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“Gli Stati Uniti temono la morte”. Non sono le parole della propaganda salafita o del leader della Corea del Nord, ma quelle del vice ammiraglio della marina cinese Luo Yuan, teorico militare presso l’Accademia delle Scienze Militari del Pla (People’s Liberation Army). Lo scorso 20 dicembre, come riporta il sito National Interest, l’ammiraglio, durante un discorso tenuto nella città di Shenzen, ha apertamente espresso il suo animo bellicoso affermando: “Adesso abbiamo i missili Dong-Feng-21D e Dong Feng-26. Questi sono killer di portaerei. Attacchiamo e affondiamo una delle loro portaerei. Infliggiamo loro 5mila perdite umane. Attacchiamo e affondiamo due portaerei, 10mila perdite. Vediamo se gli Stati Uniti hanno paura o no?”.

Non è un caso isolato.
Quello dell’ammiraglio Luo Yuan non è un caso isolato. Non si tratta di un falco che parla per sé stesso, ma rappresenta una linea politico/strategica condivisa da alcuni esponenti delle Forze Armate cinesi e da elementi di spicco del Partito Comunista Cinese. Ancora a dicembre, Dai Xu, presidente dell’Istituto di Sicurezza e Cooperazione Marittima di Pechino e colonnello dell’Aeronautica Militare Cinese, durante una conferenza nella capitale aveva espressamente affermato che un incidente nel Mar Cinese Meridionale con la Us Navy sarebbe auspicabile per poter rispondere in modo adeguato e scatenare un conflitto che porterebbe, come conseguenza, alla riunificazione di Taiwan alla Cina. “Accelererebbe il processo di unificazione con Taiwan… Cerchiamo solo di essere preparati e di aspettare. Una volta che si paleserà l’opportunità strategica dobbiamo essere pronti per attaccare Taiwan sono state le parole del colonnello. Anche al di fuori del mondo militare, come detto, la narrazione è altrettanto bellicosa. Secondo alcuni accademici cinesi, come il professor Huang Jing, la politica estera americana non è più in grado di competere con quella cinese nell’attrarre consenso e supporto di altri attori della regione asiatica. In Cina, quindi, soffia un vento diverso, un vento foriero di nuvole tempestose ed è proprio grazie alla nuova politica di Xi Jinping – ed alle attuali congiunture internazionali – che questa filosofia bellicosa sta prendendo piede. Lo stesso Xi ha recuperato, come noto, la filosofia maoista di accentramento del potere che ha portato con sé il recupero della retorica antiamericana. Le epurazioni condotte da Xi di elementi corrotti all’interno dell’establishment – sia tra i militari sia tra i funzionari di partito – oltre a provocare malumori hanno accentuato questa virata “ideologica” del PCC e del PLA. Eliminate le mele marce posti chiave sono stati affidati a uomini di comprovata fiducia “Jinpinghista” e meno avvezzi al traccheggio e al mercantilismo che aveva generato la corruzione che rischiava di frenare la svolta di ringiovanimento della Cina voluta dal presidente. Il cambio di atteggiamento verso gli Usa però non è solo una questione filosofica, ma è stato anche dettato da particolari ragioni contingenti presenti e del passato più o meno recente.

