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Imma Elenoire Laudieri Di Biase è una sinologa associata all’Asian Institute dell’Università di Melbourne e all’Università Ca’ Foscari, nonché analista strategica della realtà politica della Cina per la Nato Defence College Foundation. Il suo terreno di indagine si avvale anche dei suoi studi di psicologia del profondo di indirizzo junghiano, e di diplomazia interculturale. A lei abbiamo chiesto di orientarci in questa delicata fase che sta vivendo il colosso cinese.

 

 

Domanda: mentre si misurano tutti i limiti dei Brics, ci può descrivere il punto del dibattito nella classe dirigente cinese sull’attuale crisi della globalizzazione e su come poter trasformare la forza economica del Paese in capitale politico in un mondo che cambia così velocemente?

Per la prima volta da quando ha dato avvio alla modernizzazione della propria economia, la Cina si trova a fare i conti con un tasso di crescita in rapida contrazione e un ingigantimento del suo debito pubblico e privato, che è arrivato cumulativamente a quota 28mila miliardi di dollari, equivalenti al 280 per cento del Pil. Questi dati sono visti con preoccupazione dai mercati finanziari internazionali e stanno sollevando dubbi sulla capacità della Cina di ridare impulso al proprio ritmo di crescita. Ciò nondimeno, la Cina ha un debito pubblico relativamente basso rispetto al Pil (70%) e ha quindi ampi margini di manovra per contrastare l’attuale congiuntura economica. A ciò va aggiunto che la vertiginosa crescita degli ultimi vent’anni ha generato un ceto medio-alto di oltre duecento milioni di cittadini in grado di incrementare i consumi interni e sostenere un mercato immobiliare che, contrariamente alle fosche previsioni formulate nel recente passato da molti analisti occidentali, non dà ancora segni di cedimento. Non v’è dubbio però che l’architettura economica della Cina stia cominciando a scricchiolare, con riflessi destabilizzanti sul piano politico interno e sulla spinta riformistica perseguita dal presidente Xi Jinping, sul quale convergono formalmente tutti i poteri dello Stato come non succedeva dai tempi di Mao Zedong. Ciò sembra renderlo padrone assoluto della politica interna e internazionale, mentre in realtà deve sottostare agli indirizzi stabiliti dal Comitato Centrale interno del Politburo del Partito Comunista Cinese che costituisce il vero governo della Cina, anche se questa struttura esercita il suo potere nell’ombra. Dopo che, tre anni or sono, i delegati al Congresso nazionale del Pcc hanno eletto i componenti del Comitato Centrale interno (il cui numero è stato ridotto da nove a sette) e quest’ultimi a loro volta hanno scelto Xi Jinping come Segretario Generale del Comitato e capo supremo dello Stato, sono stati decisi due indirizzi strategici prioritari. Sul fronte interno, una lotta serrata alla corruzione che pervadeva – e in parte continua a pervadere – l’intero sistema amministrativo e politico della nazione e, sul fronte esterno, una maggiore “esposizione” della Cina nel contesto internazionale, con l’obiettivo di assumere la leadership, effettiva anche se non ufficiale, dei Brics che contestano il sistema monetario e finanziario internazionale sancito nella conferenza di Bretton Woods dopo la vittoria degli alleati nella Seconda Guerra Mondiale. In effetti, Xi Jinping si è mosso con determinazione su entrambi i fronti. La lotta alla corruzione ha tolto di mezzo centinaia di migliaia di impiegati e funzionari pubblici che sono stati arrestati e, in molti casi, incarcerati tramite procedimenti giudiziari sommari. La Cina, grazie alla fitta rete di intese e alleanze che Xi Jinping è riuscito a intessere a livello internazionale, è diventata la forza trainante dei Brics nonché paladina dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo che ritengono di non essere sufficientemente aiutati, se non del tutto ignorati, dagli organismi finanziari internazionali a guida occidentale, come la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale. Quindi si può dire che, al di là del rallentamento del suo ritmo di crescita, la Cina è riuscita a capitalizzare al meglio la sua forza economica e a “infastidire” non poco l’egemonia politica e militare degli Stati Uniti. Ciò non toglie però che, prima di poter confrontarsi alla pari con quest’ultimi, ha molta strada da fare sul terreno delle riforme politiche e istituzionali, e che molta acqua deve ancora passare sotto i ponti dello Yangtze.



