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Il rituale di guardare la televisione è annichilente. Ci abituiamo a programmi ridicoli e finti, perdendo ogni contatto con la realtà.

 

 

È sera, una famiglia qualsiasi è seduta intorno al tavolo in cucina. Luce a risparmio energetico da un lampadario sospeso sopra alle teste dei commensali, ventilatore che ruota per portare sollievo all’afa. I rumori delle posate che cozzano contro i piatti producono un ritmo dissonante; apparte questo, in cucina, il vuoto. Non una parola viene pronunciata. Non si può però parlare di silenzio perché in sottofondo c’è un brusio continuo che non da tregua. Grida, esplosioni in Medio Oriente, conferenze stampa, opinioni inutili, chiacchiericcio, gossip, il tutto accompagnato da un leggero fischio, è il suono del televisore acceso. Nel salotto buio lo schermo proietta ora la luce azzurrina dello studio di un telegiornale, ora il verde troppo brillante del terreno di un campo da calcio. Il televisore riempie le case svuotate di affetto e discorsi familiari. Si arriva a casa e da quel momento fino a tarda sera lui rimane acceso, fino a quando l’abitudine e la rassegnazione si tramutano in un torpore che preannuncia il sonno. Fuori dalla finestra qualche raro gruppo di ragazzini gioca a calcio in strada, è quasi buio. Il cielo non è stellato, in città c’è troppo inquinamento luminoso. Le finestre degli altri palazzi sostituiscono le stelle, anche lì televisori accesi. Quante volte si vivono scene simili? Vogliamo davvero spegnere il cervello per varie ore al giorno ogni giorno?

La televisione ci costringe alla passività. I programmi sono pensati o per dimenticare sé stessi o per smuovere facili emozioni. Tutto nei mezzi di comunicazione sotto i riflettori è falso. Anche i programmi di informazione e di dibattito politico non possono che lasciare totalmente insoddisfatti i veri amanti della vita pubblica: grida, slogan, ripetizione, maleducazione, recite. Veder scendere un politico un simile agone suscita una disaffezione immediata. La televisione genera una doppia alienazione: per la dipendenza che da il semplice rituale di accenderla e provare l’estasi tecnologica e per la quasi totale demenzialità dei contenuti che propone. Portiamo esempi concreti, altrimenti tutti questi discorsi possono sembrare puramente retorici. Cosa ce ne dobbiamo fare di un reality show in cui degli allevatori e agricoltori vengono corteggiati da donne scelte tramite un casting? La mitizzazione di questi uomini è inutile e ridicola. Non sono i contadini di Pasolini o De Martino, sono persone pressoché comuni, la loro partecipazione a simili programmi lo testimonia senza ombra di dubbio. La commercializzazione demolisce anche gli stili di vita tradizionali, veri o presunti. E quale brivido può suscitare un reality (sempre, sempre, sempre un reality) in cui delle coppie si dividono per essere tentate da avvenenti ragazze e ragazzi? Quale modello si vuole far passare? Seduti nelle loro poltrone gli spettatori proveranno brividi che saranno costretti a sublimare, verranno attirati dalle provocazioni dei concorrenti. Ma quale falsità, quale bruttura, quale miseria. Se questa è tutta l’educazione sentimentale che possiamo dare, allora siamo davvero al declino. Non occorre professare valori assoluti o essere dei bacchettoni per accorgersi della pochezza a cui ci abituiamo.

Di DYLAN EMANUELE DE MICHIEL

Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it

 


 

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