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All’idea un po’ ci siamo abituati: immaginare che in un lontano futuro il cervello umano sarà collegato a un chip che ne svolge le stesse funzioni e con il quale caricare o scaricare informazioni, ricordi, emozioni. In sintesi, la propria vita.

 

 

L'intervista dell'anno scorso al Professor Riccardo Campa affrontava proprio questo argomento (la possibilità di "uploadare" i nostri ricordi dal cervello ad un dispositivo) in chiave futura: ora però in una stanza del Neural Engineering Lab dell’University of Southern California a Los Angeles è accaduto qualcosa che ha reso la prospettiva molto più vicina.

La simbiosi tra un chip e i neuroni umani potrebbe verificarsi molto presto: per esempio, nel nostro cervello, o in quello di un nostro coetaneo. Ciò che ha fra le mani il direttore del laboratorio, l’ingegnere biomedico Ted Berger, è una piastrina di silicio grande tre millimetri, con due connettori da 25 contatti ciascuno all’estremità.

Si tratta del primo chip che può essere inserito nel cervello e svolgere una parte delle sue funzioni, la memoria.

Per ora il chip è collegato a una «fettina» di tessuto cerebrale di topo, asportata dall’animale e mantenuta vitale in provetta. Ma riesce a comunicare perfettamente con queste cellule, a dialogare con loro usando lo stesso codice di impulsi elettrici con cui i neuroni si scambiano normalmente le informazioni. Proprio come se fosse una parte dell’animale.

Ted Berger, 56 anni, figlio di uno degli ingegneri che ha sviluppato il transistor moderno, ha un’idea fissa da sempre: costruire un microchip in grado di rimpiazzare una porzione di tessuto dell’ippocampo, la regione del cervello coinvolta nella formazione dei ricordi a lungo termine e nella capacità di orientamento.

Una memoria artificiale, insomma, che può registrare i ricordi e ritrasmetterli al cervello come avviene con quella naturale. Recuperare le vecchie informazioni o memorizzarne di nuove. «L’ippocampo», spiega Berger, «è la sede della cosiddetta memoria ricognitiva, cioè di quelle etichette mnemoniche che ci permettono di associare un volto a una voce o a un nome. I suoi neuroni sono tra i primi a subire i danni del morbo di Alzheimer, ragione per cui le persone che ne soffrono hanno vuoti di memoria e difficoltà di orientamento. Le cellule dell’ippocampo, inoltre, sono estremamente vulnerabili a interruzioni anche brevi del rifornimento di ossigeno, per esempio in seguito a un ictus. Anche traumi e attacchi di epilessia possono danneggiare l’ippocampo e compromettere la sua funzionalità. Lo sviluppo di un chip del genere avrebbe conseguenze rivoluzionarie: consentirebbe di superare i vuoti di memoria, i deficit del linguaggio e le difficoltà di orientamento e coordinamento motorio».



ALL’INTERNO DELLA COSCIENZA.
Non è la prima volta che si inserisce qualcosa di elettronico nel sistema nervoso centrale del corpo umano. Sono stati già sperimentati con successo gli impianti cocleari e la retina artificiale, che trasformano rispettivamente i suoni o la luce in impulsi nervosi sostituendo l’orecchio o la retina naturale dell’occhio.

In pratica traducono i suoni o le immagini in segnali elettrici e li trasmettono alle regioni della corteccia cerebrale che controllano la funzione uditiva o visiva. «Ma il dispositivo che stiamo realizzando è profondamente diverso dal punto di vista qualitativo», dice Berger. «Si tratta, per la prima volta, di un chip in grado di riprodurre l’attività di elaborazione delle informazioni del tessuto cerebrale, i processi cognitivi superiori».

Il chip di Berger quindi promette, o minaccia, di aprire le porte del sacrario dell’essere umano, la cassaforte di materia grigia gelatinosa dove sono custoditi ed elaborati non solo i nostri ricordi, ma i nostri pensieri e in poche parole ciò che ci rende noi stessi. «È un tipo di ricerca che può cambiare il mondo, che ci può portare sulla soglia della comprensione dei processi con cui i pensieri scaturiscono da ciò che è memorizzato nel cervello», sottolinea il bioingegnere Richard Granger del Dartmouth College americano. «In poche parole: capire cosa significa la coscienza».