Domanda: quali sono gli attuali rapporti di forza all’interno del Pcc, i leader delle principali correnti e il rapporto tra il Partito (poderosa massa di manovra non solo politica) con gli apparati di sicurezza e soprattutto con l’Esercito popolare?

Come già detto, il Comitato Centrale interno del Politburo del Pcc controlla saldamente il Partito ed è l’effettivo governo della Cina, funzione formalmente accentrata sul presidente Xi Jinping e supinamente accettata dagli apparati del Partito. Non ci sono attualmente esponenti in grado di contestare la posizione di Xi Jinping né, men che mai, di insidiarla. Dopo l’avvento al potere del nuovo Comitato Centrale interno sono stati gradatamente neutralizzati tutti i suoi potenziali rivali rendendoli bersaglio della lotta alla corruzione, a partire dal capo dei servizi di sicurezza Zhou Yongkang, che è stato condannato all’ergastolo nel giugno dello scorso anno con l’accusa di aver ricevuto tangenti in cambio di informazioni segrete. Zhou Yonkang è l’esponente del Pcc di più alto rango caduto vittima di una purga politica dai tempi di Mao. Questo repulisti ha preso di mira figure legate fra loro da una sottile maglia di alleanze politiche, che ha permesso di individuarle una a una e metterle successivamente fuori gioco. Da Zhou Yongkang si è arrivati a Ling Jihua, Bo Xilai e Xu Caihou, tutti e tre personaggi prominenti del Partito e tutti e tre finiti in galera o al confino. Per giustificarne l’epurazione è stata addirittura riesumata l’espressione “banda dei quattro” con la quale, dopo la morte di Mao, furono etichettati, processati e condannati i quattro responsabili dell’ondata di violenza che segnò gli anni della Rivoluzione Culturale. La purga è stata estesa anche alle gerarchie militari con l’arresto di Guo Boxiong, vicepresidente della Commissione Militare Centrale (organismo che presiede l’Esercito Popolare Di Liberazione, ovvero le forze armate cinesi). Emblematica dell’implacabilità della lotta alla corruzione e agli avversari veri o potenziali dell’attuale gruppo dirigente del Pcc, l’espressione che è apparsa sul Quotidiano del Popolo insieme alla notizia dell’arresto di Guo: “Un demonio eliminato, tutti gli altri avvertiti”.



Domanda: dopo la Birmania, il Vietnam… Sempre più Paesi della tradizionale sfera di influenza di Pechino si spostano verso gli Usa; e questo mentre il Giappone riarma. Come reagisce la Cina, è vittima di una sindrome d’accerchiamento?

Se da una parte la strategia denominata “Pivot to East Asia”, adottata nel 2012 dal governo Obama, ha avuto l’effetto di contrastare l’influenza della Cina sulle nazioni vicine, dall’altra ha consolidato l’idea che la Cina ha di se stessa come potenza in grado di preoccupare gli Stati Uniti, al punto di spingerli a prendere iniziative assai controverse e piuttosto malviste dall’opinione pubblica mondiale, come quella di indurre il Giappone al riarmo. Quindi più che vittima di una sindrome d’accerchiamento la Cina si sente ancora più legittimata nel rafforzare la propria forza militare, e nell’espandere la sua area di influenza nel resto del mondo. In aggiunta a ciò resta da vedere quali pieghe prenderà la politica estera americana dopo l’uscita di scena di Obama. Il riarmo del Giappone dovrà essere in larga parte finanziato da Washington visto l’enorme debito pubblico che grava sulla finanza pubblica giapponese e non è da escludere che il successore di Obama preferisca concentrare gli sforzi su altre importanti aree del mondo come l’America Latina o l’Africa. Il confronto Stati Uniti – Cina si presenta come una gara di resistenza e Pechino è convinta che, a medio o lungo termine, gli Usa saranno costretti a retrocedere.



