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"Common Ground Between Islam and Buddhism" è un testo, del 2010, di Reza Shah Kazemi: ricercatore associato presso "l’Istituto di studi ismailiti" di Londra e specializzato in mistica comparata e Islam (in particolare Sufismo e Shiismo). Il testo viene introdotto da tre illustri personalità: Tenzin Gyatso (il quattordicesimo Dalai Lama), il principe Ghazi bin Muhammad e Shaykh Hamza Yusuf. Parliamo di un’opera che si presta ad essere definita rivoluzionaria, con un’analisi approfondita e uno sguardo alle convergenze tra le due grandi tradizioni religiose dell’Islam e del Buddhismo nonché tra alcuni, rispettivi, filoni mistico-esoterici. Pur riconoscendo le differenze fondamentali tra le due religioni, questo libro privilegia un approccio spirituale e metafisico per considerare le loro convergenze, evidenziando quanto le similarità superino le differenze. "Common Ground Between Islam and Buddhism" presenta dunque un collegamento rivoluzionario tra i loro comuni valori morali e fondanti, divenendo necessariamente una lettura obbligata per chiunque voglia approfondire la meravigliosa spiritualità musulmana da un lato ed alcuni aspetti profondamente rivoluzionari del Buddhismo dall’altro. Segue una breve recensione.

 

Al-haqq e Dharma.
Nell’Islam Al-Haqq o la “Verità/Realtà” — riferendosi alla Grandezza e Onnicomprensività di Allah — è uno dei concetti fondamentali per capire come adorare veramente Dio in quanto Uno. Possiamo dunque dire che il concetto di  Al-Haqq sia a fondamento di tutto il resto nell’Islam, comprendendo oltre alle nozioni di verità e realtà, anche quelle di ciò che è “giusto” e “dovuto”. Al-Haqq, quindi, è la verità e la realtà di ogni cosa sia in questo mondo che nelle dimensioni ultramondane. Del resto il Dharma — ovvero il concetto buddhista di realtà e ordine — è probabilmente interconnesso con i concetti di “Verità assoluta” e “Realtà” di Al-Haqq. Per i buddhisti, il Dharma è la realtà della sofferenza e della verità di questo mondo e, allo stesso tempo, la sua piena accettazione e pratica rappresenta il modo efficace per trascendere questo piano di esistenza che, nella sua veridicità, è il Dharma stesso.  Sebbene si possa discernere tra il fatto che il Buddhismo sia incentrato sulla verità spirituale in questo mondo laddove l’Islam ne propone una visione più olistica, propria tanto di questo mondo quanto della dimensione ultramondana, le sorprendenti affinità metafisiche tra Dharma e Al-Haqq non possono essere negate: in entrambi i casi c’è il riconoscimento della verità nella sofferenza e la necessità di superarla per raggiungere la “Verità” e la “Realtà”. È importante notare, tuttavia, che mentre la “Verità” nell’Islam è Dio, nel Buddhismo può rimanere un concetto più ambiguo, specialmente a fronte del silenzio buddhista su un Creatore (per quanto è doveroso chiarire che il Buddha non ne nega né afferma l’esistenza). Nonostante ciò, rimane ancora curiosamente interessante che entrambe le religioni si focalizzino, fondamentalmente, sulle nozioni di comprensione e di conseguimento di una “Realtà” e “Verità” superiori (Al-Haqq nell’Islam e Dharma nel Buddismo).

 

Il Buddha come messaggero.
Il Buddha è senz’altro una delle figure più importanti della storia umana, avendo contribuito a cambiarne il corso per una notevole fascia di popolazione nel mondo. Un termine che lui prediligeva per definirsi è Tathagata, ovvero: colui che è venuto e colui che è andato (da questo mondo). Descrivendosi in questo modo, il Buddha si collegava anche alla nozione islamica di messaggero come possiamo riscontrare dal seguente passaggio ripreso dall’antica scrittura buddista Majjhima Nikāya: “Lui (il Buddha) non è semplicemente un saggio o un moralista benevolo, ma l’ultimo nella linea dei Completamente Illuminati, ognuno dei quali sorge singolarmente in un’era di oscurità spirituale, scopre le verità più profonde sulla natura dell’esistenza, e stabilisce una Dispensazione attraverso la quale il cammino verso la liberazione diventa di nuovo accessibile al mondo”. (pag. 14) L’illuminazione del Buddha, rendendo il termine buddha con quello di “risvegliato”, è innegabilmente simile al concetto islamico di rivelazione divina e, nuovamente, di illuminazione. Sebbene sia importante riconoscere le differenze “evidenti” tra il concetto buddhista di illuminazione (che è un’esperienza interiore nonché “integralmente umana” di chi la vive, e che dunque può essere vissuta anche da altri che la dovessero ricercare) e l’equivalente concetto islamico (in cui una profezia è affidata, da Dio, a un individuo), è altrettanto importante comprendere la profondità dell’illuminazione del Buddha e dividerla in due nozioni separate: il suo personale sasana, o realizzazione piena, di cui il suo status di profezia e la nascita del buddhismo stesso sottolineano l’assoluta unicità e una nozione più ampia, in virtù della quale tutti coloro che seguono le sue orme possono raggiungere un certo livello di “verità” e saggezza. Questi due livelli di illuminazione del Buddha, uno più “esclusivo” e l’altro più “democratico”, sono simili alle nozioni islamiche di profezia e walaya o “coscienza santificata” della comunità dei primi seguaci che si raccolsero attorno al Profeta. Tanto nel caso del Buddhismo quanto in quello dell’Islam, esiste una forma d’illuminazione per l’individuo specifico che ha guidato il movimento ed una per coloro che seguono le sue orme per raggiungere la verità. Il Corano afferma: “Non inviammo alcun messaggero se non nella lingua del suo popolo, affinché li informasse” (14:4). Il Buddha (pur riconoscendo che Allah sa di più) avrebbe potuto essere un messaggero inviato al suo popolo, parlando il linguaggio culturale e sociale del suo tempo per diffondere la sua esperienza di illuminazione nel modo in cui i suoi contemporanei avrebbero compreso meglio.

