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C’è una differenza sostanziale fra la vecchia e la nuova strategia nucleare proposta dall’amministrazione Trump. La bozza resa nota in questi giorni – che è ancora tale e che può essere modificata – possiede, infatti, una spina dorsale molto simile a quella della precedente presidenza, ma ha delle sue peculiarità che non possono essere sottovalutate. Una fra tutte, il cambiamento della tipologia di minacce che sono inserite nell’alveo di quelle che sono prevenibili attraverso la deterrenza nucleare. Finora, la logica è sempre stata quella dell’utilizzo di una bomba atomica come extrema ratio nell’ambito della prevenzione di un possibile attacco nucleare. Il concetto di deterrenza nasceva proprio dall’esigenza di assicurarsi la sicurezza del proprio territorio nazionale rispetto a possibili attacchi con quel tipo di armi. La nuova bozza invece modifica lo spettro di attacchi in cui rientra il concetto di deterrenza, affermando che tra le “circostanze estreme” che potrebbero autorizzare l’uso di armi nucleare vi sarebbero anche “significativi attacchi strategici non-nucleari”, consistenti, secondo la definizione, anche in “attacchi agli Stati Uniti, alleati o alla popolazione civile o infrastrutture civili e attacchi a forze nucleari statunitensi o alleate, al loro comando e controllo, o alle capacità di avvertimento e valutazione degli attacchi”. Insomma, c’è un cambiamento radicale nella percezione del rischio strategico e gli Stati Uniti iniziano a considerare anche attacchi non nucleari alle infrastrutture civili come condizione che autorizza l’uso di un’arma atomica.

Dal punto di vista pratico, questa modifica potrebbe anche non essere fondamentale, trattandosi per ora di una bozza. Ma se il contenuto della bozza, almeno in questa parte, fosse confermato, ci troveremmo di fronte a un decisivo cambiamento di politica di deterrenza nucleare. Ad esempio, come suggerito dal New York Times, questa specificazione degli attacchi strategici non-nucleari come attacchi alle infrastrutture civili potrebbe tranquillamente essere tradotto nel fatto che il Pentagono ritenga un cyber-attacco di massa come una “circostanza estrema”. “Nel 2001, abbiamo lottato su come stabilire la deterrenza per il terrorismo perché i terroristi non hanno popolazioni o territorio da detenere. Il cyber pone un dilemma simile”, dice al NYT Kori Schake, funzionario del National Security Council e del dipartimento di Stato durante l’amministrazione Bush, e ora vicedirettore generale dell’International Institute for Strategic Studies di Londra. “Quindi, se il cyber può causare un malfunzionamento fisico delle grandi infrastrutture con conseguenti morti”, il Pentagono ha trovato un modo “per stabilire una dinamica deterrente”.

Che la cyber-war fosse diventata un problema di natura fondamentale per la sicurezza delle potenze mondiali, è ormai un dato acquisito da tempo. Basta ricordare cos’è successo recentemente con il malware Wannacry per comprendere le potenzialità distruttive di un “virus” iniettato nel sistema infrastrutturale di un Paese, così come nei sistemi delle maggiori aziende o asset di uno Stato. Gli stessi americani avevano progettato sotto l’amministrazione Obama il cosiddetto “Nitro Zeus”, il piano per un attacco cyber che avrebbe colpito massicciamente le infrastrutture dell’Iran in caso di mancato accordo sul nucleare. Il virus aveva l’obiettivo di colpire tutte le infrastrutture vitali del Paese, a partire da telecomunicazioni e rete elettrica, ed è stato abbandonato come progetto soltanto in seguito alla firma dell’accordo internazionale del cosiddetto 5+1. Negli ultimi anni, Russia, Cina e Corea del Nord sono state accusate molto spesso dagli Stati Uniti di aver intrapreso attacchi hacker contro le infrastrutture europee e americane o contro aziende di grandi dimensioni. Gli episodi sono stati parecchi, ma si parla di accuse volatili dal momento che si entra in una parte di Internet talmente oscura, dove anche l’intelligence di un Paese fatica a trovare l’origine di alcune ondate di attacchi. Ma resta il problema reale, e cioè che la cyber-war si è trasformata in una parte così importante del confronti fra Stati da diventare oggetto di risposta nucleare, da parte degli Stati Uniti, qualora ritengano che un attacco possa mettere k.o. le proprie infrastrutture nazionali. Il quinto dominio, dopo terra, mare, aria e spazio, sembra quindi diventare qualcosa di molto più concreto per il Pentagono. All’attacco informatico si potrebbe rispondere con un attacco atomico.

Fonte: http://www.occhidellaguerra.it

 


 

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