Domanda: lei ha uno specifico focus sul campo psicanalitico, qualche anno fa, Chen Guidi e Wu Chuntao hanno dedicato un loro volume – “Può la barca affondare il mare” – non solo alle condizioni di vita dei contadini cinesi, ma soprattutto al loro stato di salute mentale. Può, in questo senso, aggiungere qualche ulteriore elemento rispetto all’impatto dei processi di modernizzazione sul popolo cinese. E infine, quali sono le principali caratteristiche dell’immaginario collettivo e dell’universo mentale del cinese contemporaneo?

Rispondere a questa domanda richiederebbe un lungo discorso che andrebbe ben oltre lo spazio di questa intervista, e devo pertanto limitarmi ad alcune osservazioni. Il libro di Chen Guidi e Wu Chuntao risale al 2004, quando il governo cinese era ancora completamente assorbito nel gestire un piano di sviluppo industriale ed economico senza precedenti nella storia umana. Il libro ha avuto il merito di dischiudere agli occhi del mondo sulle condizioni di estrema indigenza della popolazione rurale della Cina, ed il suo asservimento al potere di funzionari locali corrotti che ricorrevano a mezzi intimidatori, minacce e violenze per incassare imposte e balzelli illegittimi. Il libro ha generato nell’Occidente l’impressione che tale situazione fosse frutto della nuova politica economica della Cina, che aveva voltato le spalle al mondo contadino puntando esclusivamente sullo sviluppo industriale. In realtà le condizioni di vita nell’interno della Cina erano rimaste immutate da secoli e la modernizzazione economica aveva aperto per la prima volta a masse di giovani contadini l’opportunità di trovare lavoro e ricevere salari minimi, ma sicuri, nei grandi centri industrializzati delle regioni costiere del Paese. L’effetto penalizzante sulle zone rurali è stato quello dell’esodo dei giovani che, oltre a privare le famiglie del lavoro agricolo dei figli, è stato emotivamente lacerante per genitori e nonni abituati da sempre a una vita incentrata sull’unione familiare. In ogni caso, i figli sono rimasti legati alle loro famiglie anche inviando a casa parte dei loro magri salari, ma lo strappo ha avuto effetti psicologici dolorosi, sia per chi emigrava che per chi restava. L’attaccamento alla famiglia, l’obbedienza e il rispetto dei giovani per gli anziani sono state e restano l’asse portante della realtà psicologica dei cinesi, e quando l’asse viene incrinato e talora rotto le conseguenze sul piano psichico possono essere devastanti. La salute mentale in Cina, tanto nelle zone rurali quanto nelle metropoli, risente infatti moltissimo della mutata realtà esistenziale. Il loro immaginario collettivo e universo interiore così profondamente legato ai rapporti famigliari ne è rimasto travolto, e non sorprende che il numero dei ricoverati negli ospedali psichiatrici, dei sofferenti di malattie mentali e dei suicidi, negli ultimi decenni, sia fortemente aumentato. Le statistiche ufficiali dipingono un quadro inquietante. Sono più di 160 milioni le persone afflitte da gravi malattie mentali come la schizofrenia e la psicosi paranoica, e altre 100 milioni soffrono di disturbi mentali cronici come l’ansia e la depressione. È il prezzo che la Cina sta pagando per aver raggiunto il rango di seconda potenza economica del mondo, ma è irrealistico pensare che avrebbe potuto continuare – come aveva sempre fatto nei suoi precedenti tremila anni di storia – a chiudersi nel suo guscio. Ora però è tempo che chi la governa cominci a rivedere le politiche di sviluppo e a rendersi conto che non di solo pane vive l’uomo.

di Salvatore Santangelo - 11 aprile 2016

Fonte: http://www.geopolitica.info

 


 

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