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Non solo gli hacker, i leaks di Assange anticipati da "Russia Today" e in generale le strizzate d’occhio tra Putin e Trump: un po’ tutto quello che sta accadendo in Occidente sarebbe il frutto di una abile campagna di destabilizzazione condotta da Putin, ma teorizzata prima ancora che Putin venisse al potere. Il tutto sarebbe stato messo nero su bianco in "Osnovy geopolitiki: geopoliticheskoe budushchee Rossii" ( "Fondamenti di geopolitica: il futuro della Russia" ) opera del 1997 del politologo e filosofo Aleksandr Dugin, usata come libro di testo dall’Accademia Militare dello Stato Maggiore delle Forze Armate della Federazione Russa.

 

 

Tra i vari consigli per ottenere una Europa «finlandizzata» sotto influenza russa vi sono ad esempio quelli di «fare in modo che la Gran Bretagna esca dall’Unione Europea; agevolare la presa di potere della Germania sugli Stati cattolici e protestanti dell’Europa continentale; incoraggiare lo sviluppo del nazionalismo di destra in America; incoraggiare tensioni razziali tra gruppi di neri militanti e i nazionalisti di destra».

Analisti e think tank di area atlantica da tempo si stanno preoccupando di questo scenario, e l’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici vi ha ad esempio di recente dedicato a Roma ben due convegni. Uno, il 9 giugno, era sul Soft Power russo: «La lotta di Mosca per l’influenza in Europa e il modo in cui dovremmo rispondere».

Il 27 ottobre ne è poi seguito un altro su «L’Europa sotto attacco: verso una nuova strategia di sicurezza per fronteggiare un quadro di minacce sempre più insidioso». «Sono tre i pericoli», sintetizzò all’autore di queste note Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto. «Il primo è il terrorismo, che deriva dal caos in Medio Oriente, dalla diffusione del jihadismo, e anche dall’appoggio che il jihadismo ha da parte di determinati Stati della regione. Il secondo è l’immigrazione irregolare, che destabilizza e porta a problemi di coesione sociale interna e anche alla nascita di movimenti estremisti. Il terzo è la sfida russa: aggravata dal fatto che la propaganda putiniana sfrutta le altre due crisi per proporsi all’Europa come soluzione».

L’autore di queste note un paio di anni fa ebbe però modo di parlare proprio con lo stesso Dugin, allora ospite dell’XI Edizione del Workshop annuale di geopolitica ed economia internazionale del think tank Nodo di Gordio. Indicato come grande ispiratore occulto di Putin al punto di essere per ciò sanzionato dall’Unione Europea, tipica barba bionda da intellettuale russo e parlante tra le varie lingue anche un italiano abbastanza buono, Dugin si schernì: «No, non sono il consigliere di Putin».

Ma ammise che «questa idea è nata perché effettivamente Putin va nella direzione che io indico. Putin è un politico pratico e pragmatico, io sono un teorico che lavora con il mondo delle idee». A partire da quell’idea «eurasiana», da Putin in effetti trasposto in una Unione Eurasiatica creata nel 2014 tra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia.

«Per controbattere l’egemonismo americano», ci spiegò, «bisogna costruire un mondo multipolare, di cui è componente un polo indipendente euroasiatico da creare integrando lo spazio geopolitico euroasiatico attorno alla Russia. C’è una differenza tra spazio qualitativo, che forma il contesto della geopolitica, e tempo qualitativo, che forma il contesto della storia. L’unificazione dell’Eurasia nel contesto del territorio più o meno corrispondente all’ex-Unione Sovietica o all’ex-Impero Zarista è il destino, ma quando sarà realizzato dipende da fattori che è impossibile prevedere. Il geopolitico individua il contesto dello spazio che bisogna rispettare; il politico deve cercare il momento migliore per realizzare questi principi scritti nello spazio».

Dugin, comunque, non è un nazionalista estremista. Ammette infatti che «una civiltà non ha confini delimitati come uno Stato, perché è un’entità vivente. Le frontiere cambiano nella storia, e non è detto che l’Eurasia coinciderà esattamente con l’Urss o con l’Impero Zarista». Ragionando in modo sorprendentemente simile all’Huntington dello Scontro di civiltà, che definì ad esempio l’Ucraina come una tipica area di transizione: più che da reintegrare nello spazio russo, da assecondare nell’inevitabile frattura tra area pro-russa e area pro-occidentale.

Ci rassicurò anche sulla «naturale complementarietà tra un’Eurasia produttrice di materie prime, e un’Europa spazio industriale sviluppata tecnologicamente», definendo l’immagine di un’euroasianismo anti-europeista come una creazione degli Stati Uniti «per imporre all’Europa un tipo di unione transatlantica escludente verso l’Eurasia».

Definito spesso come una sorta di neo-fascista o di nazional-bolscevico, Dugin ci spiegò anche che la sua «quarta teoria politica» intendeva «andare oltre le tre teorie politiche classiche della modernità: il liberalismo, il social-comunismo e il nazionalismo-fascismo». «La quarta teoria politica è antiliberale, anticomunista e antifascista allo stesso tempo».

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it

 


 

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