Ma quanto manca all’«Ora X»? Per il momento, Berger e i suoi collaboratori stanno lavorando sui tessuti cerebrali di topo, le fettine di ippocampo spesse 400 micron, cioè 400 millesimi di millimetro. «A parte le dimensioni, la struttura dell’ippocampo del topo è del tutto analoga a quella dell’uomo», spiega lo scienziato.

Dopo aver ottenuto questi primi risultati in provetta, però, la sua tabella di marcia diventa implacabile: per la fine dell’anno sono previsti esperimenti sul cervello di un topo vivo, a cui la memoria verrà «disabilitata» con un farmaco, per vedere se il chip riuscirà a ripristinarne le funzioni.

Cioè ottenere dall’animale un comportamento simile a quello che avrebbe normalmente. Sappiamo infatti che i nostri comportamenti dipendono soprattutto dalle nostre esperienze, cioè da quanto abbiamo immagazzinato.

Entro cinque anni, prevede Berger, si passerà alle scimmie. E poi?



LA «SCATOLA NERA».
In attesa di sapere quando il «poi» avverrà, una domanda si fa strada: come funziona questa memoria artificiale? Visto che nessuno scienziato al mondo sa come funziona la memoria naturale, come vengono memorizzati i ricordi e con quali segnali e codici, in che modo è possibile copiarla elettronicamente?

E soprattutto, come è stato possibile stabilire il dialogo tra una piastrina di silicio e i neuroni del cervello?

È tecnicamente impossibile riprodurre su un singolo chip di dimensioni modeste la complessità della rete delle connessioni, le sinapsi, che uniscono i neuroni in un campione anche piccolo di tessuto dell’ippocampo.

Berger e i suoi colleghi hanno deciso così di adottare un approccio sperimentale all’analisi del comportamento di questa parte del cervello.

Hanno collegato la porzione di tessuto in esame a un dispositivo elettrico in grado di fornire una serie di 1000 o 2000 impulsi di tutti i tipi, anche nelle loro sequenze temporali, e hanno analizzato i segnali che il tessuto produce in uscita.

Questo approccio, comunemente noto come «scatola nera», permette di descrivere il comportamento di un dispositivo, naturale o artificiale, ignorando completamente cosa c’è dentro al dispositivo stesso.

Dall’analisi dei segnali in uscita, Vasilis Marmarelis, un ingegnere biomedico che partecipa al progetto di Berger, ha sviluppato una serie di modelli matematici di complessità crescente che riproducono l’attività di un singolo neurone e di gruppi di cellule via via più numerose.

Questi modelli sono serviti come base per la realizzazione di chip in grado di emulare perfettamente la risposta dei circuiti naturali dei campioni di tessuto, pur essendo concettualmente molto diversi.

Tanto che negli ultimi esperimenti non è stato più possibile distinguere i segnali prodotti in uscita dal chip da quelli delle cellule dell’ippocampo di topo messe in provetta.


LA COLTIVATRICE DI NEURONI.
Al momento, il chip può sostituire l’attività di 100 neuroni, ma è chiaramente troppo poco. «Occorre emulare almeno 10mila neuroni, altamente interconnessi tra loro, per realizzare qualcosa di interessante», sottolinea Berger. «Ma sappiamo come farlo; è tecnologicamente alla nostra portata. Un chip di questa capacità non sarebbe comunque più grosso di una nocciolina».

Un altro problema che si presentava agli scienziati californiani riguarda l’interfaccia tra gli elettrodi del chip e le cellule cerebrali, il «wetware» (materia bagnata) come ora gli scienziati chiamano ciò che abbiamo nella testa.

«Bisognava in pratica collegare del materiale elettronico a una zuppa di ioni di calcio e di potassio com’è quella che si scambiano i neuroni attraverso le sinapsi», dice la farmacologa molecolare Roberta Brinton, che lavora con Berger alla University of Southern California.

