio merito dell’Ariete e della Mantova se i russi non riuscirono a passare. Sui passi della Carnia la Julia e i parà della Folgore riuscivano a respingere l’attacco di una divisione corazzata della Guardia. Dopo tre giorni di combattimenti l’Ariete si ritirava dietro il Tagliamento, favorendo il formarsi di un pericoloso saliente. Fu a questo punto che la divisione Centauro, della quale facevo parte come ufficiale del corpo di Amministrazione, scattò all’attacco e travolse i paracadutisti ungheresi, debolmente attestatisi a sud del Piave. Non partecipai a nessun combattimento ma ricordo come fosse ora il volto dei ragazzi del battaglione carristi Pentimalli, dei bersaglieri del Governolo, dei fanti del Montelungo, esaltati per quella prima vittoria: non per aver battuto il nemico ma per essersi liberati dalla fama di eterni sconfitti che decenni di cattiva propaganda aveva instillato nei loro cuori. Nei giorni successivi venivano pure distrutte una brigata eliportata sovietica e una brigata cecoslovacca di parà che avevano cercato di asserragliarsi in Padova. La brigata Pinerolo, che aveva partecipato con slancio alla battaglia, subiva perdite tali da determinarne l’immediato scioglimento. Per tutto agosto l’esercito italiano oppose una resistenza durissima, abbandonando Trieste perché indifendibile ma continuando ad aggrapparsi a ogni appiglio tattico del territorio. Solo nella notte del 28 parve aprirsi una voragine nello schieramento italiano con la distruzione di due terzi del V° corpo d’armata. Gravissime anche le perdite russe. La nostra resistenza fu così ostinata che Belluno fu bombardata con armi atomiche. Julia, Tridentina e Orobica sparirono nella fornace mentre la nostra brigata lanciamissili Aquileia rispondeva con i suoi missili Lance a testata nucleare annientando una divisione della Guardia. Dopo di allora non furono più usate armi del genere, ma la battaglia continuò. Una brigata di elicotteristi ungheresi varcò l’Adriatico e occupò Ancona con un colpo di mano, comparendo dal mare come in una scena di Apocalypse Now mentre la flotta sovietica entrava nel porto. Il governo italiano era ormai costretto alla resa, ma la battaglia non poteva più essere fermata.

Quanto a me, mentre ripiegavamo su Venezia, fummo intercettati da una colonna di blindati sovietici e ciò che restava della “Legnano” fu fatto a pezzi. Abbandonai il camion dove si trovava la cassaforte da campo e, senza pensare, mi stesi a terra col mio capitano dietro una Mg 42, aprendo il fuoco: un exploit che durò pochi minuti perché attirammo il tiro nemico e fummo centrati da una raffica. La testa del capitano esplose e vidi solo un lampo rosso e caldo. Rinvenni più tardi, il volto ridotto a una poltiglia sanguinosa. Fui recuperato da un drappello di partigiani che mi curarono sommariamente. Soltanto dopo la guerra potei essere ricoverato in un ospedale, dove mi tolsero una quantità di schegge che mi avevano devastato la faccia. Fino allora non sapevo che un tipo di ferita comune in guerra viene causato dalle ossa e dai denti dei camerati che ti muoiono accanto. Il 15 dicembre mi tolsero dalla guancia sinistra l’ultimo molare del povero capitano.



Svolta in Germania, fine della guerra
Gli ungheresi non riuscirono a passare il Piave. Come era accaduto ai loro nonni nel 1918, furono bloccati sull’ultima linea di resistenza. L’aiuto logistico americano sopperì alla nostra mancanza di materiali, così come prezioso si rivelò l’intervento della Brigata Autonoma Portoghese e di due divisioni della Guardia Nazionale americana. Fondamentale fu pure la vittoria riportata dalle forze dell’ordine, Carabinieri e Polizia, contro centinaia di partigiani comunisti che avevano ripreso le armi e avevano cercato di appoggiare l’invasione. I depositi di armi erano stati individuati da tempo e le bande furono sgominate, tranne alcune, come ad Ancona, dove membri del PCI locale cooperarono efficacemente con gli ungheresi.

