La disoccupazione giovanile in Italia è tristemente stabile al 40%, fra i settori più colpiti nel Paese vi è indubbiamente la ricerca: niente fondi né posti di lavoro, nessuna prospettiva. I giovani per fare carriera sono letteralmente costretti a partire. Cervelli in fuga, dramma italiano.
"Non tornerei in Italia, anche se trovassi un posto".
Sui giornali italiani e non solo negli ultimi giorni fa parlare di sé la storia di Sabina Berretta, ricercatrice catanese che è riuscita a ottenere risultati eccellenti nella sua carriera lasciando l'Italia e partendo per gli Stati Uniti. Oggi Sabina, oltre ad insegnare all'Harvard Medical School, dirige l'Harvard Brain Tissue Resource Center al McLean Hospital di Boston. Tutto iniziò con una semplice borsa di studio. Il laboratorio di Sabina, composto da studiosi provenienti da tutto il mondo, si occupa di ricerche nel campo della schizofrenia e del disordine bipolare. La sua storia ha fatto riemergere una vecchia e triste storia: la cosiddetta fuga di cervelli e l'immane difficoltà di trovare lavoro nel campo della ricerca in Italia. Quali misure dovrebbero essere adottate per invertire questa tendenza? Che cosa andrebbe cambiato nel sistema italiano? Sputnik Italia ha raggiunto per una riflessione in merito direttamente la ricercatrice di successo Sabina Berretta.
— Sabina, di che cosa si occupa esattamente negli Stati Uniti?
— Io insegno ad Harvard e ho un laboratorio che si occupa di ricerca sulla patofisiologia della schizofrenia e del disordine bipolare. Siamo un gruppo di otto ricercatori più me da più parti del mondo, il che è importante per molti versi. Usiamo sia culture cellulari da biopsie, ma anche per la maggior parte tessuti del cervello, per cercare di capire quali sono i cambiamenti che succedono nel cervello delle persone schizofreniche o con il disordine bipolare. Questo sia a livello di molecole, sia cellulare e di neurochimica. Lo scopo delle ricerche è di capire meglio quali sono i cambiamenti perché si possano così sviluppare dei farmaci per trattare più specificamente queste patologie. È anche un modo per capire di più la gente che soffre, se non capiamo in quali parti del cervello accadono i cambiamenti, avviene allora la stigmatizzazione di queste persone.
— Il cervello è una materia ancora tutta da esplorare, vero?
— È vero che abbiamo fatto dei passi da gigante negli ultimi 20 anni, c'è stata un'esplosione di metodologie nuove che ci permettono di fare studi, ritenuti fantascienza fino a 10 anni fa. È vero anche che sappiamo molto, ma pochissimo rispetto a quello che ci sarebbe da capire. Queste malattie mi interessano da tanto tempo, perché sono malattie che colpiscono parte delle nostre funzioni come il pensare, il capire una situazione nel suo contesto, il relazionarsi con altre persone. Studiare queste malattie spero aiuterà molta gente che ne soffre, può anche aiutare a capire noi stessi e come ci relazioniamo con gli altri.
— Lei ha ottenuto grandi risultati nella sua carriera lasciando Catania e partendo per gli Stati Uniti, dove lavora tuttora. Che cosa ne pensa delle condizioni della ricerca nel Belpaese?