«È come gettare una radio in un pentola di brodo e pretendere che continui a funzionare». Ma Brinton ha scoperto che i neuroni aderiscono spontaneamente, e perfettamente, agli elettrodi d’oro, avviluppandosi a questi come l’edera. E così è stato fatto: le connessioni funzionano ma durano solo poche settimane. «Farle resistere per anni è il nostro prossimo compito, ma siamo fiduciosi», conclude la scienziata.

Berger non si sbilancia ancora sui tempi necessari all’impianto nell’uomo di un dispositivo del genere, anche se in un’intervista ha stimato meno di 15 anni per raggiungere il traguardo. «Il successo di questo progetto», commenta Gary Egan, direttore del Laboratorio di Neuroinformatica del Centro di Neuroscienze dell’Università di Melbourne, in Australia, «dipenderà dalla capacità di comprendere la neurofisiologia dell’ippocampo e dalla possibilità concreta di accedere a questa porzione di tessuto cerebrale per impiantare in un essere vivente un dispositivo artificiale. Sarei molto sorpreso se si riuscisse a impiantare un ippocampo bionico su un volontario umano prima del 2020».

Forse Egan non se ne rende conto, ma una data del genere è terribilmente vicina. Il problema però è un altro: solo vent’anni fa l’occhio o l’orecchio bionico sembravano pura fantascienza e ora sono sugli scaffali dei bioingegneri. Anche se Ted Berger dovesse fallire con la sua memoria artificiale prima o poi qualcun altro ci riproverà. E ci riuscirà.



UN CHIP CHE ANNULLA L’OBLIO.
A questo punto, cosa sarà della nostra identità, se parte del cervello verrà sostituita da un circuito elettronico? La questione sta già suscitando le reazioni di filosofi ed esperti di bioetica.

Per uno dei massimi esperti mondiali di identità personale, il filosofo inglese Bernard Williams dell’Università di Oxford, la perdita di un pezzetto di sé non sarebbe un evento nuovo. «È la stessa situazione che oggi si ha dopo la rimozione di un tumore cerebrale; c’è sempre qualche danno collaterale», dice.

Diverse sarebbero però le conseguenze sulla memoria. Oggi non sappiamo ancora fino a che punto possiamo controllare i nostri ricordi. E quelli contenuti nel chip sarebbero come congelati, incancellabili. Williams sottolinea che «dimenticare è uno dei processi mentali più belli che abbiamo. Ci permette di superare situazioni dolorose senza più riviverle».

Con un chip nato per migliorare la memoria, il ricorso all’oblio diventerebbe impossibile. Più in generale, «la memoria è il nucleo della nostra personalità», conclude Carl Craver, filosofo delle neuroscienze alla Washington University di St. Louis.

«Ora, la prospettiva di sostituire l’ippocampo con un dispositivo elettronico sposta il problema da “protesi come strumento” a “protesi come elemento che prende decisioni”. E suscita innumerevoli interrogativi con cui, ritengo, finora non ci siamo mai adeguatamente confrontati».



COME FUNZIONA.
Il chip di Ted Berger è una piastrina di silicio di tre millimetri con 25 elettrodi in entrata e altrettanti in uscita.

Viene posizionato nell’ippocampo, la parte del cervello coinvolta nella memoria, per sostituire l’area danneggiata da un ictus o da processi degenerativi come l’Alzheimer.

In un cervello sano, i segnali che portano le informazioni provenienti dai sensi entrano nell’ippocampo (frecce blu), vengono elaborati nella loro intensità e nella sequenza temporale e in uscita vengono inviati in un’altra parte del cervello dove si depositano come memoria permanente.

Il chip può sostituire questo processo prelevando i segnali cerebrali prima della parte malata, elaborandoli allo stesso modo dei neuroni naturali e reinserendoli poi nella parte sana dell’ippocampo affinché vengano inviati a destinazione (frecce arancione).

Il chip nella sua versione attuale sostituisce il compito di 100 neuroni, ma Berger conta di realizzarne una versione cento volte più potente.



«MA RIPARA IL CERVELLO NON LA MENTE».
Il neuroscienziato Max Bennett, dell’Università di Sydney, e il filosofo del linguaggio Peter Hacker, dell’Università di Oxford, nel 2003 hanno pubblicato un libro che ha colpito alla base una delle più radicate convinzioni nel mondo delle neuroscienze. In 461 pagine hanno dimostrato che le capacità cognitive, sensoriali e percettive dell’essere umano non sono riconducibili al suo cervello; cioè hanno messo in evidenza il fatto che l’identificazione tra mente e cervello non è scientificamente fondata.

