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La bomba demografica si fermerà intorno ai 10-11 miliardi di individui, dicono le stime. Poi i numeri diminuiranno in modo inesorabile, con tutte le conseguenze di un mondo abitato da anziani.

Era una femmina. Domenica 30 ottobre 2011, poco prima della mezzanotte, Danica May Camacho venne alla luce in un affollato ospedale di Manila portando a sette miliardi di persone la popolazione mondiale. A varcare questa soglia sarebbe potuta essere anche Nargis Kumar, nata qualche ora più tardi in un villaggio dell’Uttar Pradesh, in India. O avrebbe potuto essere un maschio, Pyotr Nikolayeva, nato a Kaliningrad, in Russia. Ovviamente non fu nessuno di loro. La nascita che portò la popolazione del pianeta a sette miliardi di persone non era attesa da telecamere e discorsi ufficiali perché non avremmo avuto alcun modo di sapere dove sarebbe avvenuta. Possiamo solo essere certi che, secondo le stime delle Nazioni Unite, la cifra fu raggiunta intorno al 31 ottobre di quell’anno. Diversi Paesi elessero un particolare bambino a simbolo di quello storico traguardo, e Danica, Nargis e Pyotr furono tra questi. Per molti non c’era ragione di festeggiare. Il ministro della Salute indiano, Ghulam Nabi Azad, dichiarò che una popolazione mondiale di sette miliardi di esseri umani «non dovrebbe rallegrarci ma preoccuparci. […] Potremo rallegrarci quando la popolazione mondiale si stabilizzerà».

Molti condividono il suo pessimismo e annunciano una crisi demografica globale. L’Homo sapiens si sta riproducendo in modo incontrollato, mettendo a dura prova la nostra capacità di nutrire, alloggiare e vestire i 130 milioni o più di nuovi nati che, secondo i calcoli dell’Unicef, vengono al mondo ogni anno. Più gli esseri umani affollano il pianeta, più le foreste scompaiono, la fauna si estingue e l’atmosfera si riscalda.

Questi profeti avvertono che, se non riusciremo a disinnescare la bomba demografica, andremo incontro a un futuro di crescente povertà, penurie alimentari, conflitti e degrado ambientale. Per citare un moderno Malthus, «salvo un drastico calo della crescita della popolazione, una rapida riduzione delle emissioni di gas serra e una conversione mondiale all’alimentazione vegetariana – tutte tendenze che in questo momento vanno nella direzione opposta – ci aspetta nientemeno che la fine della prosperità per la maggior parte degli abitanti del pianeta».

Questa analisi è sbagliata da tutti i punti di vista.

Il grande avvenimento che definirà il XXI secolo – uno dei grandi eventi che segneranno la storia dell’umanità – si verificherà tra circa tre decenni, quando la popolazione mondiale inizierà a ridursi e, una volta innescato, questo processo non si fermerà. La sfida che ci troviamo di fronte non è quella di un’esplosione ma di un declino demografico, un calo implacabile, generazione dopo generazione, della popolazione umana. Niente del genere è mai accaduto prima d’ora.

Non c’è da stupirsi che questa sia una notizia scioccante. Le Nazioni Unite prevedono che nel XXI secolo la popolazione passerà da sette a undici miliardi, per poi stabilizzarsi a partire dal 2100. Ma sempre più demografi in tutto il mondo considerano le stime dell’Onu di gran lunga troppo elevate. Secondo i loro calcoli è più probabile che la popolazione planetaria raggiungerà un picco di circa nove miliardi tra il 2040 e il 2060, e da lì inizierà a ridursi. Forse, anche in quel caso come per il «bambino numero sette miliardi», le Nazioni Unite individueranno la morte che darà il via a questa decrescita. Resta il fatto che alla fine di questo secolo potremmo ritrovarci esattamente dove siamo ora, e continuare a calare.

I Paesi la cui popolazione sta diminuendo sono già più di venti; nel 2050 saranno oltre trentacinque. Alcune tra le regioni più ricche del pianeta – tra cui Giappone, Corea, Spagna, Italia e gran parte dell’Europa orientale – perdono abitanti ogni anno. «Siamo un Paese moribondo», ha dichiarato nel 2015 Beatrice Lorenzin, la ministra della Salute italiana.