 

 

Dhikr e Mantrayana.
Sia nell’Islam che nella maggior parte delle scuole buddhiste, anche l’essenza del ricordo (di Dio o della buddhità a seconda dei due casi) e la preghiera invocativa sono sorprendentemente simili. Il Dhikr, ovvero il concetto islamico di adorazione attiva, può essere diviso in due parti: ricordo e invocazione di Dio. Quest’atto di adorazione profondamente spirituale verso Dio, nell’Islam, combina i mezzi ed il fine di conseguimento della “Verità”. Possiamo dunque dire che, attraverso il Dhikr, sia possibile conseguire lo stato più alto di coscienza (rappresentato dal Dhikr stesso) ed il totale abbandono ad Allah. Non va del resto dimenticato che nel Buddhismo, in particolare nelle scuole Mahayana e Vajrayana, troviamo una simile nozione d’invocazione del Nome dell’Assoluto come via verso la salvezza ovvero per il conseguimento della Verità. La tradizione che viene spesso chiamata Mantrayana, il “veicolo del mantra”, nel Buddhismo tibetano, è un esempio dell’importanza attribuita alle reiterate invocazioni delle immagini dell’Assoluto per il conseguimento di uno stato spiritualmente puro. Le tradizioni buddhiste di preghiera, meditazione e pratiche esoteriche puntano tutte verso l’importanza, costantemente ribadita, di ottenere l’illuminazione. Parliamo dunque di un filone spirituale, di ambito buddhista, che aiuta coloro che lo seguono a comprendere la verità del Dharma. Non diversamente, in ambito islamico, la ripetizione del Dhikr in cui si ricorda, costantemente, la verità di Al-Haqq, ci suggerisce che in entrambe le religioni non può esserci crescita spirituale senza una regolare evocazione dell’assoluto. Il Corano, difatti, afferma: “In verità l’orazione preserva dalla turpitudine e da ciò che è riprovevole. Il ricordo di Allah è certo quanto ci sia di più grande” (29:45). Il Dalai Lama, alla domanda se la formula buddista "Om mani padme hum" possa essere, da sola, sufficiente a portare qualcuno all’illuminazione, ha risposto che «potrebbe essere davvero sufficiente per chi avesse penetrato il cuore del suo significato; un’affermazione che conferma il detto secondo cui il mantra Om mani padme hum contiene ‘la quintessenza dell’insegnamento di tutti i Buddha’» (pag. 70). In entrambi i casi, ci troviamo di fronte ad una profonda sacralità del “ricordo” dell’essenza del proprio credo che, alla fine, sembra possa essere considerato il cuore di ogni pratica religiosa.

 

Conclusione.
Il testo "Common Ground Between Islam and Buddhism" rappresenta dunque un incredibile passo non solo verso una migliore comprensione di ogni religione ma dell’umanità ad un alto livello, esprimendo la fede in un sacro dovere verso la ricerca di una verità comune che ci leghi tutti attraverso una genuina ed amorevole spiritualità. Come afferma chiaramente l’autore Reza Shah Kazemi: “Le due dimensioni fondamentali della santità — verticale e orizzontale, metafisica ed etica, divina e umana — possono essere considerate per definire gli ambiti che uniscono Islam e Buddhismo in una comune aspirazione per l’Uno” (pag. 112). Preghiamo affinché i punti in comune tra l’Islam e il Buddismo siano un motivo per noi di unirci come comunità. Questo non malgrado ma in virtù delle nostre differenze che sono, a questo punto, anche più chiare rispetto al passato.

Autore: Jessica Aya Harn per "The Muslim Vibe": https://themuslimvibe.com

Traduzione di: Manuel Olivares

Fonte italiana: https://www.laluce.news

 

 

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