Bennet e Hacker non sono mistici che si affidano a entità superiori per evitare l’identificazione tra mente e cervello. Semplicemente sottolineano che le neuroscienze fino a oggi hanno dimostrato che esiste una correlazione tra alcune attività eseguite da un organismo vivente dotato di cervello e l’attività elettrica e biochimica di alcuni neuroni in tale cervello, ma niente di più.

Correlare due fenomeni non implica l’identità degli stessi.

Quando si guarda una mela, una serie di circuiti neurali sono attivati nel cervello. Scoprire quali siano questi circuiti è un incredibile risultato delle neuroscienze: non si può fare esperienza visiva della mela senza l’attivazione di questi circuiti. Ma non si può scientificamente sostenere che l’esperienza è solo l’attivazione di alcuni circuiti neurali. Ci può essere dell’altro che non conosciamo.

Quando Ted Berger delinea il suo progetto di costruire una protesi neurale in grado di sostituire zone dell’ippocampo, non si pone il problema di controllare la mente. Berger vuole ripristinare alcune strutture biologiche con altre artificiali. Non va alla ricerca di un ipotetico codice che permetta il passaggio dal fisico al mentale, dal cervello all’esperienza.

Berger ammette candidamente che non sa come funzioni l’ippocampo nei processi alla base della memoria, ma sostiene che si può costruire una protesi anche senza tale conoscenza: «Un tecnico non deve necessariamente conoscere la musica per riuscire a riparare il vostro lettore CD».



LA LUMACA È GIÀ BIONICA.
A lavorare sugli ibridi neuroni–silicio non c’è solo Ted Berger. In Germania, al Max Planck Institut per la Biochimica di Monaco di Baviera, Peter Fromherz è riuscito a collegare un chip con due neuroni prelevati da una chiocciola.

In particolare, gli scienziati hanno collegato la terminazione di un neurone all’elettrodo del chip connesso con un condensatore e a un transistor e un altro neurone all’elettrodo che fa capo a un secondo transistor.

Applicando una tensione al condensatore, questo ha eccitato il primo neurone, la cui attività elettrica è stata rilevata dal primo transistor. Il neurone si è poi comportato normalmente inviando un segnale al secondo neurone, che a sua volta ha trasferito il segnale nel secondo transistor.

Infine, una serie ripetuta di impulsi inviati dal condensatore al primo neurone ha rafforzato la connessione tra i due neuroni, esattamente come avviene in natura, creando una memoria permanente di questa attività nel circuito del chip.

Fonte: http://www.corriere.it

 

 

In una scuola nel Maryland è stato installato PalmSecure, un sistema di scansione biometrica che richiede agli studenti delle elementari di mettere la mano su scanner a raggi infrarossi al fine di pagare il loro pranzo a scuola. Le sfumature uniche della mano di ogni singolo bambino verranno catalogate e l'immagine criptata con un algoritmo numerico che viene combinato con il costo del pasto.

PalmSource, una società giapponese specializzata in tecnologia biometrica offre questo "sistema di autenticazione" che è commercializzato come una necessità nel settore sanitario, bancario, della sicurezza, del governo, vendite al dettaglio e istruzione. La società fornisce anche una serie di chip RFID con capacità di memoria. Il costo per contribuenti e genitori dell'installazione di questo sistema di sorveglianza stile Grande Fratello in 43 scuole in Maryland è stimato in 300.000 dollari.

PalmSource è in fase di sperimentazione in Florida, Mississippi e Louisiana. I responsabili del scolastico di Spring Independent a Houston, nel Texas, affermano che "i lettori RFID situati lungo ogni campus sono utilizzati per identificare la posizione degli studenti all'interno della struttura, e che possono essere utilizzati per verificare la frequenza dello studente per il finanziamento e le finalità del corso".