Ma la vera notizia non è questa. La vera notizia è che presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi. La popolazione cinese comincerà a calare entro pochi anni. Di qui alla metà del secolo Brasile e Indonesia faranno lo stesso. Perfino l’India, che sarà presto il Paese più popoloso del mondo, vedrà il numero dei suoi abitanti stabilizzarsi tra circa una generazione per poi iniziare a diminuire. E se nell’Africa subsahariana e in parte del Medio Oriente i tassi di fecondità rimangono esorbitanti, da quando le donne hanno ottenuto accesso all’istruzione e alla contraccezione le cose stanno cambiando. È probabile che lo sfrenato baby boom africano finisca ben prima di quanto non prevedano i demografi dell’Onu.

Alcuni segnali dell’accelerazione del calo della fecondità si ritrovano nelle ricerche universitarie e nelle relazioni governative, altri si scoprono parlando con la gente. Ed è quello che abbiamo fatto. Per raccogliere i dati che compongono questo libro abbiamo viaggiato in diverse città nei cinque continenti: Bruxelles e Seul, Nairobi e San Paolo, Bombay e Pechino, Palm Springs, Canberra e Vienna, e non solo. Abbiamo parlato con professori e funzionari di Stato, ma soprattutto abbiamo discusso con i giovani: nei campus universitari e negli istituti di ricerca, nelle favelas e nelle baraccopoli. Volevamo conoscere le loro opinioni sulla decisione più importante della loro vita: se e quando fare un figlio.

Di per sé il declino demografico è un fenomeno né positivo né negativo, ma è un fenomeno determinante. Una bambina nata oggi raggiungerà la mezza età in un mondo con congiunture e aspettative molto diverse da quelle attuali. Vivrà in un pianeta più urbanizzato, meno pericoloso, più sano dal punto di vista ecologico ma con una popolazione molto più vecchia. Non avrà difficoltà a trovare un lavoro, ma potrebbe comunque fare fatica a sbarcare il lunario, perché il suo stipendio sarà decurtato dai contributi necessari per finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei molti anziani. Ci saranno sempre meno scuole perché ci saranno sempre meno bambini.

Non dovremo aspettare trenta o quarant’anni per iniziare a percepire gli effetti del calo demografico. Possiamo già osservarli nei Paesi sviluppati, dal Giappone alla Bulgaria, dove le economie stentano a crescere dal momento che i giovani che lavorano e consumano diminuiscono, rendendo più difficile finanziare i servizi sociali o vendere frigoriferi. Possiamo osservarli nei centri urbani dell’America latina e dell’Africa, dove le donne prendono sempre più in mano il loro destino. Possiamo osservarli in ogni famiglia i cui figli vanno a vivere da soli più tardi perché non hanno fretta di sistemarsi e non hanno la benché minima intenzione di fare un figlio prima dei trent’anni. E possiamo osservarli, tragicamente, nelle acque tumultuose del Mediterraneo, da cui i migranti dei Paesi più poveri premono sulle frontiere di un’Europa che sta già iniziando a svuotarsi.

E presto potremo osservarli influenzare la battaglia globale per il potere.

Nei decenni a venire la contrazione demografica plasmerà la natura della pace e della guerra, perché mentre alcuni Paesi dovranno fare i conti con l’invecchiamento e la riduzione della popolazione, altri saranno ancora in grado di mantenerla stabile. La sfida geopolitica che caratterizzerà i prossimi decenni potrebbe implicare l’adeguamento e il contenimento di una Cina frustrata e spaventata alle prese con le ricadute della disastrosa politica del figlio unico.

Tra coloro che temono le ripercussioni negative del calo demografico, alcuni invocano politiche pubbliche capaci di aumentare il numero di figli per coppia. Ma i dati rivelano che sono inutili. La «trappola della bassa fecondità» fa sì che quando avere uno o due figli diventa la norma, resta la norma. Le coppie non vedono più il fatto di avere figli come un dovere da assolvere verso le loro famiglie e il loro dio. Scelgono invece di diventare genitori per la propria realizzazione personale.

Una soluzione al problema del declino demografico è quella di importare popolazione che sostituisca quella che viene a mancare. Ed è il motivo per cui questo libro è stato scritto da due canadesi. Ormai da decenni il Canada accoglie più persone su base pro capite rispetto a qualsiasi altro grande Paese sviluppato, senza tuttavia vivere le ghettizzazioni, le tensioni etniche e i feroci dibattiti contro cui lottano tanti altri Paesi.