Il tardivo cambio di passo degli Stati Uniti.
Il segnale che ci sia attualmente una piccola rivoluzione all’interno del Comitato Centrale è stato dato anche dal fatto che la quarta assemblea plenaria è stata posticipata. La ragione, individuata da diversi analisti, è proprio perché l’attuale guerra commerciale che gli Stati Uniti stanno muovendo alla Cina sta cominciando ad avere i suoi effetti andando ad intaccare il bilancio del sistema socio-economico. “La politica Usa verso la Cina si è spostata marcatamente dalla cooperazione alla competizione, uno sviluppo che minaccia la sopravvivenza del regime” ha fatto notare il sito SinoInsider lo scorso ottobre “pertanto Xi Jinping ha la necessità di radunare le élite del partito in sessione plenaria per poter affrontare in un solo momento le crisi interne ed esterne”. La guerra dei dazi di Trump, però, non va letta come un attacco diretto alla Cina, anche se de facto si tratta di questo, ma come una necessità dettata da considerazioni di economia interna: rendere i prodotti statunitensi più competitivi sul mercato globale e rilanciare la produzione nazionale. Niente di più del “America First” propagandato in campagna elettorale dal Presidente Usa. La retorica bellicosa della Cina, però, non è solamente legata alla competizione sul piano economico. Pechino, oggi, si sente più forte perché, anche al netto delle novità tecnologiche nel campo degli armamenti, gli Stati Uniti hanno abdicato al loro ruolo di gendarmi del mondo in particolare nello scacchiere asiatico, dove la politica del Pivot to Asia di Obama è stata un totale fallimento, col senno del poi. Se infatti gli analisti cinesi sono in grado di dire che Washington non è più il punto di riferimento per i Paesi asiatici è proprio perché gli Stati Uniti hanno sottovalutato quello scacchiere con scelte sbagliate effettuate dall’amministrazione precedente. Per onor di verità anche le parole di Trump a poca distanza dal suo insediamento hanno contribuito, negli alleati asiatici degli Usa, a fomentare quel sentimento di “abbandono” che è così ben evidenziato dalla corsa al riarmo effettuata dal Giappone, ma tuttavia l’attuale amministrazione ha avuto il pregio di aver parzialmente risolto, o quantomeno congelato, la crisi nordcoreana anche e soprattutto grazie alle dimostrazioni di forza militare.

Sarà guerra?
Uno scontro armato, magari per la questione della libertà di navigazione nel Mar Cinese Meridionale, ormai considerato da Pechino come “acque territoriali”, non è da escludere. Come reazione ad una eventuale scaramuccia da quelle parti, la Cina potrebbe, come abbiamo visto, approfittarne per risolvere la questione di Taiwan. Il problema però risulta nascere dall’escalation che ne deriverebbe. Pechino sa che, nonostante i suoi missili “killer di portaerei” ed i nuovi sistemi ipersonici, il suo arsenale atomico impallidisce davanti a quello statunitense, e gli Stati Uniti non hanno alcun interesse ad essere i primi a premere il bottone di un conflitto atomico che raderebbe al suolo la Cina. In quel di Pechino però sanno che negli Usa stanno mettendo a punto nuove armi atomiche tattiche – o di basso potenziale – così come sanno che sono in possesso di armi convenzionali di alta potenza ed elevatissima precisione che potrebbero essere impiegate per un attacco preventivo seguendo la dottrina del Prompt Global Strike. In questo momento gli Stati Uniti sono in una delicata fase di transizione e di rimodernamento delle proprie Forze Armate che devono recuperare il gap tecnologico almeno sulle armi ipersoniche e si trovano ad affrontare enormi problemi di gestione della manutenzione delle proprie linee di volo. Questo fattore potrebbe quindi invogliare i falchi di Pechino a fare la prima mossa contando proprio sulla debolezza del proprio avversario sapendo che non impiegherebbe il proprio arsenale atomico perché vorrebbe dire assumersi una responsabilità troppo grande agli occhi della comunità globale. D’altro canto la Cina non sarebbe nemmeno pronta per un conflitto su vasta scala perché non possiede ancora quegli asset per la proiezione di forza – come le portaerei – in numero tale da poter efficacemente supportare operazioni anfibie a grande distanza. In questo momento però Pechino si sente abbastanza forte da poter minacciare quei territori più vicini ai propri confini, come Taiwan, le isole Senkaku ed il Mar Cinese Meridionale, che rientrano perfettamente nel proprio ombrello difensivo.

Fonte: http://www.occhidellaguerra.it

 

 

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