Era ormai metà settembre e la situazione sul fronte del Reno era quanto mai confusa. I russi non erano riusciti ad attraversare il fiume se non con tre divisioni aerotrasportate, subito distrutte dagli americani e dal contingente spagnolo. Per centinaia e centinaia di chilometri si vedevano carcasse annerite di automezzi, migliaia e migliaia di cadaveri che nessuno si preoccupava di inumare, città e campagne devastate dai combattimenti e dalle esplosioni delle bombe nucleari tattiche. Il Patto impiegò largamente anche i gas, sia nervino che vescicante, e la popolazione civile ne soffrì orribilmente. Eppure, nonostante tutto questo, città come Hannover, Amburgo, Monaco, Copenaghen, resistettero per settimane finché la loro resistenza non fu piegata dalle bombe nucleari tattiche. All’inizio di settembre tutto sembrò perduto per la NATO. Il British Army On Rhine, il corpo di spedizione britannico, si fece annientare al completo a Bielefeld piuttosto che ritirarsi di un passo, causando alle ondate d’assalto russe e tedesche orientali perdite enormi. Ma i russi avevano infine la loro occasione: davanti alle loro divisioni corazzate non c’era più nulla fino al Basso Reno in Olanda. Fu proprio allora, nella notte del 3 settembre, che uno stormo di bombardieri B-52, provenienti dalla base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, colpì l’unico Gruppo operativo di Manovra rimasto al Patto di Varsavia, seppellendolo sotto un diluvio di bombe ad alto potenziale. Tale operazione fu resa possibile dal riconquistato dominio dell’aria da parte degli Alleati dopo una lunga, cruentissima lotta nella quale, più che l’abilità dei piloti, contò la capacità logistica delle infrastrutture, scarsa per il Patto di Varsavia, quasi ottimale per l’Alleanza Atlantica.

La guerra continuò ancora per settimane dopo quello strike così decisivo. Francoforte e Mannheim erano ridotte a cumuli di macerie quando furono conquistate dai russi il 6 settembre, ed erano ridotte ancora peggio quando i Panzergrenadieren tedeschi le riconquistarono a viva forza. Ognuna delle due parti era completamente esausta. La popolazione civile aveva subito perdite che ancora oggi sono difficilmente calcolabili. Le forze armate francesi si erano battute con abnegazione, ma erano sull’orlo del crollo. Solo i nuovi reparti della Guardia Nazionale Americana erano in grado di contrastare l’ultima offensiva russa. Qualsiasi trattativa, del resto, era impossibile, giacché i capi di Stato occidentali se ne stavano ben nascosti per sfuggire agli attentati che avevano seminato il terrore nelle capitali. Da tempo si sospettava che il KGB avesse agenti dormienti all’interno delle strutture di potere occidentali, ma solo in quei giorni se ne ebbe la prova. Bettino Craxi fu trovato sgozzato nel suo studio a palazzo Chigi, né si è mai saputo il nome dell’assassino. Margaret Thatcher fu fatta saltare in aria insieme alla sua scorta con un’autobomba e Helmut Kohl fu falciato da una raffica di Skorpion da uno dei suoi più stretti collaboratori. Eppure tutto questo non bastò. Di fronte alla concreta prospettiva di un olocausto nucleare il generale Jaruzelski ordinò a ciò che restava dell’esercito polacco di volgere le armi contro i contingenti sovietici, composti da reclute asiatiche male armate e addestrate. Il suo esempio fu seguito dai cecoslovacchi e dagli ungheresi in Italia.

La guerra era finita. Il Patto di Varsavia fu sciolto e la stessa Unione Sovietica divenne una Confederazione di Stati Indipendenti, dissolvendosi sotto spinte centrifughe sempre più incontrollabili. Resta da chiedersi se tale risultato doveva essere raggiunto a prezzo di tante sofferenze. Soltanto l’esercito italiano ebbe 50.000 morti e 70.000 feriti su 300.000 effettivi. Intere zone europee furono ridotte a deserti nucleari e una di queste era il Bellunese. Incalcolabili i danni materiali, interi patrimoni artistici spariti per sempre: d’accordo, ne valeva la pena, ma non se ne poteva fare a meno? Forse se l’arsenale di Severomorsk fosse saltato in aria il 13 maggio del 1984 io non dovrei stare qui da solo, la faccia devastata e illuminata dalla luce del computer. Ma è inutile fare speculazioni: con i se e con i ma la Storia non si fa.

Tratto da il Domenicale del 7 agosto 2004: http://www.ildomenicale.it

 


 

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