Durante l’assedio di Leningrado alcuni botanici si nascosero in un caveau, dove preferirono lasciarsi morire di fame piuttosto che consumare la raccolta di semi che avevano il compito di custodire per un mondo post-apocalittico. Nikolay Vavilov, l’uomo che aveva raccolto i semi, subì una sorte analoga, morendo di fame nei gulag staliniani.

 

 

Nel settembre del 1941, quando le forze tedesche iniziarono ad assediare Leningrado, impedendo ai due milioni di abitanti della città di ricevere approvvigionamenti di cibo, ci fu chi - pur disponendo di “cibo” in quantità - preferì lasciarsi morire di fame. Mentre gli invasori tedeschi si riversavano in città, alcuni scienziati e dipendenti dell’Istituto di botanica applicata si barricarono all’interno del loro caveau. Non intendevano salvare la propria vita, bensì salvaguardare il futuro dell’umanità, dal momento che gli era stato affidato il compito non invidiabile di proteggere la più ampia collezione di semi al mondo, sia dai cittadini sovietici, stremati dalla fame, che dalla furia dell’esercito tedesco. Durante l’assedio, che si protrasse per più di novecento giorni, uno di questi eroici individui iniziò a morire di fame. Tuttavia, nessuno di loro toccò il prezioso tesoro che gli era stato affidato, salvandolo a costo - letteralmente - della propria vita. Ma le crudeli coincidenze del destino non finiscono qui: anche Nikolay Vavilov, il genetista e agronomo russo a cui si deve questa grande collezione di semi, morì di fame, in una prigione sovietica di Saratov.

I semi per il futuro.
Spinto dalla passione per l’ecosistema alimentare globale e convinto di svolgere una “missione per il bene dell’umanità”, Vavilov aveva attraversato cinque continenti e condotto esperimenti di coltivazione genetica mirati ad aumentare la produttività dell’agricoltura. Per molti anni, mentre la Russia viveva rivoluzioni, anarchia e carestie, Vavilov aveva continuato a raccogliere e conservare semi nell’Istituto di botanica applicata. Lo studioso sognava un futuro utopico nel quale nuove pratiche e conoscenze agricole avrebbero portato alla creazione di “super piante” in grado di crescere in qualsiasi ambiente, e quindi di porre fine alla fame nel mondo. “Fu uno dei primi scienziati ad ascoltare realmente gli agricoltori e i contadini di tutto il mondo, chiedendo loro perché ritenessero che la diversità dei semi fosse tanto importante per i campi”, spiega l’etnobiologo Gary Paul Nabhan, che nel libro “Da dove viene il nostro cibo” ripercorre gli sforzi compiuti da Nikolay Vavilov per sterminare la fame nel mondo. “Tutte le nostre conoscenze sulla diversità biologica e la necessità di mangiare una varietà di cibi per mantenerci in salute derivano da questa opera scritta ottanta anni fa”, aggiunge Nabhan. “Se il mondo fosse un luogo giusto, Vavilov oggi sarebbe famoso quando Darwin o Luther Burbank”.