In Texas, i bambini che frequentano la scuola nel Northside Independent School District della scuola sarà richiesto di portare carte con tag RFID mentre sono nel campus. I movimenti di 6000 studenti saranno monitorati dalla facoltà, in un programma pilota che spera e prevede di espandere il monitoraggio di tutti gli studenti nei 12 distretti.

Wendy Reyes preside della Jones Middle School, spiega che hanno intenzione di sfruttare la possibilità di monitorare i loro studenti negli edifici, perché potrebbero essere stati in qualunque posto, ma magari non erano in aula e in questo modo possono "vedere" che non erano seduti in classe. Questo sistema "li aiuterebbe ad avere un quadro esatto delle presenze".

Nel distretto scolastico di San Antonio, il progetto Student Locator (SLP) è in fase di sperimentazione nella Jay High School e la Jones Middle School - due scuole nel distretto di Northside. La SLP include l'uso della tecnologia di identificazione a radiofrequenza (RFID) per "rendere le scuole più sicure, sapere dove si trovano gli studenti, mentre sono a scuola, incrementare ricavi, e fornire la carta d'identità 'intelligente' ".

Alcuni studenti si sono mobilitati contro il nuovo programma pilota chiamato Radio Frequency Identification System (RFID), in due delle scuole medie a San Antonio, in Texas. Pasqual Gonzalez portavoce del distretto, ha detto che i due campus hanno un alto tasso di evasione scolastica e di ritardi, e che il quartiere potrebbe guadagnare 2 milioni di dollari in finanziamenti statali, migliorando la frequenza degli studenti: "Vogliamo sfruttare la potenza della tecnologia per rendere le scuole più sicure, sapere dove sono i nostri studenti per tutto il tempo in una scuola, e aumentare i ricavi".

C'è ovviamente molta preoccupazione per il fatto che chiunque altro potrebbe "monitorare" gli studenti in quanto le etichette RFID continuano ad inviare un segnale anche quando gli studenti vivono la loro vita al di fuori della scuola. La scheda "intelligente" RFID è stata utilizzata per tracciare e monitorare gli studenti e i loro movimenti nei campus in tutta l'America allo scopo di controllare i libri della biblioteca della scuola, iscriversi ai corsi, pagare le mense scolastiche. Coinvolgendo molti educatori per costringere i distretti scolastici ad adottare questo metodo di monitoraggio degli studenti, la motivazione centrale per l'utilizzo della tecnologia RFID è stata la sicurezza del campus, una registrazione efficiente e programmi per la mensa e la biblioteca.

Il Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti (USDA), chiede che gli allevatori usino chip RFID per monitorare il loro bestiame. Sembra proprio che i chip RFID diventeranno parte della nostra vita quotidiana, perchè ce li ritroveremo ovunque, nell'abbigliamento, imballaggi, e nelle etichette dei codici a barre di qualsiasi prodotto di consumo.

La massiccia sorveglianza di persone nella società attraverso l'uso di microchip RFID distrugge il diritto alla privacy e viola le libertà costituzionali e civili. Le informazioni contenute nei chip RFID potrebbero presto essere il numero di previdenza sociale dell'individuo, l'indirizzo di casa, le cartelle cliniche, i registri scolastici, precedenti penali, informazioni finanziarie, e qualsiasi altra informazione che possa essere archiviata in modo digitale. L'accesso remoto alle informazioni contenute nel chip può essere effettuato direttamente da satelliti che le inviato ai centri database dove possono essere utilizzate all'interno di un profilo digitale.

Il Department of Homeland Security (DHS) ha costruito 70 centri di fusione antiterrorismo in tutta la nazione. Il costo per i contribuenti è di 1,4 miliardi dollari, in modo che i federali e le forze dell'ordine locali possono utilizzare apparecchiature di sorveglianza per una banca dati dei movimenti di cittadini. Secondo la relazione sui centri di fusione del Sottocomitato Permanente del Senato sulle Indagini degli Stati Uniti (Senate Permanent Subcommittee on Investigations), alcuni possono essere assegnati per il controllo di sospetti nel pre-crimine...(e sappiamo che tutti state pensando al film di fantascienza Minority Report!), altri sarebbero semplicemente "studiati" in modo che il governo degli Stati Uniti possa essere in grado di controllare una massa di persone.

