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Dal «Signorsì signore» ai voli delle cavallette, siamo animali sociali o individui? Chiunque abbia prestato servizio militare anche per un limitato periodo avrà notato l’apparente irrazionalità di certi ordini impartiti dai superiori, ai limiti dell’angheria. Esempi potrebbero essere quello di spazzare le foglie in un cortile in un giorno ventoso d’autunno o di dover usare sempre e soltanto certe espressioni per rivolgersi ai gradi più alti.

 

 

In realtà, ordini del genere sono tutt’altro che irrazionali, soprattutto quando indirizzati a delle reclute, mirano a spersonalizzare l’individuo per abituarlo psicologicamente a obbedire senza inframmettervi una personale coscienza vigile. E’ indubbio, nell’esperienza di ciascuno, che più un gruppo è omogeneo e più le volontà individuali sono annacquate più l’efficienza del gruppo stesso diventa alta.

Studi recenti di scienziati comportamentali che hanno esaminato il comportamento di diverse specie animali non solo confermano quanto sopra ma, addirittura, aggiungono elementi inaspettati. Un istituto norvegese di ricerche marine ha riscontrato che un banco di pesci attaccato da un predatore cambia direzione quindici volte più rapidamente di quanto possa fare un singolo pesce o il predatore stesso. Un’altra ricerca svolta da un’università di Budapest ha verificato come i piccioni viaggiatori abbiano un comportamento diverso se isolati o in uno stormo. Il loro studio ha dimostrato che nello stormo si creano gerarchie che, tuttavia, cambiano se il gruppo di uccelli si trova in volo o nella piccionaia. Nuovi studi, condotti da altre università sugli stessi argomenti, hanno anche evidenziato che un gruppo di pesci crea una sorta d’intelligenza collettiva e cioè che un singolo pesce reagisce in modo meno intelligente alle modifiche dell’ambiente di quando si trova in compagnia di altri suoi simili.

La conclusione che sembra emergere da tutto ciò e da altri recenti esperimenti similari è che una comunità di simili sia qualcosa di più della semplice presenza degli individui che la compongono.

Un’affermazione del genere non va sottovalutata perché il suo assunto, se confermato, contraddice secoli di tendenza culturale della civiltà occidentale che è andata sempre più valorizzando l’individuo a scapito del suo “appartenere” sociale. Non si tratta, qui e ora, di scegliere tra la visione “collettivistica” platonica e quella più “individualista” di Aristotele: la vera domanda è se, anche tra gli umani, più intelligenze individuali messe insieme costituiscano solo una somma virtuosa tra di esse o se, piuttosto, diano vita a un qualcosa di diverso che trascenda il numero e l’essenza dei suoi singoli elementi.

Gia’ nel passato una scuola psicologica, la cosiddetta “gestalt psycologie” aveva rimarcato come si possa ascoltare un qualunque pezzo di musica, diciamo la Nona di Beethoven, e riconoscere immediatamente la stessa sinfonia anche qualora tutte le note fossero alzate di un’ottava. In altre parole la Nona resterebbe la Nona, anche se tutti i singoli componenti che la formano cambiassero, purché ciò sia fatto esattamente nello stesso modo. L’insieme assume dunque una vita indipendente? Acquisisce una sua identità? Ancora di più: ha un suo proprio pensiero?

Per aiutare la riflessione vorrei aggiungere due reminiscenze degli anni di studi.

La prima: Schopenhauer nel suo “Il mondo come volontà e rappresentazione” additava a una “Volontà” terza il desiderio di conservazione delle specie, indipendentemente e al di sopra dei singoli individui che le compongono. Anzi, l’individualità’ stessa, secondo il pensatore tedesco, è una pura illusione con cui la “Volontà” ci inganna per poter, essa, sopravvivere. A questo proposito, studi di laboratorio hanno dimostrato che sciami di cavallette che volano all’unisono riescono a mantenere una perfetta disciplina di volo non semplicemente adattando, ciascuna con il proprio vicino, velocità e direzione ma anche praticando il cannibalismo nei confronti di qualunque compagna disturbi la perfezione del gruppo nel suo volo.

La seconda: Federico Nietzsche, già ammiratore di Schopenhauer, ha illuministicamente svelato l’illusorietà’ del credere in valori ”assoluti” ma ha colto l’esigenza, tipicamente umana, di dover comunque orientare le proprie azioni verso dei valori, possibilmente auto-creati. Infatti, in “Così parlò Zarathustra” parla dell’indispensabilità che l’uomo passi attraverso la mutazione da cammello (il “tu devi”) a leone (“io voglio”) e poi a bambino (“io sono, io prendo, io decido”). In altre parole e in molte sue opere Nietzsche ci dice come sia un bisogno dell’uomo vivere di valori “relativi” come se fossero “assoluti”. La superiorità del valore dell’individuo sulla società potrebbe essere tra questi?

E se così fosse, quali le conseguenze per una filosofia politica?

Mi voglio fermare qui perché pensieri di questo genere meritano una trattazione ben più profonda e ampia di quanto si possa fare in poche righe ma, se quelle osservazioni citate all’inizio saranno confermate da ulteriori esperimenti su più numerose specie animali, si apriranno probabilmente nuove prospettive anche per sociologi e psicologi sociali.

Fonte: http://italian.ruvr.ru

 


 

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