Il capro espiatorio di Stalin.
All’epoca di Stalin però il mondo non era affatto giusto. Vavilov voleva incrementare la produttività agricola in modo da eliminare le frequenti carestie. Sostenitore della teoria mendeliana, secondo la quale i geni si trasmettono immutati da una generazione a quella successiva, divenne il principale oppositore di Trofim Lysenko: lo scienziato prediletto da Stalin. Lysenko rifiutava i postulati mendeliani e aveva sviluppato un movimento pseudo-scientifico chiamato lysenkoismo, le cui teorie ciarlatanesche sull’incremento dei raccolti ottennero il sostegno di Stalin. La collettivizzazione forzata imposta nei primi anni Trenta in alcune regioni dell’Unione Sovietica aveva causato carestie e scarsa produttività. L’influenza esercitata da Lysenko su Stalin fu tale che nel 1948 il dissenso scientifico sulle sue teorie riguardo all’eredità acquisita fu ufficialmente vietato. La collettivizzazione dei terreni agricoli privati messa in atto da Stalin aveva prodotto scarsi raccolti in tutta l’Unione Sovietica e il dittatore, che aveva bisogno di un capro espiatorio per giustificare il fallimento della sua politica e le carestie scelse Vavilov, che nella sua ottica deformata era responsabile delle carestie perché il suo procedimento di selezionare attentamente i migliori esemplari di piante avrebbe richiesto molti anni prima di dare frutti. Così un giorno, mentre era intento a raccogliere semi lungo il confine russo, Vavilov fu prelevato dagli agenti dei servizi segreti. Nel caos della Seconda guerra mondiale nessuno, compresi suo figlio e sua moglie, sapeva dove si trovasse. In “Leggere Nikolay Vavilov”, Geoff Hall scrive che “nel tentativo di estorcergli una confessione, e prima di sottoporlo a un processo fittizio, la polizia di Stalin sottopose Vavilov a millesettecento ore di violenti interrogatori, condotti da un ufficiale noto per i suoi metodi estremi e suddivisi in quattrocento sedute che in alcuni casi si protrassero per tredici ore. A differenza di Galileo Vavilov non ripudiò mai le proprie convinzioni, nemmeno durante la lunga ascesa di Lysenko, e affermò anzi che: “andremo al rogo, bruceremo, ma non rinunceremo alle nostre idee”. Lo scienziato, scrive Nabhan, “morì di inedia dopo essersi cibato per più di un anno e mezzo di cavolo ghiacciato e farina rancida”. E aggiunge: “Colui che ci ha insegnato la maggior parte di ciò che oggi sappiamo riguardo all’origine dei cibi che mangiamo, e che oltre cinquant’anni fa tentò di estirpare la fame nel mondo, è morto di fame in un gulag sovietico”. Era il 1943, e Leningrado era ancora assediata dai tedeschi. Una decina di scienziati di Vavilov, barricatisi nel caveau segreto dell’Istituto d botanica, preferirono morire di fame piuttosto che cibarsi dei semi (trecentosettantamila varietà) che erano stati loro affidati. “Uno di loro disse che mentre svegliarsi, alzarsi e vestirsi al mattino era difficile, proteggere i semi non lo era, una volta che ci si fosse convinti a farlo”, scrive Nabhan. “Salvare quei semi per le generazioni future e aiutare il mondo a riprendersi dopo la guerra era molto più importante del disagio di una singola persona”.

Il retaggio di Vavilov.
Nei venticinque anni durante i quali Lysenko influenzò la biologia sovietica, una buona parte dei semi raccolti da Vavilov persero di vigore e divennero inutilizzabili. Malgrado ciò, racconta nel 1979 lo scrittore russo Genady Golubev, “nell’ottanta percento di tutti i terreni agricoli dell’Unione Sovietica si coltivano varietà di piante che derivano dalla collezione di Vavilov”. Durante la sua vita Vavilov condusse centoquindici spedizioni in sessantaquattro Paesi, tra cui Afghanistan, Iran, Taiwan, Korea, Spagna, Algeria, Palestina, Eritrea, Argentina, Bolivia, Perù, Brasile, Messico e Usa - dove raccolse semi di ogni varietà. Grazie agli appunti di Vavilov, i biologi moderni sono in grado di documentare le mutazioni del paesaggio culturale e fisico e l’alternarsi delle coltivazioni nelle zone da lui osservate Stando a Rafael J. Routson, del dipartimento di geografia e sviluppo regionale dell’Università dell’Arizona a Tucson: “Gli appunti presi da Vavilov sono molto dettagliati, e possono essere usati ancora oggi per valutare le relazioni tra clima e raccolti”. Il genetista russo Ilya Zacharov scrive che Vavilov “era molto efficiente e possedeva un’energia inesauribile”. In un articolo apparso nel 2005 sul “Journal of Bioscience”, Zacharov ha scritto che: “Nel corso della sua vita relativamente breve, egli fece tantissimo: viaggiò in tutto il mondo, formulò dei postulati di genetica molto importanti, scrisse più di dieci libri e organizzò un sistema di istituti agricoli nell’Urss: un’impresa ciclopica”. Stando a quanto riferito a Nabhan da un contadino etiope, Vavilov possedeva “la singolare capacità di individuare con precisione le zone ad alta diversità”. Un anziano agronomo del Kazakhstan che da bambino guidò Vavilov nelle foreste di meli selvatici, ricorda che questi “Capiva tutto... Dopo poco più di una giornata trascorsa sul campo”. Vavilov infatti compiva progressi a ritmo spedito, commentando spesso: “il tempo vola e c’è tanto da fare. Occorre sbrigarsi”. Di certo non sapeva che sarebbe finito in una tomba anonima in uno dei gulag di Stalin. Se il grande scienziato fosse sopravvissuto, l’Unione Sovietica non avrebbe mai subito quei cattivi raccolti che sconvolsero la pianificazione centralizzata. In definitiva, l’inefficienza cronica del Paese fu più determinante della guerra afghana nel determinare il collasso di quell’intero sistema.

Fonte: http://it.rbth.com

 


 

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