Questi centri di fusione ricevono informazioni per lo più inutilizzabili ma che mettono a repentaglio le libertà civili dei cittadini. Siccome il Comitato non poteva autorizzare che i dati forniti dal DHS dei centri di fusione fossero condivisi con le forze dell'ordine locali, ma i dati che vengono raccolti sugli americani verranno memorizzati all'interno di strutture del DHS per l'uso, per ora sconosciuto, dall'agenzia federale. E' recente la notizia che l'FBI sta implementando un sistema di identificazione biometrica attraverso database in luoghi segreti degli Stati Uniti, al fine di tracciare e monitorare i cittadini, con il solito vecchio pretesto della sicurezza.

Nel frattempo, i media tradizionali alle dipendenze delle corporations si sono impegnati molto nel vendere l'idea che dispositivi multimediali come gli smartphone, possono essere impiantati direttamente nel corpo. In un futuro non troppo lontano, le corporations sperano di inserire un microchip nel cervello degli esseri umani affinché possano utilizzare inquesto modo i dispositivi tecnologicamente avanzati. E non è difficile vedere il lato oscuro di tutto questo.

In effetti si prevede che nel giro di 75 anni il "microchip potrà essere installato direttamente nel cervello dell'uomo".

La Apple, insieme ad altre note aziende, fornirà questi chip. "I pensieri si connetteranno istantaneamente quando una persona vuole chiamare un'altra". Sembra fantascienza ma ci stanno lavorando a pieno ritmo, quindi possiamo tranquillamente preoccuparci delle conseguenze di una realtà non tanto lontana nel futuro. Qualsiasi "azienda" potrebbe "catturare" i dati dai chip impiantati nel cervello e caricarli sui propri server per "conoscere i desideri del 'consumatore' e servire meglio i clienti". Ma i dati che escono sono forse la cosa meno preoccupante, ci saranno anche dati che "entreranno" nella mente? Sarà possibile controllare i nostri desideri e le nostre paure? Io ci scommetterei.

Tracciabilità tramite RFID significa davvero e comunque innovazione e sicurezza? Un esperimento ha dimostrato che un computer infettato da un virus informatico può trasmettere il virus al chip RFID impiantato nel corpo umano, come a qualsiasi altro con cui viene a contatto tramite lo scambio di informazioni. Nel 2009 il dottor Gasson si fece impiantare un chip RFID nella mano sinistra. Il chip gli ha permesso l'accesso all'edificio della sua Università e al suo telefono cellulare, ma ha permesso anche di essere monitorato e catalogato. Una volta infettato, il chip del sistema principale, questo ha trasmesso il virus al chip impiantato nella sua mano!



L'invasione di questi micro-demoni avanza su ogni fronte, in ogni ambito e senza tregua. Vediamo alcuni passaggi, a molti noti ad altri meno...

1) I tentativi, sotto gli occhi di tutti, per eliminare il contante e abituare la gente ai "pagamenti veloci". Alcune banche si sono già attivate da qualche anno in questo senso, mai sentito parlare di "contactless"? La banca pioniera guarda caso è la Banca Popolare dell'Emilia Romagna di proprietà dei Rothshilds (come si può vedere a questo link: http://www.nocensura.com )

2) Come già detto in un articolo con Marco Cedolin (La lunga ombra degli Rfid), il passaggio al digitale terrestre aveva come unico scopo quello di liberare le frequenze in vista dell'invasione di RFID, e infatti la liberalizzazione delle frequenze UHT ha reso felici i produttori del settore: http://www.01net.it

3) Di fatti un vecchio documento dell'UE conferma la legislazione a favoredell'implementazione dell'RFID in Europa a questo link: http://eur-lex.europa.eu che purtroppo non è più leggibile. E non perdete tempo a "contattare il webmaster" come suggerito alla pagina (con tanto di mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. ), perchè non vi risponderà nessuno.

4) Tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che l'UE nutra un grandissimo interesse per microchip Rfid, in questo documento si parla dell'Importanza dell'indentificazione a radiofrequenza e addirittura della Funzione sociale della RFID: http://eur-lex.europa.eu e si dice anche che "nel 2006, la Commissione ha condotto una consultazione pubblica sulla RFID". Consultazione pubblica? Qualcuno ne ha mai sentito parlare?