Questo succede perché il Canada vede l’immigrazione come una risorsa – grazie a un sistema meritocratico a punti, gli immigrati del Canada sono in media più istruiti degli autoctoni – e perché abbraccia il multiculturalismo, cioè il diritto condiviso di esercitare la propria cultura d’origine all’interno di un mosaico che ha prodotto una società pacifica, prospera e poliglotta, tra le più ricche del pianeta.

Non tutti i Paesi sono in grado di accogliere le ondate di nuovi arrivati con l’attitudine del Canada. Molti coreani, svedesi e cileni hanno un’idea molto forte di cosa significhi essere coreano, svedese o cileno. La Francia continua a esigere che i nuovi immigrati accettino l’idea di diventare francesi – e intanto molti esponenti della vecchia guardia negano che sia possibile e isolano le comunità immigrate in banlieues marginali e discriminate. Stando alle proiezioni, entro la fine del secolo la popolazione del Regno Unito sarà passata dagli attuali 66 a circa 82 milioni di abitanti, ma questo avverrà solo se i britannici continueranno ad accogliere un numero consistente di immigrati.

Come ha rivelato il referendum sulla Brexit però, sono in molti ad aver voluto trasformare lo stretto della Manica in un fossato. Per combattere lo spopolamento, i Paesi dovranno abbracciare sia l’immigrazione sia il multiculturalismo. E se la prima appare difficile, per alcuni il secondo potrebbe rivelarsi addirittura impossibile.

Tra le grandi potenze, l’imminente declino demografico avvantaggerà solo gli Stati Uniti. Per secoli gli Usa hanno accolto a braccia aperte i nuovi arrivati, prima provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico, poi da quella del Pacifico, e oggi del Rio Grande. Milioni di persone sono venute a mescolarsi al melting pot – il multiculturalismo in salsa statunitense –, arricchendo il Paese dal punto di vista economico e da quello culturale. L’immigrazione ha reso il XX secolo il secolo americano, ed è probabile che faccia lo stesso con il XXI.

Ma forse no. I venti di diffidenza, di nativismo, di «America First» degli ultimi anni minacciano di ridurre i flussi migratori che hanno reso grande l’America, separando con un muro gli Stati Uniti dal resto del mondo.

Sotto la guida di Donald Trump, il governo federale non si è limitato a dare un giro di vite all’immigrazione clandestina, ma ha ridotto anche l’ammissione legale dei lavoratori qualificati, una politica suicida per l’economia degli Usa. Se questo cambio di rotta si rivelasse permanente – se a causa di un’insensata paura gli americani mettessero fine alla loro tradizione immigrazionista voltando le spalle al mondo –, allora anche gli Stati Uniti vivranno un declino, in numero, potenza, influenza e benessere. Questa è la scelta che ogni americano ha davanti: sostenere una società aperta, inclusiva e ospitale, o chiudere le frontiere e languire nell’isolamento.

In passato sono state le carestie e le epidemie a decimare il genere umano. Ora lo facciamo da soli: stiamo decidendo consapevolmente di ridurre il nostro numero. Sarà una scelta permanente? Forse sì.

Sebbene in certi casi i governi siano stati in grado di aumentare il numero dei figli che le coppie sono disposte a fare attraverso generosi aiuti alle famiglie e altri incentivi, non sono mai riusciti a riportare la fecondità alla soglia di sostituzione generazionale: 2,1 figli per donna.

Queste misure sono inoltre assai dispendiose e tendono a subire tagli durante le crisi economiche, senza contare il fatto che uno Stato che tenta di convincere una coppia ad avere un figlio che in altre circostanze non avrebbe avuto può essere ritenuto poco etico.

A mano a mano che la popolazione diminuirà, accoglieremo con gioia o con dolore questo calo? Ci sforzeremo di mantenere la crescita o accetteremo serenamente un mondo in cui le persone prospereranno e soffriranno di meno?

Non ci è dato saperlo. Ma un poeta potrebbe osservare che, per la prima volta nella storia della nostra specie, «l’umanità si sente vecchia».



Da: “Pianeta vuoto. Siamo troppi o troppo pochi?”, di Darrell Bricker e John Ibbitson, Add editore, 2020

Fonte web: https://www.linkiesta.it



 

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