— I miei amici e colleghi italiani li sento una volta ogni tanto. In Italia ci sono laboratori che fanno ottimi lavori e che danno possibilità ai ricercatori di ottenere risultati eccellenti. Secondo me quello che si ha non è abbastanza. Da quando hanno iniziato a intervistarmi questi ultimi giorni, mi sono arrivate centinaia di e-mail da giovani studenti e dicono tutti la stessa cosa: "siamo laureati, ma non abbiamo possibilità di trovare lavoro, non sappiamo cosa fare, vorremmo andare all'estero. In Italia non ci sono possibilità". Gli Stati Uniti ovviamente non sono perfetti, anche qui fare ricerca è difficile, trovare fondi è difficilissimo, ma è possibile, mentre in Italia sembra sia proprio impossibile. Ci sono pochi posti di lavoro e migliaia di candidati per un posto, il che non succede negli Stati Uniti, la struttura della ricerca è molto più flessibile qui, è molto più facile assumere un ricercatore, un assistente, un associato o un professore. Qui la selezione non viene effettuata su una base rigida di concorsi come in Italia. È facile muoversi, collaborare, assumere le persone giuste al momento giusto. Questa flessibilità è quello che conta davvero nella ricerca. Ed è il motivo per il quale non tornerei in Italia, anche se trovassi un posto.
— Che cosa andrebbe cambiato secondo lei nel mondo della ricerca in Italia? Non è solo un problema economico, ma anche di sistema?
— Non so da un punto di vista concreto quali cambiamenti andrebbero fatti, però mi rendo benissimo conto che fondi ce ne sono pochi ed è difficile saperli usare. Ovviamente i fondi sono importanti, senza non puoi fare ricerca, ma penso che bisognerebbe discutere non tanto di come evitare che gli italiani fuggano all'estero, ma di come aprire la struttura in maniera che da tutto il mondo la gente possa venire a fare ricerca in Italia. Questo è il sistema che funziona negli Stati Uniti. È importantissimo che in un laboratorio di ricerca ci sia gente che viene non solo da tante parti dell'America, ma da altre parti del mondo. Nel mio laboratorio per esempio c'è il mondo intero.
— Da dove vengono i colleghi del suo laboratorio?
— Due ricercatori provengono da laboratori americani, abbiamo un altro cervello in fuga italiano Gabriele Chelini, che ci ha appena raggiunto ed è bravissimo, farà carriera, ma in Italia anche lui non poteva trovare lavoro. Ho una ricercatrice di origini hawaiane, ma ha già fatto ricerca a Parigi e ora lavora con noi, un ragazzo viene dalla Grecia, un altro dalla Giordania, poi uno dall'Afghanistan, un altro dall'Iran. È importante questa varietà per lo scambio di idee e formazioni diverse. Io penso che l'Italia e qualunque altro Paese che voglia fare ricerca sul serio dovrebbe avere la capacità di attirare persone con culture e esperienze diverse. Se ci fossero inoltre dei fondi tutto allora sarebbe più facile, la gente dall'estero verrebbe a lavorare in Italia.
— Che cosa le manca dell'Italia?
— Senza dubbio l'Italia è un Paese bellissimo. Quando negli Stati Uniti dico che vengo dall'Italia, mi chiedono tutti perché me ne sono andata. È un Paese straordinario dal punto di vista della natura, della cultura, ma anche pieno di gente interessante. Questo mi manca, come anche la famiglia e gli amici. Quando vengo in Italia quello che mi manca invece è la diversità culturale che c'è qui a Boston o a New York per esempio.
— In Italia mancherà l'universalità, ma al mondo intero manca l'Italia!
— È reciproco, esatto!
— Quale messaggio vorrebbe lanciare a tutti i ricercatori in Italia e nel mondo che vorrebbero continuare i loro studi? Qual è il segreto del successo?
— Non bisogna scoraggiarsi, ma essere testardi. Quando si fa ricerca è difficile, abbiamo un lavoro da pubblicare e ce lo rimandano indietro senza pubblicarlo, mandiamo richieste di finanziamento e non lo otteniamo. Ci laureiamo, ma non ci sono posti di lavoro. Bisognerebbe anche far capire ai giovani come seguire questo percorso dando delle indicazioni a chi volesse ottenere borse di studio o partire a studiare all'estero. Io ho avuto fortuna, ma quando c'è una passione forte e non si molla mai ad un certo punto qualcosa poi si ottiene. Non scoraggiatevi, non arrendetevi e non mollate mai!
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Fonte: https://it.sputniknews.com