E questo ci porta alla situazione italiana...

Cosa succede in Italia?

Come riportano i maggiori siti di informazione italiana:
http://www.ansa.it
http://247.libero.it
un consorzio tra scienziati italiani, israeliani e tedeschi coordinato da Stefano Vassanelli, neurofisiologo al Dipartimento di Scienze biomediche dell'Università di Padova, ha sviluppato un microchip al silicio impiantabile nel cervello e capace di stabilire una comunicazione bi-direzionale e ad alta risoluzione con neuroni cerebrali - alquanto inquietante -. Nelle intenzioni dichiarate dai ricercatori, la nuova tecnologia sviluppata in CyberRat rappresenta la base di partenza per lo sviluppo di nuovi sofisticati strumenti sperimentali utili a capire come le reti complesse che i neuroni creano nel cervello interconnettendosi sono in grado di elaborare le informazioni e, meraviglie delle meraviglie, in futuro l’applicazione di questa tecnologia sarà utilizzata per la creazione di neuroprotesi “intelligenti”, capaci di registrare l’attività cerebrale ad alta risoluzione, elaborare delle risposte mediante microelaboratori su chip e stimolare il cervello in un circuito ibrido neuro-elettronico.

Inoltre ogni anno 3 milioni e 500 mila passeggeri utilizzano un sistema di ticketing Rfid per attraversare lo stretto di Messina pubblicizzato come un "servizio più veloce". I biglietti col tag sono "gentilmente offerti" da Caronte & Tourist, armatore siciliano che da oltre 40 anni traghetta persone e automezzi, collegando i porti di Messina e Villa San Giovanni (Reggio Calabria).

Addirittura in alcuni parchi come il Larix Park di Livigno, Le Ragnatele di Alghero o il Civetta Adventure di Belluno, si è passati ad una gestione taggata. In che modo viene venduta la tecnologia R-Fid nei parchi avventura? Nel solito modo: la sicurezza! Ma alla fine è solo una sicurezza per i gestori dei parchi affinché tutti paghino il dovuto... All’inizio di ogni percorso sull’albero è installata un’antenna Rfid con una distanza di rilevazione di oltre quattro metri e sempre attiva, che garantisce l’ottimizzazione della lettura del tag anche in caso di letture multiple (grazie a un apposito sistema anti-collisione che risolve la copresenza dei chip). In pratica, grazie a una regolazione calibrata delle antenne, il sistema evita la lettura dei tag relativi ai clienti che non sono ancora saliti sul percorso. Il sistema di identificazione è collegato a un software gestionale che permette alla cassa di contabilizzare i vari percorsi secondo una modalità a tempo oppure a singolo percorso in modo da lasciare al gestore del parco la libertà di erogare il servizio in una formula pay per use più adeguata al cliente.

In Italia forse siamo anche più all'avanguardia su alcuni aspetti, abbiamo persino l' RFID Italia Awards, un’iniziativa indipendente promossa da Loft Media Publishing (ex Cedites) con l’obiettivo di riconoscere e premiare l’innovazione legata all’utilizzo delle tecnologie a radiofrequenza:
http://www.gruppotia.it

Purtroppo la tecnologia RFID si sta facendo strada anche là dove, fino a pochi anni fa, era difficile immaginarne l'uso. Uno degli esempi più emblematici è dato dalle protesi dentarie, che presto saranno in grado di "raccontare la propria storia" inviando qualche manciata di byte via etere. (sic!) Infatti già dal 2006 sono state sperimentate le prime protesi odontoiatriche capaci di memorizzare informazioni sull'impianto e le visite di controllo. L'obiettivo? Secondo l'inventore, è tutelare medico e paziente, ma sappiamo che la storia della "sicurezza" è solo una facciata, nella realtà si tratta del primo impianto umano di trasponder!

La situazione in Italia come nel mondo è preoccupante, cosa succederà, ad esempio, con l'entrata in vigore del Mercato Transatlantico entro il 2015?
Stay tuned!

Fonte: http://www.vocidallastrada.com

 


 

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